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Pro mutuo mori

Pro mutuo mori

(19 Settembre 2009) Enzo Apicella
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Afghanistan e irresponsabilità

L’attuale classe dirigente italiana non è in grado di gestire una guerra

(19 Luglio 2008)

C’è una convinzione, diffusa in molti settori di sinistra, che la politica estera italiana sia determinata in tutto e per tutto dall’influenza degli Stati Uniti, e che la partecipazione alle guerre sia imposta all’Italia da pressioni esterne. Questa impostazione, apparentemente logica, porta a schierarsi con chiunque sia avversario dell’America, compresi i preti reazionari di Teheran, dimenticando che la realtà è molto più complessa di questo schema inadeguato, e che spesso, in questo gioco delle parti, presunti avversari sono in realtà alleati, e viceversa. Come classificare, ad esempio, il Pakistan, amico dell’America, ma che sottobanco aiuta i talebani? Non bisogna mai dimenticare che i vari stati, filoamericani o antiamericani, sfruttano e reprimono i lavoratori, e che perciò sono tutti nostri avversari, anche se questo non ci esime dal fare una precisa scala della loro pericolosità, al vertice della quale troviamo inevitabilmente gli USA.

Il partito filo USA è assai variegato in Italia, e oggi ha il monopolio in parlamento. A cominciare da Veltroni, un “americano” che sembra nato dalla fantasia di Alberto Sordi o di Carosone. Quanto a Frattini, va dato merito al vero patriottismo, che prova per Washington. Raccoglieremo le firme perché gli sia conferita la cittadinanza americana.

Condizione principale per una presa di distanza dell’Italia dagli USA è la divaricazione tra la politica dei grandi stati europei, la Germania innanzitutto, e quella americana. Oggi non c’è tra loro un vero contrasto, prevale l’allineamento, quindi il margine di manovra dell’imperialismo italiano è piccolo.

Tutto questo non ha impedito all’Italia di seguire una sua politica imperialistica non sempre coincidente con gli interessi USA. Difficilmente lo scontro d’interessi si esprime esplicitamente come al tempo del Craxi di Sigonella, ma più volte si sono trovati i cadaveri di chi si allontanava troppo dagli interessi americani (Mattei, Calipari, e alcuni dicono persino Moro), morti con spiegazioni ufficiali diversissime, ma col chiaro accento dell’avvertimento mafioso. Che altro è l’imperialismo se non il capitalismo giunto al livello mafioso?

Quando lo sviluppo economico e i mercati andavano a gonfie vele, l’Italia si guardava bene dal farsi coinvolgere in avventure militari. A differenza di Gran Bretagna, Francia, Portogallo, ecc., aveva già perso le colonie, non dovette fare né guerre d’Indocina né d’Algeria, e neppure vedersela con i Mau Mau. Mantenne un atteggiamento ufficiale molto cauto, mentre buona parte della popolazione era favorevole ai ribelli. La lezione della guerra perduta era troppo vicino perché potesse rinascere un forte sentimento nazionalista.

Non è casuale che oggi, mentre i mercati divengono sempre più difficili da affrontare, l’Italia scelga la scorciatoia della guerra. Le generazioni “vaccinate” contro il militarismo sono ormai anziane e in parte scomparse. Le parole bellicose di La Russa, che alcuni decenni prima avrebbero provocato una sollevazione come quella del 1960 contro Tambroni, hanno lasciato indifferenti i più. I militaristi – che sono da ricercare più tra finanzieri, industriali e politicanti che fra i militari – possono agire indisturbati. Se al tempo dell’operazione “Wyconda Pincer”, nel non lontano settembre 2006, quando le truppe italiane uccisero in combattimento una settantina di talebani, il ministero della Difesa ordinò il silenzio-stampa, oggi non è più necessaria un simile precauzione. La guerra è stata metabolizzata. E il clima guerresco si estende alla società. La stessa discriminazione antirom fa parte di questo clima. Forse Maroni non ci pensa neppure, perché il suo scopo è di convogliare voti verso la Lega, ma come le leggi contro gli ebrei erano un tassello ben preciso di un progetto bellico cosciente, la creazione propagandistica di un nemico interno che rappresentava la quinta colonna dei nemici esterni, l’attuale norma antirom è una misura prebellica che fa parte di una deriva militarista più subita che voluta. La classe dirigente italiana va verso la guerra con una coscienza dimezzata, senza un progetto, senza entusiasmo – salvo qualche fascista riciclato – ma anche senza la consapevolezza dei pericoli che si avvicinano Infatti un paese può essere militarmente forte quando per decenni cura le proprie forze armate, dedica al bilancio militare un’attenzione continua. Sono cose che non si possono improvvisare, e la capacità tecniche di singoli reparti non possono sostituire i massicci investimenti in uomini e mezzi che occorrono per una politica militarista. L’imperialismo italiano ripete la scelta mussoliniana saltando sul carro del presunto vincitore anche se non è pronto per la guerra. E’ possibile, quindi, anzi probabile, che ci sia una dura lezione, che spazzerà via un bel po’ di dirigenti politici, compresi quelli sopravvissuti a tangentopoli.

