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Iraq, come ammazzare i civili senza essere processati

(17 Giugno 2008)

Con il termine Drop Weapons s'intende la pratica delle armi che i militari lasciano accanto ai cadaveri dei civili uccisi nel corso di un'operazione. E' proprio così, per quanto sembri inquietante. Serve per non essere accusati di omicidio e processati. Prima si uccide, per sbaglio o meno, poi si poggia un'arma accanto alla vittima e la si trasforma in miliziano. Lo racconta molto bene un documentario, del quale pubblichiamo un estratto sottotitolato in italiano.

Attraverso le testimonianze dirette di marines Usa che hanno prestato servizio in Iraq, viene raccontata l'abitudine delle unità combattenti di portare sempre a bordo dei mezzi con i quali escono in pattuglia un po' di AK-47, il kalashnikov.

Queste armi, diffuse sia in Afghanistan che in Iraq, provengono dai sequestri compiuti nelle abitazioni o nelle retate. E tornano buone, perché, come spiegano i militari intervistati, possono essere riutilizzate per ricostruire una scena del conflitto a fuoco differente dalla realtà. La catena di comando, in un gioco di tolleranza e/o istigazione, conosce alla perfezione l'abitudine dei militari e non ne ostacola l'applicazione.

Non si può rischiare: ogni civile ucciso rappresenta un danno d'immagine per la politica. I militari vengono convinti della bontà dell'operazione. Siete giovani, siete sotto pressione, tutti possono sbagliare. Perché complicarsi la vita con un processo per omicidio?

Ma non sempre le cose accadono per caso o per un incidente. Proprio in questi giorni sono stati assolti due militari che hanno preso parte alla strage di Haditha, una delle pagine più nere dell'invasione dell'Iraq. Ventiquattro civili innocenti, massacrati da un'unità di marine Usa in Iraq, nella cittadina di Haditha, nella provincia dell'al-Anbar.

E' l'alba del 19 Novembre 2005. Il caporale Miguel Terrazas, marine di vent'anni, resta ucciso dall'esplosione di un ordigno rudimentale nascosto lungo il ciglio della strada che percorreva di pattuglia.

Altri due commilitoni restano feriti. I suoi compagni sono furiosi: fermano un taxi e uccidono quattro studenti e l'autista. Dopo si dividono: entrano in quattro case nelle vicinanze e uccidono sette membri della stessa famiglia, i Waleed, nella prima (tra loro due donne e una bambina) e otto persone nella seconda, quella della famiglia Younis (tra loro sei donne).

Ma la voglia di vendetta non è ancora appagata. Entrano in una terza e in una quarta casa, che appartengono alla stessa famiglia, gli Ayed. Vengono uccisi quattro uomini. A quel punto, rientrano alla base. Un gruppo di superiori viene a sapere della strage, e decide di inviare una squadra sul posto per fare pulizia e nascondere le prove dell'eccidio, tentando d'insabbiare la vicenda.

Non ci sono riusciti, pur restando impuniti. La questione, vecchia come il mondo, di spacciare in guerra civili innocenti per combattenti, si è ancor i più aggravata negli ultimi anni. Perché in Afghanistan e in Iraq, per tanti motivi, la guerra non è più raccontata come in passato. Sono sempre meno i giornalisti che possono lavorare sul campo, verificando gli esiti delle operazioni militari sulla popolazione civile.

Per la gran parte dei mezzi d'informazione di massa, l'unica fonte di notizie per questi due conflitti finisce per essere lo stesso esercito. Non è un caso che la stragrande maggioranza delle rivelazioni sui due conflitti, Abu Ghraib su tutti, sono arrivate dall'interno delle stesse forze armate.

Secondo Just Foreign Policy, dal 2003 a oggi, sono un milione e 200mila le vittime della guerra in Iraq. Non è dato sapere accanto a quante di loro c'era un kalashnikov.

Lunedì, 16 giugno 2008

Christian Elia (da www.peacereporter.net)

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