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(16 Giugno 2008)
La vittoria del NO nel referendum in Irlanda contro il Trattato di Lisbona, conferma due questioni molto importanti anche per il dibattito nella sinistra anticapitalista nel nostro paese:
a) la prima è che il NO ai trattati europei – così come avvenuto tre anni fa in Francia e Olanda – è stato maggioritario nei quartieri operai e popolari ed esprime quindi una precisa indicazione di classe;
b) La seconda è che in Irlanda, come in Francia e in Olanda, il No ai trattati europei ha vinto nonostante che il 95% delle forze politiche, dei mass media, dei poteri forti fosse schierato per il SI. In sostanza ogni volta che un trattato europeo è andato alla verifica popolare, gli eurocrati hanno perso.
In Italia, come è noto, nessun trattato internazionale vincolante per le scelte e le sorti del paese è mai stato sottoposto ad un referendum democratico. Lo impedisce tuttora un articolo della Costituzione e lo impedisce la volontà del 95% delle forze politiche che hanno preferito sempre la ratifica parlamentare dei trattati piuttosto che la verifica popolare e democratica.
Paradossalmente adesso è solo la Lega a chiedere il referendum sul Trattato di Lisbona (anche se poi non farà nulla per attuare tale richiesta), mentre questa richiesta legittima – anche forzando la Costituzione – l’avrebbero dovuta avanzare tre anni fa i partiti della sinistra (PdCI, PRC etc) e non lo fecero ripiegando sulla sola ratifica parlamentare in cui il PRC votò contro e il PdCI votò a favore del Trattato Costituzionale Europeo.
Ma perché si ha paura di andare alla verifica attraverso un referendum popolare sui trattati europei? Apparentemente gli italiani sembrano i più europeisti d’Europa e dunque i poteri forti e le loro diramazioni politiche non avrebbero nulla da temere. Ma la realtà – come dimostrano i referendum in Irlanda, Francia e Olanda, potrebbe riservare brutte sorprese ai custodi bipartizan dell'Europa di Maastricht, ai furfanti della BCE, agli eurocrati di Bruxelles e di casa nostra.
Otto anni fa - in una fase completamente diversa da quella attuale - conducemmo un’inchiesta tra i lavoratori italiani in diverse aziende private, pubbliche e di servizi a livello nazionale. Tra le risposte ottenute su un questionario di 65 domande, ce ne erano anche alcune sul consenso o meno all’unificazione europea e sulle conseguenze dei Trattati di Maastricht.
Ne riportiamo qui di seguito i risultati (pubblicati nel libro “La coscienza di Cipputi”, edizioni Mediaprint). Sono dati molto interessanti che consentono a tutti di avere a disposizione elementi per le proprie valutazioni e per ritenere che la proposta di referendum popolare contro il Trattato di Lisbona non dovrebbe essere lasciata solo alla Lega ma dovrebbe essere impugnata dalla sinistra anticapitalista.
“Il 70,7% dei lavoratori intervistati si è infatti espresso a favore dell’Unione Europea. La punta più bassa di questi consensi la troviamo tra i lavoratori dell’industria (dove si scende al 65,3%) nonostante, a livello geografico, sia proprio il Nord Ovest ad esprimere maggiori consensi verso l’Unione Europea (76,3%), mentre nel Meridione si scende al 65,6%. Si potrebbe parlare quasi di un plebiscito europeista, anche se non si possono sottovalutare, in un clima di apparente unanimismo, le nicchie di “euroscettiscismo” che vanno tra il 30 e il 37% nei vari settori produttivi e nelle varie aree regionali.
Le aspettative sugli effetti benefici dell’Unione Europea sono elevati. Quasi sette su dieci ritengono che “miglioreranno le condizioni di vita, i servizi e la cultura” (42,4%) o che questa “darà una prospettiva più sicura ai giovani” (23,7%). Questa aspettativa sul miglioramento scende però di quasi sette punti (35,8%) tra i lavoratori dell’industria, un dato questo che conferma il maggiore scetticismo di chi sta in fabbrica e già rilevato nella domanda generale.
