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Raffaele De Grada 1916 2010

Raffaele De Grada 1916 2010

(4 Ottobre 2010) Enzo Apicella
E' morto all’età di 94 anni Raffaele De Grada, comandante partigiano, medaglia d’oro della Resistenza, critico d'arte.

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Contributo al dibattito sul conflitto capitale / lavoro

(1 Maggio 2008)

Al termine di quest’ultima campagna elettorale è evidente l'assenza di reali differenze tra i diversi schieramenti.
Ma non è una novità. Negli ultimi anni, infatti, le politiche delle diverse compagini governative non sono state affatto dissimili nella subordinazione alle attuali esigenze capitalistiche che, in una fase di parziale saturazione dei mercati, necessitano (tra gli altri) del definitivo consolidarsi di un’organizzazione del lavoro flessibile e individualizzata per garantire i processi accumulativi e incrementare i profitti.
E’ evidente che i governi Berlusconi hanno rappresentato una concezione più radicale ed autoritaria del capitalismo di quella incarnata dai governi di centrosinistra.
Questi ultimi hanno infatti interpretato in termini più gradualizzati le esigenze di riorganizzazione economica imposte dalla globalizzazione utilizzando sempre l’efficiente strumento della concertazione con le parti sociali, affinché le necessarie riforme (o “mancate” riforme: si veda l’abrogazione delle norme ritenute più “precarizzanti”, rimasta mera promessa elettorale utile solo per assecondare gli allora alleati della sinistra radicale) siano scevre da ogni forma di opposizione e potenziale conflitto.

E’ noto come la tendenziale perdita di centralità del lavoro dipendente a tempo indeterminato e la sua scomposizione in una serie di forme contrattuali atipiche, la disgregazione sul territorio delle differenti fasi del passato ciclo produttivo fordista per la produzione massificata di beni di consumo, accompagnata dalla necessità di dover affrontare le sfide di un mercato non più limitato al mero ambito locale con antagonisti sempre più agguerriti (la Cina su tutti), siano state il frutto del delicato equilibrio tra governi e parti sociali.

E’ attraverso un uso esperto di leggi, accordi trilaterali e patti territoriali che soprattutto il centrosinistra ha progressivamente svuotato gli istituti giuridici che caratterizzavano il rapporto di lavoro fordista: il superamento del collocamento pubblico con il definitivo passaggio alla chiamata nominativa come forma pressoché esclusiva di avviamento al lavoro; l’estensione delle forme contrattuali atipiche con l’introduzione - ormai datata - di figure prima conosciute solo nelle legislazioni di altri paesi come il lavoro interinale (oggi: somministrazione di manodopera), il contratto di formazione lavoro (oggi sostituito da una specifica forma di apprendistato c.d. professionalizzante), lo stage e la sostanziale liberalizzazione dell’utilizzo dei contratti a tempo determinato (non più subordinato al ricorrere di cause tipizzate e predeterminate dalla legge) e dell’apprendistato.

L’abuso del lavoro straordinario ha poi contribuito a distribuire il tempo di lavoro su un arco di sette giorni pressoché a ciclo continuo se si considera l’alleggerimento per legge dei limiti di orario massimo (è previsto esclusivamente il diritto “a undici ore di riposo consecutivo ogni 24 ore”, peraltro derogabile in sede di contrattazione decentrata, ed è stato abrogato il limite massimo di straordinario di due ore al giorno e di dodici ore a settimana). Anche l’orario è diventato, pertanto, un fattore decisivo nel conseguimento della massima flessibilità della forza lavoro.

L’azione concertativa tra i sindacati confederali e le controparti padronali (e governative) ha permesso di sottoscrivere contratti collettivi e accordi che, introducendo elementi di crescente flessibilità salariale anche attraverso il collegamento stretto della retribuzione all’andamento economico dell’impresa, hanno creato i presupposti per un coinvolgimento anche di natura finanziaria dei dipendenti nell’impresa (per esempio, la corresponsione di quote di salario in azioni dell’azienda o la creazione di specifici fondi alimentati anche con la retribuzione) e un terreno fertile per la revisione del sistema previdenziale e fiscale dell’intero lavoro dipendente.

