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8 marzo 2008. Centenario della Giornata Internazionale della Donna

Non solo una festa ma una giornata di lotta

(8 Marzo 2008)

Quest’anno ricorre il centenario del tragico evento verificatosi l’8 marzo 1908 a Chicago, nel quale 129 operaie morirono bruciate nella loro fabbrica.

Da allora l’8 marzo è diventata la data simbolica della lotta delle donne, di una lotta di liberazione che per noi si colloca all’interno di tutte le lotte di uomini e donne, nella direzione di un progressivo e totale cambiamento di questa società.

Ormai da alcuni anni ricordiamo la giornata internazionale della donna con una riflessione collettiva su alcuni temi che riguardano più da vicino le donne, ma che in realtà investono la vita di tutti noi e soprattutto la reale natura dell’attuale sistema sociale, politico ed economico.

Se anche quest’anno ci troviamo “costretti” a discutere ancora di attacco al diritto di aborto e di precarietà del mondo del lavoro è perché questi rimangono temi centrali e attuali, che si legano ovviamente ad una riflessione di carattere più generale.

In questi ultimi anni, governi di centro destra e di centro sinistra hanno condotto politiche finalizzate al progressivo depotenziamento della legge 194/78 sull’interruzione volontaria di gravidanza, mirando non tanto ad un divieto o ad una cancellazione di un diritto goduto trasversalmente da tutte le donne, ricche e povere, di destra o di sinistra, quanto ad una sua tendenziale criminalizzazione.

La legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, che costringe migliaia di donne a sottoporsi a cure invasive e scelte forzate sui propri corpi è certo legge di inaudita violenza fisica sulle donne promulgata dal centro destra, ma la paladina della legge 194 Livia Turco ha forse fatto qualcosa per cambiarla? No e anzi oggi, alla vigilia di nuove elezioni politiche dopo la caduta del suo Governo, si affretta a genuflettersi alla Chiesa (come tutti del resto…) promettendo misure volte a limitare l’uso della pillola Ru486, nonché il ricorso all’aborto terapeutico.

Accanto alla voce di queste donne, le uniche che alla fine si sentono davvero, si alzano poi tante altre voci di uomini, politici, giornalisti, uomini da salotto e “filosofi” che fanno a gara per giudicare, decidere, legiferare sul corpo delle donne, sulla loro vita e sulla loro libertà di autodeterminazione.

L’inguardabile Giuliano Ferrara lancia la campagna per la moratoria dell’aborto, equiparando le donne che decidono di abortire, già definite dalla Chiesa “terroriste dal volto umano”, ad esecutrici della pena capitale.

Il tema della maternità diviene ancora una volta oggetto di strumentalizzazione politica, merce da utilizzare in campagna elettorale, per svelare le contraddizioni insite in coalizioni politiche eterogenee, per mettere a nudo i pesanti conflitti interni, come quelli del Partito Democratico. E allora Veltroni è costretto ad esibirsi in “schizofreniche” dichiarazioni che vanno dalla difesa formale della legge 194 alla dichiarata volontà di aggiornare quella legge sul diritto di aborto, definito “dramma da contrastare” (in termini simili, tipo “tragedia dell’umanità”, si espresse tra l’altro qualche anno fa riferendosi al comunismo…)

Oltre a ciò, la “crociata” di Ferrara ha avuto altri pesanti effetti, come la garanzia dell’approvazione da parte della regione Lombardia di linee guida in materia di aborti. Si tratta dell’estensione a tutti gli ospedali della regione di codici di autoregolamentazione che stabiliscono il limite di 21 0 22 settimane per praticare l’aborto terapeutico, dal momento che la 194 non ne stabilisce. Si prevede anche la sostituzione della figura di un solo ginecologo ad opera di un’equipe di medici, tra cui anche uno psichiatra, che potrà così “scrutare” le menti delle donne che compiono una scelta spesso molto drammatica.

Da ricordare che la regione Lombardia già si distingueva per l’adozione della normativa volta ad autorizzare la sepoltura dei feti.

In questo clima oscurantista si collocano, da un lato il raid della polizia nel reparto di ostetricia al Policlinico di Napoli contro una donna che aveva appena fatto ricorso all’aborto terapeutico e, dall’altro, un documento redatto da alcuni ginecologi romani per i quali il feto abortito va mantenuto in vita, anche contro la volontà della donna.

Il terreno culturale che la Chiesa e lo stato borghese vogliono e stanno preparando da tempo, è questo.

Uno Stato che non riconosce il diritto di disporre della propria morte, con il divieto legale dell’eutanasia, ma che si arroga la pretesa di disporre del corpo e della vita delle donne è uno stato che non riconosce i diritti minimi, e che uomini e donne devono combattere con ogni mezzo necessario.

Ma l’ipocrisia più grande che la società capitalista esprime sta proprio nell’invocare il diritto alla vita di un feto e contemporaneamente scatenare guerre imperialiste, guerre di potere e di profitto, che provocano ogni giorno stragi di bambini nati in paesi sfortunati, vittime di un sistema che li condanna alla morte fin dalla nascita.

Le politiche reazionarie e antipopolari portate avanti dai vari governi, sudditi di un sempre maggior interventismo del Vaticano, si concretizzano da anni in un attacco contro le masse popolari, e contro le donne in particolare.

Del resto oggi l’ostacolo maggiore alla maternità e all’incremento delle nascite non è certo la legge 194 che, pur riconoscendo un diritto minimo come quello di garantire la scelta e la libertà di donne e uomini di decidere di sé, delle proprie vite e di quelle che verranno, è legge nata limitata e condizionata. Basti pensare all’obiezione di coscienza, che nei fatti ha da sempre ostacolato l’esercizio di un diritto pur riconosciuto legalmente.

