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(7 Gennaio 2003)
I dati dell'Istat sull'aumento delle retribuzioni nel 2002 sottolineano un impoverimento generale - l'ennesimo - del lavoro dipendente.
Ma l'Istat stessa è al centro delle contestazioni di pressoché tutte le associazioni dei consumatori per la non corrispondenza tra l'inflazione rilevata e quella "sentita" dalle famiglie.
Secondo l'Istat - che lavora in base alle medie nazionali - i salari del lavoro dipendente sono cresciuti, a novembre di quest'anno, del 2,1% rispetto allo stesso mese del 2001.
Su base mensile, invece, l'incremento è stato appena dello 0,1%, visto che l'unico impegno contrattuale in scadenza nel periodo era quello del credito. Anche i prezzi alla produzione (+1,2% nel 2002) corrono assai meno dei prezzi al consumo (2,8-2,9).
Per capire la portata di questi numeri bisogna però tener presente che la "media" è relativa esclusivamente ai contratti collettivi nazionali in vigore a novembre, che coprono appena il 62% del lavoro dipendente in generale (7,3 milioni di lavoratori).
Tutti gli altri - lavoratori con contratti scaduti e, a maggior ragione, lavoratori con contratti atipici o "in nero" - presentano redditi salariali non presi in considerazione o addirittura ignoti.
Se entrassero nella media, è facile prevedere, l'abbasserebbero di molto.
L'Istat avverte che se non vi fossero rinnovi, nel semestre dicembre 2002-maggio 2003 il tasso di crescita tendenziale dell'indice generale passerebbe da un valore del 2,1% all'1,6% nel mese di maggio.
La copertura complessiva dei contratti nazionali scenderebbe infatti al 36,7% del totale, perché tra gennaio e maggio ne vanno in scadenza ben il 63,5%.
La rilevanza statistica dei contratti nazionali è insomma altissima, mentre quella di tutte le forme precarie del lavoro è praticamente nulla.
Centro di documentazione e lotta - Roma
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