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Elezioni 2008: il Paese del male minore

(14 Febbraio 2008)

Gli italiani - che alcuni chiamano gente, altri popolo e che pur essendo individui molto s’identificano con quel che fanno e che guadagnano - si trovano costretti a un ennesimo tour elettorale rischiosamente vuoto. E con esso ai defatiganti balletti, soprattutto televisivi, dei venditori della politica che rinnovano proclami di salvezza nazionale. Alla noia di pianificazioni già proposte e irrealizzate, promesse sentite e non mantenute, condite ora delle buone intenzioni d’essere gentili e non mordere sul collo l’avversario, s’aggiunge una mesta considerazione che il potenziale elettore può fare tra sé e sé. La sensazione, divenuta certezza, di dover votare per il male minore. Che nonostante i cento e più stratagemmi della politica mediatica non è proprio una ventata d’ottimismo.

Guardiamo il nuovo veltroniano e il seminuovo del plastificato Cavaliere. Dire che ‘‘si può fare’’ come recitano i cartelli plagiatori del Partito democratico alla prima scampagnata elettorale – beh, si può essere neo obamiani evitando di carpirgli addirittura lo slogan – senza chiarire cosa fare è magia affermata solo dall’attuale politica. Esempio uno: come sintonizzare nella stessa urna il voto richiesto al lavoratore precario, intento a emanciparsi dal plumbeo futuro che la legge 30 gl’impone, e quello dell’imprenditore – privato e pubblico – che per far rendere l’azienda necessita di quella legge. Veltroni non lo spiegava ai gazebo d’ottobre e continua a non spiegarlo tutt’ora.

Esempio due: i sedicenti coesi della Casa delle Libertà o Partito della Libertà o Partito del popolo, incapaci d’accordarsi su nome e simbolo sono capacissimi di farlo su obiettivi che continuano a esaltare famelici egoismi di famiglia, di casta e di corporazione. Portatori di quell’antipolitica che è la distruzione del senso di collettività a favore di forme tribali. In più annunciano stelle comete di abbattimento di tasse e carovita. Favole. Che l’elettore ha già bevuto e con cui si ritrova a misurarsi. E a un orizzonte che mostra un’ipotesi di Centro appena sbocciata sotto forma di rosa e una Sinistra che cerca un’identità colorandosi d’Arcobaleno l’elettore pare rassegnato a inseguire la via del meno peggio.

Ognuno sceglierà per sé qual è la lesione meno dolorosa, che però sa di mossa disperatamente ipocrita e montanelliana del votare ‘‘turandosi il naso’’. Che vuol dire? Che senso ha? Un popolo dovrebbe esprimersi convinto se non dell’eccellenza almeno di talune bontà di chi dovrà gestire la res publica. E farlo in termini costruttivi. Ma nell’Italia che c’è, l’Italia della Seconda Repubblica e mezzo messa in ginocchio nelle Istituzioni maggiori da quei bivacchi di onorevoli che neppure il Duce riuscì a portare a Montecitorio, quest’operazione sembra difficile se non impossibile. Un’Italia che dopo essere stata espropriata della partecipazione si trova obbligata a scegliere il meno peggio.

13 febbraio 2008

Enrico Campofreda

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