Il vero nemico di maternità e fertilità è molto spesso rappresentato dall’incertezza legata alla precarizzazione del lavoro.

La condizione di precarietà che costringe le nuove generazioni ad una insicurezza di lavoro e di vita, va infatti oltre la dimensione normativo/contrattuale per divenire dimensione “esistenziale”, come in altre occasioni abbiamo ribadito.

Il nodo centrale è che tale condizione, sia per la retribuzione che per l’incertezza sulla stabilità del posto di lavoro, incide sulla scelta di avere un figlio.

Spesso una donna rinuncia alla maternità nel lavoro precario, e un’eventuale maternità diventa fatale, semplicemente impedendo il rinnovo del contratto di lavoro….

I dati statistici ci dicono che in Italia una donna su dieci lascia il lavoro al primo figlio, sia per licenziamento che per “dimissioni volontarie”, che spesso coincidono con dimissioni coatte fatte firmare in bianco dal padrone al momento dell’assunzione.

Dagli anni novanta ad oggi, attraverso una politica concertativa portata avanti da governi di destra e di sinistra che ha prodotto, tra le tante cose, l’abolizione della scala mobile con i vergognosi accordi del’92-‘93, il Pacchetto Treu, la legge Biagi, lo scippo del TFR…, siamo giunti ad un ulteriore tappa nel più generale percorso di arretramento di diritti e conquiste sociali.

Nel luglio dello scorso anno, e come abbiamo ampiamente illustrato nel n. 10 di Primomaggio, il governo “amico” Prodi (… “amico sì ma dei padroni …” ) ha siglato un Protocollo dai contenuti infami, e che rappresenta un ulteriore tassello nel processo di smantellamento della previdenza pubblica e della precarizzazione del lavoro.

I contenuti degli accordi del luglio 2007, siglati ancora una volta alla vigilia della chiusura delle fabbriche, contengono una varietà di provvedimenti volti a colpire le pensioni, a rendere ancora più precario il lavoro (il riferimento è alla normativa relativa ai contratti a termine, tamponata solo in parte dalla finanziaria 2008), a “regalare” ai padroni, attraverso la detassazione dei premi aziendali e degli straordinari. Altro che lotta alla disoccupazione e incentivazione del lavoro giovanile!

Le parole d’ordine di quel Protocollo sono: formazione continua (ossia perdita di tempo, energia, e soldi continua, che la facciano i padroni un po’ di formazione continua!); diminuzione del costo del lavoro (ossia sgravi alle imprese); aumento degli ammortizzatori sociali come l’indennità di disoccupazione (tanto per calmierare una situazione sempre più esplosiva); agevolazioni al credito per i precari (si aumenta la precarietà, ma viene concesso di “inchiodarsi” in misura agevolata…basta ricorrere a procacciatori se ti va bene, a usurai se ti va male….).

E poi il capitolo dedicato alle donne.

La logica è ancora quella di agevolare i lavori flessibili per conciliare meglio casa, attività di cura e lavoro, secondo una logica cara a destra e sinistra, e che vuole il ritorno a casa delle donne, una casa patriarcale ritagliata sugli interessi del capitale e dunque del profitto.

Il ruolo dei sindacati rispetto ai Protocolli di luglio si è reso ancora più evidente con il referendum- farsa dell’ottobre 2007, dove sono stati chiamati a votare i pensionati non coinvolti negli accordi ed esclusi i precari, pesantemente investiti dalle misure in essi contenuti.

La “stabilizzazione” del lavoro precario e flessibile, che genera profitto e contemporaneamente alimenta la dimensione individuale a discapito di una eventuale conflittualità collettiva, ha pesanti ripercussioni in tema di salute e sicurezza del lavoro.

Innanzitutto il ricatto della precarietà frena la pretesa dei lavoratori al rispetto di normative di sicurezza che restano eluse, assicurando agli imprenditori il risparmio sui costi ad esse legati.

In secondo luogo i precari hanno in genere occupazioni più rischiose, peggiori condizioni di lavoro e ricevono scarsa informazione in materia di sicurezza.

“Il malessere degli atipici” è alimentato dalla sequenza dei contratti, dall’incertezza del rinnovo, dal cambiamento di lavoro, che provocano una sensazione di marginalità, di stress e di vulnerabilità, che spesso si traducono in una maggior incidenza degli infortuni sul lavoro.

Insomma, un mondo di “insicurezza” sul luogo di lavoro, e di rischi per la salute fisica e psichica di migliaia di lavoratori su cui i riflettori della televisione non sono puntati.

E le vittime più numerose di questo “sepolcro imbiancato” che sono le normative sulla precarietà del lavoro?
Le donne.

Ancor più degli uomini le donne sono flessibili, co.co.co., co.co.pro, rispondono a chiamata e sono intermittenti, “scadono”…
Le loro vite sono a tempo, i loro progetti in bilico, in un impossibile equilibrio tra vita lavorativa, privata e familiare.

Ma questa non è vita, questa è la vita che vuole la società capitalista, in cui il profitto delle imprese diviene “valore” prioritario rispetto alla vita di lavoratori e lavoratrici, di uomini e donne, che continueranno a morire di lavoro, di guerre, di inquinamento, di mali sociali.

Non ci stiamo. “Noi da una parte, i padroni dall’altra. “O con noi o contro di noi”…

Toscana del Nord, 8 marzo 2008

I compagni e le compagne del Laboratorio Marxista

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