E’ un errore comune pensare che il massimo della potenza di un paese si raggiunga quando è impegnato in una guerra. Non è così neppure per le grandi potenze. L’impegno in Iraq e Afghanistan ha indebolito l’influenza USA in America latina, consentendo evoluzioni che altrimenti sarebbero state fortemente ostacolate. Questo vale ancor più per le piccole potenze. L’Italia fascista, che aveva un certo peso, se non altro diplomatico, prima della guerra, lo perse completamente con l’ingresso in conflitto, sia perché si rivelò presto il suo ritardo in materia di armamenti, sia perché le sconfitte la resero dipendente in tutto e per tutto dal Reich.

Le truppe italiane non possono certo condurre una campagna contro i talebani da sole, crescerà la dipendenza dagli Stati Uniti, non solo nel campo operativo, ma anche in quello dei rifornimenti. Il contribuente italiano diventerà un involontario finanziatore dell’Halliburton e degli altri parassiti di guerra, ammesso che non lo sia già.

Non abbiamo di fronte un ceto dirigente politico capace, come aveva la DC almeno fino a Moro, o il PCI fino a Berlinguer. Abbiamo uomini che sono scesi in politica per salvaguardare le loro aziende, abilissimi nel fare i propri interessi, ma incapaci di qualsiasi visione che vada oltre. Ci sono, poi, lacchè o maggiordomi prestigiosi, voltagabbana di “sinistra”, e si sviluppano progetti politici reazionari, che cambiano continuamente nei particolari. Questa gente non è in grado di gestire una guerra, e si rivelerà incapace persino di ritirare le truppe prima che sia troppo tardi.

I lavoratori devono comprendere che ciò che accade in Afghanistan li riguarda direttamente e porsi come scopo la smobilitazione, pur sapendo che, col crescente coinvolgimento militare diventerà sempre più difficile. Non devono cercare alleati nella borghesia cosiddetta pacifista, ma nei lavoratori degli altri paesi, nei reduci che hanno capito cos’è la guerra, nelle famiglie che premono per il ritorno dei loro figli. Devono capire, infine, che il massimo dell’internazionalismo si ottiene proprio lottando contro l’imperialismo del proprio paese.

A nessuno deve sfuggire l’importanza della lotta contro queste guerre. Se fallisce il progetto americano, accettato dalla Nato e dall’Italia, di impadronirsi dei pozzi di petrolio e controllarne le vie, se cioè americani e europei saranno cacciati dall’Iraq e dall’Afghanistan, scompariranno gli ostacoli alla formazione di un gigantesco mercato asiatico esteso dalla Corea alla Turchia, in cui ci sarebbe complementarità tra produttori di energia (paesi del Golfo, Russia, ecc) e gli stati dove è concentrata gran parte della popolazione mondiale. L’Europa, fallite le mire imperialiste, dovrebbe scegliere tra la marginalità e la ripresa del cammino verso il socialismo, che proprio l’imperialismo ha deviato e impedito. Se invece per disgrazia il progetto coloniale vincesse, la tappa successiva sarebbe la guerra contro la Cina, ossia un conflitto mondiale. Motivo in più per augurarsi che prevalga la soluzione anticolonialista.

16 luglio 2008

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