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il pane e le rose

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Stefano Chiarini: una penna come una pietra

(12 Febbraio 2008)

Ricordo ancora il profondo sconforto, la immensa tristezza che ci ha colti tutti quel pomeriggio del 3 febbraio dello scorso anno, quando abbiamo appreso che un infarto se lo era portato via, all’improvviso, senza darci neanche il tempo di salutarlo per l’ultima volta. Solo in quel momento ci siamo accorti quanto ci fosse caro, quanto per tutti noi Stefano rappresentasse un fondamentale punto di riferimento umano oltre che professionale. E poi, negli ultimi anni, anche politico. Anche per chi, in fondo, non lo conosceva poi così bene, se non per il lavoro di giornalista che svolgeva con tanta passione e diligenza.

Ho cercato di ricordare il momento esatto in cui conobbi Stefano, che per me allora era un ‘distinto signore’ prima ancora che ‘un giornalista del collettivo del Manifesto”, come amava definirsi. Per la prima volta lo ascoltai parlare durante un dibattito sulla questione irlandese, all’inizio degli anni ’90, quando ai morti causati nell’Ulster dal conflitto si dedicavano sui quotidiani solo poche righe distratte e superficiali.

Già allora mi colpì la profondità dell’analisi di Chiarini sul movimento di liberazione irlandese, l’attenzione all’uso corretto delle categorie interpretative e descrittive, la conoscenza diretta dei personaggi e dei territori di cui parlava. Ricordo che dedicò buona parte del suo intervento a spiegare alla attenta platea, composta per lo più di giovani e giovanissimi, quanto fosse sbagliato e fuorviante definire quello in Irlanda del Nord un conflitto interreligioso tra protestanti e cattolici. Argomentò che la divisione che tante sofferenze continuava a provocare era politica, sociale, radicata nella storia centenaria di due comunità messe in contrapposizione dalle scelte dei governi di Londra e delle elite politiche ed economiche locali. In quella occasione sentì usare per la prima volta il termine ‘apartheid’ in un contesto che non riguardasse il Sudafrica razzista, ma un pezzo della “civile e democratica” Europa. Lo usò per descrivere le condizioni delle classi popolari irlandesi e repubblicane, escluse dalle istituzioni rappresentative, dai posti di lavoro più retribuiti e qualificati, dall’Università, dal diritto all’assegnazione ad una casa popolare.

Quel termine - ‘apartheid’ - Stefano è tornato ad usarlo spesso quando ha cominciato ad occuparsi sempre più frequentemente di Palestina, con le sue cronache particolareggiate sulle condizioni di quel popolo privato di ogni diritto, finanche della sua dignità da parte di una occupazione militare che, amava ripetere, corrompeva non solo la società aggredita ma anche quella di Israele. Non erano mai banali, o scontate, le sue cronache quotidiane dalle città martoriate dell’Iraq e della Palestina (sul Manifesto, o dai microfoni delle radio comunitarie). Ma poi anche da quei campi profughi libanesi in cui Stefano è tornato ogni anno a settembre, inventandosi quel “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” che con il compito di non lasciar morire la memoria di quei massacri è riuscito a portare in quei formicai umani centinaia di giornalisti, attivisti politici e parlamentari.

Come ha scritto in un editoriale Talal Salman, il direttore del quotidiano di Beirut “As Safir”:

“I libanesi, ed in particolare i palestinesi in Libano, conoscono bene questo lottatore, con quel suo solare sorriso, e quei tiepidi occhi, ed il suo annuale appuntamento del 14 settembre, … arrivava alla testa di una delegazione di tutto l’arcobaleno della solidarietà (…) per commemorare i martiri di Sabra e Chatila, uccisi o sepolti vivi in quel terribile massacro (…).”

Di quei campi profughi palestinesi in Libano, Stefano conosceva ogni portone, ogni vicolo, ogni angolo, così come conosceva ogni volto e ogni tragedia di quella umanità reietta, di quegli anziani che tengono ancora in bella vista nelle fatiscenti abitazioni in cui sono costretti a sopravvivere da lunghi decenni, le chiavi delle loro case in Palestina dalle quali furono cacciati nel 1967, o ancora prima, nel 1948.

“Abbiamo condiviso le strade di Beirut fino a sollevarlo di peso in mezzo alla strada nominandolo scherzosamente Lo Sceicco e portandocelo in giro” ricorda Sergio Cararo del Forum Palestina. Questa esperienza, oggi in prima linea nel boicottaggio della Fiera del Libro di Torino incredibilmente dedicata ad Israele proprio in coincidenza con il 60° anniversario della Nakba, Stefano contribuì a lanciarla, insieme a pochi altri, cogliendo l’urgenza di impedire che i palestinesi diventassero di nuovo la vittima sacrificale di un mondo impazzito e devastato dalla guerra globale e permanente scatenata dall’occidente dopo l’11 settembre del 2001.

