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(19 Aprile 2013) Enzo Apicella

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La marcia senza suono

cine-racconto del corteo del 20 ottobre a Roma

(22 Ottobre 2007)

Le ragioni erano chiare a tutti. Inutile girarci attorno.
Il grande dilemma della giornata, l’unico, è se portarsi o meno il giaccone pesante. Se la temperatura non cala di botto, si rischia di marciare per chilometri con un fardello in braccio; se invece precipita, si rischia il congelamento.

Sappiamo di militanti lucani col cappello rosso, operai veneti dietro striscioni corazzati, attivisti con la bandiera della Cgil, uno con quella dell’Unione. Sentiamo le loro argomentazioni da giocoliere sui trampoli: “Non siamo qui contro il governo, siamo qui per dargli una mano”, “Vogliamo renderci visibili all’esecutivo”, “Siamo i migliori alleati Prodi, i franchi tiratori sono altrove”. Per quanto ci riguarda non abbiamo dubbi o fremiti di coscienza. Questo governo ha fallito in tema di mercato del lavoro (e non solo). Non poteva essere altrimenti, non abbiamo mai avuto pie illusioni al riguardo. Siamo precari della scuola, delle Coop “rosse”, della stampa; o di tutto il resto messo assieme: precari universali, a tutto tondo, beni fungibili nell’era della flessibilità globale. Identità col punto di domanda. E non ci interessa molto – come invece sostiene Vauro – del precariato di Prodi e Mastella. È con spirito conflittuale che scendiamo in piazza, perché non ci sta a cuore la sorte di nessun governo. Non ne abbiamo di amici, da quel versante.

Partono quattro pullman. Nel nostro c’è persino la tv. Viaggiamo gratis, senza contributi volontari. Non ci capita da tempo immemorabile. In altri frangenti della convulsa vita della sinistra di piazza e di palazzo, per aggregarci a sbafo alle manifestazioni nazionali c’era da dare il nome falso. E a volte ricorrere alla plastica facciale, al travisamento dei connotati. Stavolta l’aria è diversa. Siamo accolti nel pullman di Rifondazione. Viaggiamo con gli studenti dei collettivi universitari, con pezzi di Arci e PRC. C’è anche una troupe televisiva. Non ci intervisterà, ma fa niente. Ci è andata di lusso.

Sanno come la pensiamo in tema di desistenze a perdere. Ma capiamo subito che lo sforzo organizzativo è molto più che formale. La sensazione diventa netta, fisica, in piazza Esedra, già dalle 13. C’è tanta gente. La “sinistra radicale” ha dovuto aggirare trappole e vuoti mediatici, buchi dell’informazione difficili da rattoppare. E sta gremendo il suo corteo, sopperendo con una macchina organizzativa degna di tempi migliori ai limiti di propaganda. Si stanno giocando tutto, non c’è bisogno d’essere analisti per capirlo. Lo strappo del 1998 – quello bertinottiano – aleggia ancora nelle coscienze remote dei militanti. La rabbia è trattenuta. Una ragazza sfila con un cartellone che riecheggia Kissinger: “è un governo di merda, ma è il nostro governo”. Posizioni schizofreniche, ridicole, se non si sa leggere lo stato d’animo complessato di questo popolo. Lo hanno accusato d’aver accoltellato Prodi una volta, ed i sensi di colpa sono cresciuti a dismisura. Adesso lo punzecchiano, lo provocano, mostrano le scapole del leader in attesa del bis delle Idi di marzo. Lo stesso leader fa di tutto per farsi abbattere. La tentazione è grossa. Moventi e alibi sono già pronti. Ma si rischia di scontare tutto in una rata sola. Ed è gente troppo abituata a ragionare in proiezioni elettorali per non rendersi conto di quanto suoni patetica l’inconguenza di essere al governo e manifestargli contro; troppo avvezza a misurare la popolarità delle proprie tesi in scranni parlamentari per comprendere la vigliaccheria di un partito che fa indire cortei al proprio giornale e non presenta alla piazza un solo ministro. L’unica via d’uscita è la federazione delle sinistre, diciamo ad alcuni compagni. La fontana inonda d’acqua i presenti. Fa caldo, per la gioia di quelli che non hanno portato il giaccone. L’unica via d’uscita è un anno sabbatico, un manifesto programmatico con Verdi, mussiani, sinistre critiche, anticapitaliste, antiliberiste. Una forte politica di adesione dal basso, di militanza sul territorio, di proliferazione di luoghi e sezioni. Di sicuro ci si destina a trent’anni d’opposizione parlamentare, e ci si può scordare l’odore del potere. Ma l’essere minoranza alla Camera non impedisce d’essere maggioranza sociale nel Paese. O, quanto meno, di poter vantare la maggioranza degli attivi, nelle strade.