In tal senso – nonché per il fine specifico di ossigenare un sistema finanziario boccheggiante - è stata, da un lato, riformata la disciplina del trattamento di fine rapporto costringendo i lavoratori addetti ai settori produttivi privati a decidere l'eventuale destinazione nei fondi pensione della propria liquidazione in alternativa alla conservazione del proprio tfr in azienda.

Dall'altro, il governo Prodi e le parti sociali hanno sottoscritto nel mese di luglio 2007 un protocollo che, in materia di welfare e previdenza, prevede, a fronte di un blando incremento delle pensioni sociali, la riduzione dei coefficienti utilizzati per il calcolo delle pensioni ed il progressivo innalzamento dell’età minima per andare in pensione.

Il livello di trattamento previdenziale risulterà ancor più basso, quindi, di quello seguito alla riforma Dini del 1995 che ha sostituito il sistema retributivo con quello contributivo per la quantificazione del valore della pensione da erogare (il calcolo avviene quindi non sulla base delle ultime retribuzioni percepite, ma sui contributi versati).

Sul fronte del mercato del lavoro, invece, il testo dell’accordo non prevede nessuna misura concreta per combattere l’estrema parcellizzazione dell’attuale organizzazione del lavoro che trova nella famigerata legge “Biagi” del 2003 il proprio paradigma più evidente.

Le figure contrattuali flessibili previste e disciplinate in quest’ultima legge, accompagnate dall’abrogazione di quelle norme che costituivano un ultimo ostacolo per l’applicazione indiscriminata dei contratti atipici (dalla legge sul divieto di intermediazione di manodopera all’eliminazione dei limiti legalmente previsti per le esternalizzazioni), si innestano sul terreno descritto in precedenza, accelerando così quella tendenza a costituire rapporti di lavoro sempre più individualizzati, nei quali il singolo lavoratore sarà costretto, senza tutele né garanzia alcuna, a concordare personalmente le proprie condizioni contrattuali con il datore di lavoro (o con quell’intermediario rappresentato dalle agenzie di somministrazione di manodopera).

Ciò che vuole essere definitivamente abbandonata è l’idea della sperequazione esistente tra le posizioni di datore di lavoro e forza lavoro che ha consentito nel corso dell’ultimo secolo di approntare, a seguito delle lotte dei lavoratori, quel sistema di norme e di garanzie sociali a tutela dei lavoratori. In questo contesto devono essere inseriti i ripetuti attacchi ideologici che Confindustria (si veda il discorso di insediamento del nuovo presidente Marcegaglia) e una parte della dottrina lavoristica capitanata dal prof. Ichino (le cui teorie trovano ampio spazio e risalto sulle prime pagine del Corriere della Sera) portano al contratto collettivo nazionale di lavoro e alle tutele minime previste (anche salariali).

Ciò si traduce, altresì, sul piano della percezione sociale, in una vera e propria ideologia nella quale la competitività assurge al ruolo di valore con conseguente affievolimento di quel rapporto solidale che caratterizzava il movimento operaio.

La radicale trasformazione alla quale è sottoposta la passata organizzazione produttiva fordista ha delle profonde ricadute anche sulle sfere personali nelle quali il lavoratore è inserito: egli deve essere sempre disponibile alle esigenze del padrone senza soluzione di continuità tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro.

La tendenza è la ricerca della gestione totale e del pieno controllo tanto della mobilità territoriale quanto della flessibilità temporale della forza-lavoro, accompagnata dal passaggio dal diritto a un’occupazione ad uno status di ricerca continua di occupabilità.