Ci mancherà immensamente quella sua laboriosa testardaggine con cui si misurava con gli obiettivi, quel suo non dirti mai di no sorridente e sornione. La sua passione, la generosità umana e professionale l’abbiamo vista all’opera innumerevoli volte, con lungimiranza e modestia. Divenne per noi fondamentale quando rimase a Baghdad sotto le bombe sganciate nel 1991 anche dai piloti italiani, e poi quando cominciò a percorrere le città e i territori palestinesi – occupati!, ricordava sempre nei suoi interventi con la puntigliosa determinazione di chi sa di aver ragione – e poi la Siria, il Libano, e ancora l’Iraq dopo l’inizio dell’invasione e dell’occupazione che ancora oggi continuano a provocare morte e sofferenza a milioni di civili innocenti. Non era certo un giornalista embedded Stefano, e anzi ci ha sempre tenuto a sottolineare la sua indipendenza anche rispetto al giornale alla crescita del quale ha sempre fedelmente contribuito. Era certamente un giornalista di parte, non lo ha mai negato, ma mai fazioso o rancoroso. Chi lo ha conosciuto ricorda che Stefano era capace di raccontare i particolari più tragici, di dare interpretazioni precise e schierate, di prendere apertamente posizione senza mai alzare i toni, senza mai lasciarsi prendere dalla polemica spicciola. Alla nettezza dei suoi argomenti ha sempre associato una profonda e tranquillizzante pacatezza, forte della sua esperienza e conoscenza diretta delle cose che raccontava, della sua profonda umanità che gli permetteva di superare diffidenze anche laddove i giornalisti occidentali vengono spesso associati all’aggressore, all’invasore, all’occupante. A dimostrare l’affetto di tutto il mondo arabo per quel giornalista militante che è stato Stefano ci sono gli innumerevoli interventi comparsi dopo la sua morte su un lungo elenco di siti e quotidiani del Medio Oriente. Oltre che le sue foto appiccicate ovunque nei campi profughi palestinesi in Libano, portate in corteo dai bambini di Chatila o di Burj al-Barajni.

Stefano ci ha regalato analisi e riflessioni preziose e originali sulle tendenze in atto in Medio Oriente, riuscendo a consegnarci un quadro sempre aggiornato su uno dei quadranti più complessi della geografia mondiale, senza mai rinunciare al gusto dei particolari, dei dettagli. Ma non si è mai risparmiato nemmeno nel lavoro più modesto, facendo su e giù per l’Italia, partecipando ad innumerevoli momenti di formazione e di dibattito nelle scuole, nei centri sociali, nelle aule delle università e nelle sedi di un associazionismo che dai suoi racconti e dalle sue cronache ha tratto la passione e le argomentazioni per mobilitarsi, per trasformare l’indignazione in azione concreta. Per tanti anni i suoi articoli hanno rappresentato un vero e proprio antidoto alla sistematica disinformazione - quando non aperta propaganda di guerra - profusa dalla maggior parte dei media. Per anni uno dei principali motivi che ci spingeva ad andare in edicola a comprare una copia de ‘Il Manifesto’ è stata la curiosità, a volte la bramosia, di leggere i suoi pezzi. Assieme all’impazienza per la vignetta di Vauro, naturalmente. Sapevamo che Stefano aveva la competenza necessaria, e il coraggio, per chiamare le cose con il loro nome.

Stefano non è stato mai un semplice testimone degli avvenimenti, ma ha avuto il coraggio di opporre la sua penna ai proiettili, per tenere viva la memoria dei popoli e delle persone che nei nostri media non hanno diritto di parola. Come quando scrisse, nel 2000, delle righe che racchiudono un punto di vista, uno stile di fare giornalismo che rappresentano oggi un invito a raccogliere e rilanciare la sua eredità professionale e umana:

“E i palestinesi? Il mondo pensa veramente che si possa arrivare alla pace ignorando la loro esistenza? Il mondo pensa veramente che si possa continuare a negare loro una casa, un lavoro e, nel caso di Chatila, anche una degna sepoltura? Noi non lo pensiamo. E abbiamo deciso di batterci perché il ricordo di quei morti non vada perduto. Che venga data loro una degna sepoltura. E siamo stati sommersi di lettere di sostegno. Una risposta che è anche una speranza di giustizia. Se ognuno portasse a Chatila un fiore nessuno potrebbe più ignorare quella fossa. Per quanto ci riguarda il sedici settembre noi saremo li con il "nostro fiore dall'odore del sangue ma anche del gelsomino".

Marco Santopadre

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