I compagni ci guardano stralunati. “Siamo felici che a dire certe cose siate proprio voi...”.

“Ma noi lo diciamo per voi. A noi che ci frega”.

Il corteo è formato. È possente. È immobile. I più furbi tentano di divincolarsi, aggirando i blocchi.

Noi siamo dietro: “L’unica sarebbe costringere tutti a girarsi e diventare testa del corteo”, annunciamo ad un sindacalista delle ferrovie. “Noi potemo divetà solo teste de cazzo!”, replica quello. Autostima alle stelle. Ride, ridiamo tutti.

L’ingorgo tra via Cavour e piazza della Repubblica è micidiale. Non si respira.

Ci sono quelli dell’Orsa, i precari dei traghetti di Messina, gli omosessuali sardi (con tanto di bandiera ad hoc).

In via Cavor possiamo stendere lo striscione: “Vita precaria, Lotta continua”. In tanti annuiscono. Altri si domandano se non vi siano, tra le pieghe della federa, implicite incitazioni alla rivisitazione storica. Volantiniamo. Alle transenne capita a tiro un operaio anziano, con tanto di cappello alla peruviana. L’occasione è ghiotta, gli sguardi si incrociano: “Dai, che stavolta ce la facciamo a mandarlo a casa”, gli dico. Quello ha un fremito, trasforma il sorriso in ghigno, mi guarda come un barbaro. S’allontana con la schiena che è tutta un brivido. Da lontano si gira a guardarci, come per assicurarsi che siamo veri. Non può crederci. Mostri.

La testa del corteo è ferma al semaforo, giù. Qualcuno dà voce alle proprie aspirazioni e la considera già in San Giovanni. Uno del servizio d’ordine della Fiom ci chiede d’accelerare il passo. La prima, la seconda, la terza volta. Scoppia il diverbio: è convinto che siamo noi a bloccare il tutto, ad impedire il lieto svolgersi della passeggiata in centro. Potere jacobino. Prima gli urliamo in testa qualcosa, poi gli spieghiamo con le buone che abbiamo ben compreso il suo bisogno di dare visibilità allo spezzone metalmeccanico, ma che in piazza ognuno si prende gli spazi che occupa.

Ci muoviamo. Attraversiamo una città levitante, infreddolita e indifferente. Una coppia di giapponesi si informa, “Communist Party” replica il venditore di gadget. Migliaia di persone marciano compatte, qualcuno si cordona pure, ma da nessuno schieramento s’alzano slogan. Un fiotto isonorizzato. C’è troppa malcelato timore: far scattare un coro significa affermare o avversare qualcuno o qualcosa. E cosa afferma il popolo della sinistra “estrema”? Contro chi osa schierarsi, oggi? L’ossessione politica e una, una soltanto: qualunque sgarbo è un favore a Berlusconi. Ci penso e ci ripenso da anni. Tutti noi lo facciamo spesso. Sono già tredici anni che questo spauracchio limita la libertà d’espressione dei compagni istituzionali. Ma senza polizia politica (quella è troppo impegnata a vedere “terroristi” tra chi inneggia alla lotta di fabbrica, come a Melfi). Con la semplice presenza in potenza. S’avvia al ventennio, questo spaventapasseri. E una tattica cieca costringe a dissimulare i pensieri, a nascondere gli istinti più razionali, dietro una cortina di frasi opportune che rasentano l’opportunismo. Mentre i fascisti si definiscono “futuristi” e – nel nome del precariato – dipingono di rosso la fontana di Trevi, raccogliendo unanime consenso popolare. Una brutta crisi semantica.