In definitiva, si assiste alla strutturazione di un rinnovato esercito industriale di riserva direttamente inserito all’interno di una produzione in costante modificazione, costituito da lavoratori precari, fortemente soggetti alla subordinazione di una contrattazione sempre più individualizzata e, quindi, altamente flessibili.
Ciò rappresenta - come detto - l’aspetto costante, ed il fine coerente, che ha caratterizzato l’azione legislativa e politica dei governi (di centrodestra e di centrosinistra) degli ultimi anni: tanto che la flessibilizzazione e la precarizzazione della forza-lavoro costituiscono il nuovo dato di omogeneità della condizione materiale di buona parte dell’attuale composizione proletaria, soprattutto giovane ed immigrata.
L’attuale riforma della scuola, che subordina anche l’istruzione alle logiche del mercato e del profitto, introduce infatti ulteriori forme di precarietà con l’utilizzo della figura dello stage in azienda per lo studente frequentante gli istituti tecnici.
Il controllo dei flussi, fondamento della legislazione attualmente in vigore in materia di immigrazione (Bossi-Fini - aggiornata dalla Ferrero-Amato - non molto dissimile dalla precedente Turco-Napolitano), affiancato da una politica di sostanziale dosaggio centellinato dei diritti di cittadinanza agli stranieri, costringe di fatto gli immigrati ad accettare qualsiasi forma di integrazione economica a qualsiasi condizione di lavoro, purché possa offrire qualche prospettiva di inclusione sociale e sia sufficiente, seppur nel breve periodo, ad evitare l’espulsione. Ciò rende l’immigrato, meglio ancora se clandestino, il soggetto flessibile per eccellenza, assolutamente indispensabile al nostro sistema per la sua estrema ricattabilità e vulnerabilità.

L’aumento di flessibilità (che investe i piani delle mansioni, dell’orario di lavoro e della retribuzione), il passaggio dalle tecnologie meccaniche a tecnologie di comunicazione altamente informatizzate, l’accentuazione del peso dei servizi, e in generale del settore terziario, rispetto agli altri settori economici - ormai delocalizzati nelle convenienti periferie del ricco sistema economico occidentale - e nuovi modelli di gestione organizzativa dell’impresa (dal cosiddetto just in time al toyotismo, …) rendono ineludibile la predisposizione di strumenti analitici e d’intervento con la consapevolezza della necessità di adeguarli all’attuale composizione e condizione del lavoro.
Soprattutto nella città di Milano, il tessuto rappresentato dalla vecchia concezione di fabbrica non è più adeguato a costituire di per sé la base sufficiente per attivare meccanismi di ricomposizione adeguati per quella massa di lavoratori che, saltuariamente occupati, vagano lungo le ramificazioni ed i mille rivoli di una produzione non più localizzata in cittadelle industriali, bensì diffusa sull’intero territorio metropolitano.
Devono affermarsi forme di tutela e rappresentanza che contribuiscano alla crescita dell’organizzazione di movimenti di lotta per rivendicare ed imporre bisogni e diritti, vecchi e nuovi, per unire con un grosso sforzo ricompositivo i soggetti della vecchia composizione di classe con quelli della nuova, nella quale i lavoratori precari ricoprono un ruolo di assoluto primo piano.
L’ampiezza e la portata della trasformazione in atto comporta un necessario aggiornamento dei passati paradigmi impiegati per interpretare lo sviluppo del conflitto capitale/lavoro per poter, così, calibrare gli strumenti da utilizzare per far crescere le lotte e far esplodere le contraddizioni da affrontare in una prospettiva di sintesi politico/organizzativa che si ponga l’obiettivo dell’auto-organizzazione sociale a tutto campo.
La soluzione è ragionare sulle chiavi interpretative che ci permettano non di galleggiare sulla scomposizione, diventando così elemento dissonante ma organico al sistema capitalista adottando una sorta di riformismo sociale, ma al contrario di allargare e rinnovare le nostre capacità e i nostri strumenti di lotta per affrontare le sfide della globalizzazione e i suoi effetti anche dal punto di vista della materialità dei bisogni.
Nei fatti, quindi, provare a ricomporre sul terreno di una possibile vertenzialità sociale un fronte di classe che l’organizzazione capitalistica del lavoro ha, nel tempo, modificato e scomposto, delineando obiettivi unificanti per le diverse figure subordinate allo sfruttamento di classe incominciando, a titolo esemplificativo, a praticare lo scontro sul terreno di un sostanziale aumento del livello minimo salariale identico per ogni categoria; un recupero del potere d’acquisto incrementando la quota di salario indiretto con l’abbattimento dei costi per scuola, sanità, servizi e stato sociale; una politica che riaffermi il diritto alla casa con una quota proporzionale al livello minimo salariale…

2008-04-30

CSA Vittoria - Milano

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