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(20 Agosto 2013) Enzo Apciella

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Siete clandestini? Pagate il riscatto!

(30 Giugno 2008)

Tra le proposte per superare la clandestinità spicca quella di Guido Bolaffi, dirigente statale. Le politiche basate su divieti e contingentamenti non funzionano – sostiene: “L’idea è quella di un’imposta (flessibile e graduabile) a carico degli immigrati.
Una vera e propria tassa di (doppio) scopo: per esplicitare, fino a materializzarlo, l’impegno di co-partecipazione alla res publica dei novi cives, e per finanziare attività di sostegno e programmi di qualificazione professionale dei lavoratori nazionali senza lavoro o a bassa specializzazione”.(1) Quando si trovano parole latine in bocca a un dirigente, all’occhio! Si tratta di tasse!

Si noti il carattere medievale della proposta. La rivoluzione francese abolì il riscatto che il contadino doveva pagare al nobile per l’affrancamento dalla servitù. L’immigrato dovrebbe pagare per uscire dalla clandestinità e ottenere quei diritti che cento “Carte”, dalla Costituzione italiana a quella dei Diritti dell’uomo, riconoscono ufficialmente. Curiosa anche la seconda motivazione. Il sostegno dei migranti ai programmi di qualificazione professionale dei lavoratori italiani dovrebbe disinnescare il pericolo di una guerra tra poveri. Pagare riassumerebbe il significato originario – il latino è sempre a mezzo! – di “pacare”, cioè placare. L’operaio italiano non dovrebbe più temere la concorrenza dell’immigrato, ma sentire una profonda solidarietà per chi gli paga il corso di riqualificazione. Forse il pensionato leghista riflette sul fatto che l’INPS, che gli versa la pensione, è finanziato in parte dai contributi degli immigrati regolari? Se i rapporti interetnici si potessero risolvere con quattro soldi, sarebbero già decisi da secoli.

La clandestinità non è casuale, non è dovuta alla miopia burocratica, alla corta vista dei nostri politici, che non sanno cogliere la modernità. La clandestinità è voluta, ed è uno dei mezzi impiegati dai nostri imprenditori per affrontare la concorrenza internazionale. Si può concorrere con i bassi salari del sud del mondo portando il sud del mondo da noi, impedendo ogni forma di emancipazione, attraverso un ricatto permanente.

Nei testi scolastici di storia, campeggiava l’immagine di “Giolitti Giano bifronte”: vestito semplicemente e col berretto, quando si rivolgeva agli operai, col frac e il cappello a cilindro, quando trattava coi i signori. Ma Giano bifronte è un dilettante, nei confronti della borghesia italiana. Questa nel passato ha accettato leggi all’avanguardia nel campo del diritto del lavoro – si pensi allo Statuto del lavoratori, i giuslavoristi del passato erano meno dipendenti dal verbo del capitale – e le ha eluse regolarmente nella pratica. Che c’è di strano se l’industria, che utilizza il lavoro nero, in altra sede finanzia studi su come combatterlo ed eleva fiere denunce (morali, ovviamente, non penali) contro questa piaga della società? Questo vuol dire tenere il piede in due scarpe? Il borghese italiano, a proposito di piedi e di scarpe, farebbe confondere un millepiedi. I massimi utilizzatori del lavoro dei clandestini gridano più degli altri contro l’illegalità, chiedono sanzioni – contro i lavoratori clandestini, non contro i padroni che li sfruttano, non sono autolesionisti! La clandestinità, l’illegalità, la pressione della malavita sui lavoratori clandestini, sono funzionali al profitto.

Le riforme non falliscono per l’incapacità dei parlamentari – tanto questi votano a comando, e molti neppure leggono quel che votano. L’inerzia non è la causa che blocca il processo di integrazione, ma è l’effetto di interessi potentissimi. Se instaurasse rapporti più decenti con i propri salariati, l’industria dovrebbe impegnare grandi capitali nel proprio ammodernamento, e non ne avrebbe forse abbastanza per rapinare – non trovo altra parola – gli operai rumeni con salari inferiori alle paghette dei nostri figli o nipoti. Per mantenere questi rapporti malsani, si soffia sulla xenofobia. Col rogo delle abitazioni dei rom è bruciata anche la credibilità dell’Italia in materia di diritti umani, nonostante le stucchevoli campagne pubblicitarie dei governi, come quella che proibisce la pena di morte inflitta da tribunali e tace su quella determinata da polizie ed eserciti nelle varie forme di omicidi mirati, o con bombardamenti al fosforo bianco.

La campagna per portare gli immigrati a condizioni di parità è l’unico vero modo di disinnescare la guerra tra poveri. In questa campagna bisogna rivendicare norme per ottenere la cittadinanza senza trovare insormontabili ostacoli, e il diritto di voto per tutti. Qualche lettore potrebbe dire: “Nelle ultime elezioni vi siete dichiarati per il non voto, e ora rivendicate il diritto di voto per gli immigrati?” Non c’è nessuna contraddizione, il voto è un diritto al quale non possiamo rinunciare, anche se, caso per caso, quando non c’è proprio nessuno che valga la pena di scegliere, si può restare a casa. Il diritto al voto darebbe agli immigrati un certo peso politico, ed è sul piano politico che certi problemi sociali possono essere o aggravati o risolti.

La questione ha due aspetti, uno classista e uno interclassista. Dove è possibile, si può puntare sulla solidarietà tra lavoratori, spesso impegnati nella stessa squadra o fabbrica. Ma, come diceva Lenin, bisogna prendere posizione contro tutte le ingiustizie, a qualunque classe sociale appartengano le vittime. Se un negoziante o il titolare di una trattoria subiscono intimidazioni o violenze perché immigrati, la solidarietà non deve mancare, anche se appartengono a classi sociali non proletarie.

Un’ultima considerazione. I migranti appartengono a molte nazionalità diverse. La scelta della borghesia italiana è stata diversa da quella di altri paesi. Mentre in Francia c’è un numero assai consistente di algerini, in Germania di Turchi, qui si è attinto a gruppi etnici assi diversi, per alimentare ancor più la divisione. E’ vero che i cinesi hanno una grande forza a Milano, gli ecuadoriani possono averla a Genova, e non è possibile che, finché prevalgono le direzioni nazionaliste o addirittura il clero, possano creare una forza omogenea plurinazionale. Ma, pur marciando separati, possono unire i loro sforzi, e quelli degli italiani antirazzisti, per un pieno riconoscimento dei diritti civili e politici. Quando questi saranno ottenuti, è inevitabile che tra gli immigrati la divisione tra proletari e non proletari si allarghi a dismisura, e che la parola, per i lavoratori italiani e stranieri finalmente solidali, passi alla lotta di classe.

25 giugno 2008

NOTE

1) Guido Bolaffi, “Tasse, non quote”, in “Limes”, n. 4/2007
http://www.sottolebandieredelmarxismo.it/

Michele Basso

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