All’altezza di Santa Maria Maggiore il corteo si dirada. Si respira vento gelido. Adesso i giacconi servono sul serio. I fotografi notano lo striscione. Lo immortalano col sorriso. Sembra una benedizione poter fissare sulle digitali questi residui circensi. Noi parliamo d’altro, ormai il fenomeno della sinistra in marcia non ci interessa più. E tantomeno l’inseguirsi di cifre. Dicono 150mila, i più cauti. La questura, da qualche tempo, non si esprime più. Noi riteniamo la cifra azzardata, ma non abbiamo parametri di valutazione. I napoletani battono sui tamburi e chiedono “lavoro”. I sardi (sempre loro) che la Nato abbandoni l’isola. Il camion degli studenti medi intona “Bella ciao” in tutte le varianti possibili, dagli Zebda ai Modena City Ramblers. I ragazzini e le ragazzine saltano e ballano, mettono in scena il solito carnevale festaiolo. Ci si domanda, stavolta al limite dell’irritazione, cosa cazzo ci sia da ballare sulla sepoltura di un partigiano. I più assennati chiosano: “Sono ragazzi”, ma io non riesco a smettere di guardare con disprezzo quello spettacolo della natura. Ci sono altri due camion muniti di casse. Ma sembrano tacere, ovattati. Le bandiere dei Comunisti Italiani sventolano all’unisono. Marco Rizzo si fa i vasconi ai margini della fiumana. Su via Merulana c’è una cappa di gelo, Nichi Vendola ci passa accanto. Gli vorremmo chiedere come mai non ha regolarizzato la posizione dei precari che lavorano presso le cooperative che servono le Asl pugliesi. Ma non facciamo a tempo a raggiungerlo. Si intravede San Giovanni, col palco. Sembra il Primo maggio. Sospiriamo all’unisono. Chi porta lo striscione è ormai ibernato. Non ci avviciniamo neppure al grosso degli spettatori dello spettacolo di Ulderico Pesce. Sostiamo, bivacchiamo. Sarebbe bello, ci diciamo, assistere agli scossoni interni, ai dibattiti nei partiti, per capire cosa cambia – se cambia qualcosa – nella strategia politica del futuro prossimo. Ma a Foggia non sarà possibile. Rifondazione non esiste più da tempo. E poi, comunque, rimarremmo delusi. Non cambierà nulla. Quel che ci circonda è pura fiction, un atto di forza mediatico. Non ci pentiamo: era importante esserci, distribuire i nostri volantini, far conoscere a tanti sconosciuti le nostre condizioni, le nostre posizioni, fermarci a parlare, a consigliare, a criticare. Quel che dovrebbero fare sempre (e che non fanno mai) i centri sociali della capitale, se vogliono sfuggire alla compiaciuta e compita autoghettizzazione. Il “Ponte della Ghisolfa” entra nella piazza. Ripristinare il blocco autonomo, in coda ai cortei ufficiali, con le proprie dirompenti argomentazioni: di questo sentiamo un gran bisogno. Perché aldilà delle facili etichette, in piazza c’è gente in carne ed ossa, precari veri. Ed è quanto meno dissonante farsi paladini conto terzi di un’idea di principio senza praticarne le contraddizioni reali. Nella piazza entra di tutto. I “Radicali di sinistra”, un circolo “Carlo Pesacane” di Rionero che latineggia Hobbes (“Pacta sunt servanda”), quelli che contestano le basi militari. Ascanio Celestini racconta dell’Atesia. Noi dobbiamo tornare al parcheggio dell’Anagnina. Abbracciare i compagni che sono stati con noi, quelli che restano e quelli che partono per altre destinazioni. C’è tempo per un kebab. E per un paio di considerazioni ancora sul bisogno forsennato di non lasciare che altri spieghino al popolo che non è affatto costretto a subire ricatti per una vita. Un gruppetto esulta all’imbocco della metro: ha pareggiato il Napoli. La tv ci comunica che eravamo un milione. Nel pullman qualcuno commenta: “Un tempo ci accontentavamo di 200mila, adesso si sparano i milioni come niente fosse”.

I tempi cambiano.

estratto da "Plebe" n.24

21/10/2007

Laboratorio Politico "Jacob" - via M.Pagano 38 - Foggia
www.agitproponline.com

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