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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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Gli operai non hanno né partiti né governi attenti ai loro bisogni

Intervista a Gigi Malabarba

(9 Febbraio 2008)

Malabarba Veltroni dice di voler portare gli operai in Parlamento, è populismo?
Non credo. E’ un’idea che rispecchia in pieno la tipologia del suo partito, un contenitore che diventa la casa interclassista di tutte le rappresentanze sociali. Veltroni vorrebbe accanto gli operai e Montezemolo e forse questo si può fare. Quello che non si può fare è curare gli interessi di entrambi perché sono contrapposti.

Il Parlamento italiano di operai ne ha avuti sempre pochi ma negli anni della Seconda Repubblica sono diventati una rarità
A Sinistra era tradizione che il Pci portasse in Parlamento i rappresentanti dei lavoratori, c’erano operai e contadini. Certo i tempi sono cambiati, nelle ultime legislature gli operai eravamo io e Buglio. Quando entrai in Senato nel 2001 insieme a Pizzinato facemmo un piccolo dossier sulla provenienza sociale degli onorevoli, nelle schede fornite dall’Istituzione anche lui risultava essere un operaio. In effetti negli anni Cinquanta, prima di diventare sindacalista, aveva lavorato alla Borletti. Insomma dalla documentazione il quadro della composizione parlamentare non solo non vedeva alcuna presenza operaia ma neppure quella di lavoratori dipendenti. Questo è un vero problema perché i famosi rappresentanti del popolo non possono comprendere il popolo se non appartengono al popolo. Un altro esempio: sono stato a discutere spesso con Treu capogruppo dell’Ulivo nella commissione che prendeva in esame l’aumento dell’età pensionabile, m’accorgevo che l’impostazione dei suoi ragionamenti non coglieva il punto di vista operaio riguardo al logorio d’un certo tipo di lavoro e drammaticamente non riusciva proprio a comprenderlo. Se diamo uno sguardo alla provenienza dei parlamentari le categorie rappresentate sono in maggioranza i manager pubblici e privati e i professionisti – avvocati, professori, magistrati -. Inoltre col berlusconismo sono aumentati gl’imprenditori impegnati in politica, cosa che solo trent’anni fa sarebbe risultata blasfema. E’ un Parlamento classista che vede il mondo del lavoro con l’occhio degli affari.

C’è un bel libro di Berrini ‘‘Noi siamo la classe operaia’’ che nel ricordare la vicenda storico-politica dei lavoratori dei cantieri navali di Monfalcone nel 1945 parla di valori di classe. Dov’è finito l’orgoglio operaio?
Purtroppo s’è trasformato in disperazione per mancanza di riferimenti partitici. Nella mia vita ho conosciuto bene l’industria dell’auto e continuo a frequentarla per impegni politici – dopo l’esperienza da senatore iniziata nel 2001 e conclusa nell’ottobre 2006 con la staffetta con Heidi Giuliani, Malabarba è tuttora in mobilità, andrà in pensione a breve, ndr –. Beh, gli operai esistono. Molti partiti fanno finta di niente, i media li ricordano solo in occasione delle morti bianche ma nel nord del Paese c’è ancora molto lavoro operaio. Non ha la connotazione di classe che abbiamo conosciuto nei Sessanta e Settanta perché l’industria è stata ampiamente delocalizzata e ha subìto l’attacco concentrico delle politiche liberiste. I partiti della Sinistra hanno prestato il fianco a questa strategia e l’operaio attuale si sente solo, abbandonato, poco rappresentato a cominciare dalla politica dei redditi e dei salari per passare al protocollo sul welfare. L’operaio del Duemila non ha più orgoglio da rivendicare, non ha partiti né soluzioni né governi che prestino attenzione ai suoi bisogni. E’ un dramma. Ciò nonostante non sono pessimista perché fra i giovani operai che frequento c’è anche tanta energia.

