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La Russia, l’Ossezia e il modello Honduras

(15 Agosto 2008)

La vicenda della guerra tra Russia e Georgia, viene presentata dai media “occidentali” secondo questa versione: la provincia georgiana dell’Ossezia, a maggioranza russa, a imitazione di quanto avvenuto nel Kosovo, proclama la sua indipendenza, cosa che provoca l’intervento militare del governo georgiano e una conseguente risposta russa a sostegno dei separatisti.

Lo scenario proposto potrebbe apparire plausibile e, per certi aspetti, persino “comprensivo” verso la Russia, ma se andiamo a valutare le notizie, ci si accorge immediatamente che appaiono monche di particolari essenziali; ad esempio: non ci viene chiarito come, quando e in che termini sarebbe avvenuta questa dichiarazione d’indipendenza dell’Ossezia - a cui ora si è aggiunta anche la provincia dell’Abkhazia-, e soprattutto che ruolo ha avuto nella vicenda l’esercitazione militare congiunta compiuta da truppe georgiane e statunitensi alla fine di luglio ai confini della Russia.

L’aspetto più improbabile della rappresentazione mediatica appare il ruolo del presidente Bush, “preoccupato per la destabilizzazione dell’area del Caucaso”, e che ha invitato i contendenti a cessare il fuoco, cosa che non gli sarebbe dovuta risultare difficile da ottenere, dato che il presidente georgiano è notoriamente un dipendente di Washington, che smania di entrare nella NATO e che, per acquisire meriti a riguardo, ha inviato truppe per partecipare all’occupazione dell’Iraq; truppe che ora gli sono state gentilmente rispedite indietro da Bush con un’operazione-lampo, a dimostrazione di quanto sia effettiva la volontà statunitense di far cessare i combattimenti.

Insomma, ci sono vari indizi per ritenere che il tutto costituisca l’ennesima provocazione di Bush contro Putin, che, sebbene non più presidente, è ancora il vero padrone della Russia, o, per meglio dire, il capo della casta affaristica che discende dalla ex-nomenklatura sovietica. Se Putin sia caduto nella provocazione, o se abbia lui stesso deciso di anticipare i tempi del confronto, è ancora presto per dirlo.

Certo che l’ostilità aperta con cui Putin è stato trattato dal sedicente “Occidente” negli ultimi anni, rende piuttosto irrealistico un ruolo di mediazione degli USA e poco probabile uno della UE, quindi bisognerà verificare l’effettiva tenuta del piano di pace proposto da Sarkozy e accettato dal presidente russo Medvedev; né la NATO ha molte carte da giocare nella partita, visto che la Russia non è l’inerme Serbia, ma la prima potenza missilistica del pianeta, dato che da tempo ha scavalcato gli Stati Uniti, impegnati a versare miliardi al loro complesso militare-affaristico per arrivare ad uno “scudo spaziale” che, a detta di tutti i fisici, è una pura bufala.

Quando Bush dichiara che la vicenda dell’Ossezia rischia di compromettere i suoi rapporti con la Russia, fa una minaccia priva di senso, data la campagna di accerchiamento e di ostilità crescente e generalizzata di cui è stato fatto oggetto Putin in “Occidente” (con la sola eccezione di Berlusconi, grato allo stesso Putin del fatto che sia l’unico leader mondiale che non lo tratta come un deficiente, ma anzi con un particolare riguardo).

Le provocazioni statunitensi contro Putin erano del resto già cominciate all’epoca di Clinton, con l’affondamento di un sommergibile atomico russo in esercitazione. In quella occasione Putin mantenne la calma e mise tutto a tacere, evitando accuratamente di rispondere alle domande dei familiari dei membri dell’equipaggio scomparso.

I motivi di questa ostilità statunitense potrebbero esser individuati nel fatto che Putin ha gradualmente estromesso dall’affare del gas e del petrolio russi la multinazionale anglo-americana BP (Beyond Petroleum, già British Petroleum). La definitiva estromissione della BP è avvenuta, guarda caso, poche settimane fa, dopo di che sono sopravvenute l’esercitazione militare congiunta USA-Georgia e l’attacco georgiano all’Ossezia.

Putin non è più comunista - ammesso che lo sia mai stato -, ma per il governo USA è da considerarsi comunista chiunque non favorisca gli interessi affaristici delle multinazionali anglo-americane. Del resto il concetto di comunismo è sempre risultato estremamente dilatabile, sino a comprendervi qualsiasi provvedimento a favore del lavoro; in questo senso tutta la diatriba ideologica dei riformisti contro i rivoluzionari, non tiene conto del fatto che per il padronato anche la più timida garanzia per i lavoratori viene considerata una minaccia rivoluzionaria, e trattata come tale.

A differenza di altri bersagli dell’odio statunitense - come Chavez -, Putin si è guardato bene dal fare una politica a favore del lavoro, ma comunque le sue azioni possono essere fatte rientrare nella categoria del nazionalismo economico, che per le multinazionali rappresenta una minaccia affine al comunismo.

Proprio perché temeva le reazioni statunitensi, Putin, prima di liberarsi della BP, aveva anche cercato inutilmente un compromesso, chiedendo di rinegoziare i contratti con questa multinazionale. I contratti in questione prevedevano l’introito del novanta per cento degli utili alla BP, ed il rimanente dieci per cento alla Russia, previo però il rientro delle spese da parte della stessa BP; spese che però, misteriosamente, non rientravano mai.

Come al solito gli USA hanno rigettato ogni ipotesi di compromesso, perché vedono in ogni accordo una minaccia. È uno stile che fa parte della storia statunitense: dopo la seconda guerra mondiale, il presidente Truman rigettò sistematicamente ogni ipotesi di accordo avanzata da Stalin, il quale, con il suo solito opportunismo, arrivò persino a chiedere, inutilmente, di partecipare al Piano Marshall. Truman lanciò nel contempo una campagna di guerra psicologica che fece passare l’atteggiamento sovietico come politica del “niet”, riuscendo così a scaricare per intero la responsabilità della guerra fredda sull’Unione Sovietica.

Qualche commentatore americano ha osservato che la pretesa, di Clinton prima e di Bush poi, di trattare la Russia da colonia, come se fosse l’Honduras, è stata forse un po’ eccessiva; un’osservazione che, a quanto pare, non ha suscitato riflessione nel governo USA, ma solo in Honduras.

D’altra parte, anche se la provocazione di Bush dovesse rivelarsi un fiasco, i rischi di perdita d’immagine per gli USA appaiono abbastanza contenuti, poiché risulta già in atto una campagna propagandistica che scarichi la colpa di tutto sui “pavidi Europei”, che avrebbero consentito l’intervento russo frenando l’adesione alla NATO della Georgia. Pare che i governi europei siano disposti ad accollarsi questa colpa, il che indica che almeno con loro il modello Honduras risulta applicabile.

14 agosto 2008

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