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(18 Novembre 2008) Enzo Apicella

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    Le nuove gabbie salariali

    (1 Dicembre 2007)

    Salari e produttività: si punta a creare moderne gabbie salariali non solo a livello territoriale ma anche per dimensione d’azienda, al consolidamento della distribuzione dei redditi esistente, ad un ulteriore contenimento dei salari e ad un aumento dello sfruttamento.

    Da anni le retribuzioni sono costantemente sotto l’inflazione; la riduzione del potere di acquisto dei salari è ormai riconosciuto da autorevoli istituzioni e strutture di ricerca, se ne riconosce l’effetto sul livello dei consumi e quindi sul livello della crescita economica.

    La Cub ritiene che ciò sia diretta conseguenza della politica concertativa di cgil, cisl e uil che ha imposto ai lavoratori un drastico contenimento dei salari e la cancellazione di strumenti di adeguamento dei salari al costo della vita.
    Da oltre dieci anni inoltre l’aumento della produttività è rimasta quasi totalmente nelle mani delle imprese.

    La politica liberista dei governi inoltre ha privatizzato servizi, aumentato tasse e tariffe, avviato lo smantellamento della previdenza pubblica, deliberato incentivi alle imprese.
    Dall’operazione congiunta si è realizzato un notevole spostamento della ricchezza a favore dei profitti e delle rendite a discapito dei salari, stipendi e pensioni.

    L’ultima soluzione del problema prospettata da parte del governo e del padronato prevede che una crescita dei salari può avvenire solo a fronte di un aumento della produttività e siccome essa è estremamente differenziata, sarebbe necessario:
    modificare gli equilibri tra contrattazione nazionale ed aziendale o locale, e sindacati e lavoratori dovrebbero ingegnarsi meglio ad “andare a prendere i quattrini là dove ci sono” . A cominciare dalle imprese e dalle aree più dinamiche e redditizie, senza costringere imprese deboli ad assumere oneri per esse insostenibili.
    Un nuovo patto tra imprese e lavoratori per aumentare la produttività.

    Si punta a creare moderne gabbie salariali non solo a livello territoriale ma anche per dimensione d’azienda, al consolidamento della distribuzione dei redditi esistente, ad un ulteriore contenimento dei salari e ad un aumento dello sfruttamento.

    Nessuno si pone il problema di riconoscere ai lavoratori la produttività già realizzata dal 1993 ad oggi tanto meno si discute su come elevare stabilmente la produttività senza comprimere al tempo stesso l’occupazione ed i salari .
    Gli indicatori della produttività che si usano contro i lavoratori sono poco adatti a misurare i risultati dell’utilizzo del lavoro poiché esaminano solo la produttività del lavoro e non quella totale dei fattori produttivi.
    La produttività ristagna se il PIL cresce poco, se non c’è innovazione tecnologica (la moderazione salariale rende più competitivo il lavoro rispetto agli investimenti) e se la struttura industriale è costituita da piccole aziende e da settori marginali.
    In Italia infatti:
    La stragrande maggioranza delle imprese è di piccole e piccolissime dimensioni mentre la quota delle grandi e grandissime imprese sul numero totale di imprese è molto bassa;

    Un apparato produttivo caratterizzato dalle piccole dimensioni è tendenzialmente meno produttivo di uno contraddistinto dalle grandi dimensioni. In un apparato produttivo che si terziarizza e in cui aumenta il peso delle classi dimensionali minori si realizza un livello decrescente della produttività del lavoro.

    Dalle tabelle risulta che: sono le grandi imprese a generare i livelli più alti della produttività del lavoro ( 156%). In tabella sono riportati i rapporti percentuali tra la produttività di ciascuna classe dimensionale nel settore indicato e la produttività media realizzata nell’economia nel 2002 (pari a € 37.300 per addetto e 38,8 nel 2004). Emerge chiaramente la relazione crescente che lega la produttività alla dimensione.

    Per l’intera economia, la produttività nelle micro-imprese (quelle caratterizzate da un numero di addetti compreso tra 1 e 9) era poco più del 70% della produttività media dell’economia nel 2002 ed è meno del 69% nel 2004.

    La produttività nelle grandi imprese (oltre 250 addetti) era il 152,5% ed è diventata il 156,1% nel 2004. Si nota anche che la produttività delle micro-imprese non è molto dissimile da settore a settore mentre le grandi imprese più produttive sono chiaramente nell’industria in senso stretto. Le aziende con oltre 250 addetti del settore industriale hanno realizzato nel 2004 una produttività doppia rispetto alla media dell’intera economia.

    Le caratteristiche del modello produttivo italiano non favoriscono la crescita della competitività.
    Nel confronto europeo, le imprese italiane sono di dimensioni ridotte, specializzate in settori a basso valore aggiunto e adottano in molti casi modelli di organizzazione basati sulla conduzione familiare: in queste imprese l’innovazione e la produttività sono comparativamente più basse e una redditività sufficiente è conseguita grazie a un costo del lavoro relativamente inferiore.

    La soluzione della questione salariale non può essere affrontata con un nuovo patto sociale questa volta incentrato sulla produttività. Servirebbe solo a stabilizzare le quote distributive così come finora determinate. Non serve un nuovo scambio ma una redistribuzione del reddito: le risorse per il lavoro mancano perché qualcuno se ne appropria in misura sempre più marcata.

    A cura dell’Ufficio studi Cub

    Milano dicembre 2007-

    Confederazione Unitaria di Base
    cub.nazionale@tiscali.it
    www.cub.it

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