Ma perché oggi un giovane dovrebbe fare l’operaio guadagnando 900 euro mensili?
Perché molti ragazzi non possono fare altro, soprattutto al nord. In questo l’Italia sembra ancor più divisa di quanto lo fosse negli anni della mia giovinezza. Quando giro nelle province del bresciano incontro figli e nipoti di operai, nelle vite di quelle famiglie da sessant’anni e oltre non è cambiato nulla, sembra un paradosso ma è così. La scolarizzazione, che pure c’è stata, oggi è in ribasso. A causa della diffusa disoccupazione intellettuale le famiglie operaie non sperano nemmeno più nella scalata sociale e non possono permettersi di tenere un figlio per cinque anni parcheggiato in costosissime università - visto che oggi anche gli studi pubblici sono carissimi - con la prospettiva di trovarsi dopo i venticinque anni disoccupati. Così fanno quello che hanno fatto i padri, e iniziano a lavorare appena compiuti i sedici anni, magari abbandonando la scuola superiore come ribadisce un recente studio di De Rita. Esiste una caterva di giovani operai, basta leggere le cifre della Fiom. Ai miei tempi i metalmeccanici erano un milione e mezzo ora sono un milione e ottocentomila, altro che sparizione operaia. Siamo spariti come soggetto sociale.

Più che la dismissione delle fabbriche c’è stata la cancellazione d’un’identità
Ahinoi sì. La mancanze d’un sindacato e d’un Partito di classe per l’intero ventennio degli Ottanta e Novanta hanno prodotto gli effetti che vediamo. Nella Lombardia, che conosco meglio d’ogni altra regione – ha lavorato per trent’anni all’Alfa di Arese, ndr –, Ds e Rifondazione raccoglievano fino alle ultime elezioni solo il 20% del voto operaio che si riversava massicciamente su Lega e Forza Italia. E questo tutt’oggi, non negli anni del boom del bossismo o di Berlusconi. Già dal primo governo Prodi la Sinistra non trovava il passo giusto per interloquire col soggetto operaio, anche Rifondazione ha omesso un impegno, l’organizzazione devi cercarla, perseguirla, costruirla mentre i circoli del partito in fabbrica pian piano sono scomparsi. Creare coscienza politica è quello che t’impedisce di vedere quel che raccontavo: giovani metalmeccanici iscritti alla Cgil che alle elezioni politiche votavano Lega. E io a dirgli: ragazzi ma il razzismo, il corporativismo? La risposta era che sì, in quel voto c’era contraddizione ma la Sinistra sul territorio non era credibile.

Ha visto Signorinaeffe? Che effetto le ha fatto?
Un buon effetto, e non perché abbia contribuito durante la lavorazione del film alla realizzazione di alcune scene, quelle in cui si vedono all’azione le presse negli stabilimenti di Rivalta, fra i più attivi dell’indotto Fiat. Il contatto con la regista Labate, procurato dal Presidente della Camera Bertinotti al quale lei s’era rivolta, è stato cordiale. Mi è piaciuto anche il film che ha saputo narrare uno dei momenti più tragici della classe operaia italiana. Il canto del cigno della grande fabbrica. Centrati i sogni, la realtà, le tensioni, la psicologia di quei giovani proletari.

Che sapore ha oggi percorrere viale Sarca oppure passare per Sesto, Lambrate, la Bovisa? I giovani sanno che Milano era una città operaia?
Qualcuno sì, ma non è affatto automatico. Quello che accade nel bresciano e bergamasco non è valso per Milano dove i figli degli operai hanno tranciato completamente il cordone ombelicale col passato. La città s’è dedicata totalmente al terziario sin dai tempi della ‘Milano da bere’. Oggi la Bicocca è nota per la sala degli Arcimboldi e la presenza di facoltà universitarie come alla Bovisa, al Portello anche se c’è stata parecchia speculazione per quegli spazi. Una parte di archeologia industriale andrebbe recuperata e usata quale testimonianza viva sul territorio, facendone sale d’incontro, biblioteche, auditorium, infrastrutture culturali. Trasformare le fabbriche come il Lingotto del film della Labate, se da una parte è il segno dei tempi, ci dice pure che i tempi sono bui. Perché occorre valorizzare non solo la merce ma chi la produce.

8 febbraio 2008

intervista raccolta da Enrico Campofreda

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