Se i consensi più alti li troviamo tra chi in precedenza si era detto favorevole alle privatizzazioni (con l’86,6%) e più bassi tra chi si era detto contrario alle privatizzazioni (con il 60,2%), spicca il dato secondo cui quasi otto su dieci dei lavoratori (il 76,3%) che si sentono rappresentati dai partiti giudica positivamente l’Unione Europea. Un dato analogo lo verifichiamo nelle aziende dove viene percepita come maggioritaria l’influenza di CGIL, CISL, UIL o dei sindacati autonomi (con il 70% dei consensi).
È chiaro, quindi, che l’orientamento quasi unanime dei partiti e dei sindacati confederali favorevole all’unificazione europea ha creato un vasto serbatoio di consenso. Al contrario, nelle aziende dove è percepita con maggiore forza la presenza dei sindacati di base, i consensi sull’Unione Europea scendono di cinque punti (65%) e scendono ancora di più lì dove ci sono sindacati di orientamento leghista (50%).
Ma la verifica più interessante della contraddizione tra senso comune e realtà delle proprie condizioni sociali, emerge quando l’inchiesta entra nel merito delle valutazioni sulle conseguenze del processo che ha portato all’Unione Europea. Infatti solo il 31,5% dei lavoratori ritiene che “gli accordi europei hanno migliorato le proprie condizioni di vita”. È una contraddizione evidente: il 70% valuta positivamente l’Unione Europea ma solo tre su dieci hanno valutato positivamente gli effetti sociali della sua applicazione. I più disincantati appaiono i lavoratori del pubblico impiego (con il 72,2% delle valutazioni negative) e, come già visto, quelli delle fabbriche (con il 71,2%), i meno disincantati sono i lavoratori dei servizi privati (66,2%). Il disincanto è forte sia tra i lavoratori iscritti ai sindacati (70,1%) sia tra i non iscritti (67,3). Nelle aziende dove i lavoratori percepiscono come presenti i sindacati di base, il disincanto sul miglioramento delle condizioni di vita grazie a Maastricht sale al 76,3% degli intervistati.
Ma perchè i lavoratori non hanno una percezione positiva degli effetti innescati dagli accordi di Maastricht? Lo zoccolo duro (il 47,6%) ritiene di “aver fatto troppi sacrifici senza benefici” o “di aver pagato troppe tasse per entrare in Europa”.
Gli europeisti avrebbero la tentazione di liquidare questo indicatore di controtendenza come qualunquismo o sbrigativamente come euroscetticismo. Al contrario, il giudizio negativo di merito sull’Unione Europea attiene a ragioni molto concrete e molto legate alla condizione sociale dei lavoratori. Il 97% di coloro che si sono pronunciati negativamente sull’Unione Europea lo fanno perché non ritengono “che gli accordi europei migliorino le proprie condizioni di vita”. Lo stesso fanno il 76,7% di coloro che si erano pronunciati contro le privatizzazioni”.
Un resoconto più completo dell'inchiesta si può consultare anche su: http://www.contropiano.org/Documenti/2007/Gennaio07/Quaderno_materiali.pdf
E’ dunque evidente come ancora una volta –ed anche su una materia complessa come i trattati europei - la coscienza dei lavoratori sia più avanzata di quella della sinistra e come il “sociale” prevalga sul “politico”. La funzione della soggettività non è affatto ininfluente. C’è molta materia su cui riflettere e su cui agire.
La Rete dei Comunisti
Mi sono già occupato del "Reform Treaty" e sinceramente non avrei espresso un voto diverso da quello della maggioranza del popolo irlandese. E' una notizia che apre a uno scenario di diverso: un sentimento realmente europeo (Francia, Irlanda, Paesi Bassi), profondamente anti-comunitarista, cioè economicista, burocratico, verticistico.
Il che è un dato politico su cui in Italia vedo riflettere poco.
(16 Giugno 2008)
Domenico Bilotti
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