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(15 Settembre 2008)
Li abbiamo visti tutti i soldatini boliviani inermi, facce da adolescenti indigeni massacrati di botte dai giovani bianchi o sbiancati, creoli o che si sentono creoli o che credono che con quei calci, quegli sputi, quell’odio diventeranno creoli. Li abbiamo visti i soldatini boliviani scappare via nelle strade di Santa Cruz o di Trinidad.
Quei ragazzi contadini dell’altipiano, soldatini di leva microscopici con quelle divise sempre troppo grandi. Avevano le lacrime in faccia impastate nel loro sangue e nel fango degli stivali di chi li ha umiliati. Nei loro occhi più che l’odio c’era il terrore. Il terrore di chi ancora una volta si vede sopraffatto. Il terrore di chi viene bastonato da 500 anni ogni volta che tenta di alzare la testa e teme che anche questa volta finirà nella stessa maniera.
Ma abbiamo guardato in faccia anche questi giovani di classe media manovrati da quelli di classe alta. Aizzati all’odio con tutti gli argomenti più indegni, il razzismo aperto del “mai accetteremo un indio presidente”, la demagogia più bieca e l’organizzazione della violenza, il paramilitarismo di organizzazioni neofasciste come la UJC, che rende complici giorno per giorno. Chi scrive si pregia di non usare mai il termine fascismo a sproposito. Ma nelle azioni di queste bande sempre meno spontanee e sempre più paramilitari, non si può non vedere lo squadrismo del fascismo movimento, quella cooptazione della classe media da parte delle élite per usarle contro quella proletaria. E’ il partito dell’ordine dove l’ordine è quello classista, non quello democratico, che fu alla base del primo affermarsi dell’ideologia fascista ben prima di farsi regime.
E allora li abbiamo riconosciuti guardandoli in faccia, armati di bastoni, di armi da fuoco, perfino di fruste, sopraffare spavaldamente i soldati venuti a fermarli, riempirli di calci e sputi e poi avventarsi sui contadini, senza più freni né inibizioni fino a prendersela violentemente perfino con le cholas, le donne indigene che per tutta la vita li hanno accuditi, serviti. E’ umanamente impossibile capire come possano odiarle tanto. Eppure le odiano o forse le stanno vessando solo in una maniera diversa da come le hanno vessate per tutta la vita.
Li abbiamo visti dare l’assalto in maniera ogni giorno più sistematica a qualunque simbolo dello Stato e della convivenza civile, stazioni, aeroporti, scuole, ma soprattutto ai mercati dove gli indigeni offrono il loro lavoro. E’ oramai una guerra aperta dove lo Stato, la legalità, la democrazia semplicemente sono inermi di fronte all’odio di classe, all’odio razziale coniugato con la forza, all’odio incendiato con i soldi, tanti soldi, all’odio rafforzato dall’impunità, all’odio con alle spalle l’impero. Se lo Stato è nostro, viva lo Stato, ma se lo Stato pretende di farsi democratico e rappresentare tutti i boliviani, allora odiamo lo Stato e lo distruggiamo.
Dopo decine di azioni terroristiche selvagge (e noi conosciamo solo la violenza urbana, quello che succede nei latifondi dove l’indigeno è ancora schiavo lo ignoriamo) da Santa Cruz a Beni a Tarija (i dipartimenti epicentro del secessionismo) a Pando c’è stata dunque la prima strage come dio comanda. La prima verità di comodo parlava di scontri tra opposte fazioni, ma era una menzogna per evitare di dire chi ha torto e chi ha ragione, chi massacra e chi è massacrato in Bolivia. Ma non ci sono stati scontri a Cobija.
Sembra di raccontare Portella della Ginestra. Paramilitari e sicari, un vero squadrone della morte, hanno aperto il fuoco con le loro armi automatiche su di una manifestazione pacifica di contadini disarmati. Oramai non sono più né otto né quindici, ma si parla di almeno trenta morti ammazzati. E il mandante è il prefetto, il governatore Leopoldo Fernández, sinistro e non pentito collaboratore di due dittatori, torturatore e violatore di diritti umani. Il massacro, pensato a sangue freddo è funzionale al disegno. Vuole provocare la reazione dello Stato e del popolo per far passare da vittime i carnefici, con la complicità dei media, e vuole instaurare il terrore nella regione. Potrebbe essere il punto di non ritorno.
Venitemi a prendere adesso, provoca il mandante della strage, sapendo che lo stato di diritto è un simulacro in un dipartimento dove, dopo la strage, la proclamazione dello stato d’assedio si è rivelata inapplicabile. Come a Portella della Ginestra, mafiosi, latifondisti e l’impero alle loro spalle stanno già costruendo l’impunità.
Spaventato, massacrato, il popolo chiede armi, come in Spagna nel ‘36 e in Cile nel ‘73. Vuole difendersi e difendere la democrazia boliviana. E qui sta la grandezza di Evo Morales, la sua taglia di grande statista che sta emergendo ogni ora di più. Nonostante tutto, nonostante l’odio, gli insulti, le calunnie, continua incessantemente a chiamare al dialogo, a tendere la mano, continua a credere nelle regole della civiltà aymara alla quale appartiene, nella disciplina di uno che ha fatto il sindacalista per tutta la vita, nelle regole della democrazia e dello stato diritto, che si attagliano più a lui che ai presunti liberaldemocratici suoi oppositori spalleggiati dal governo degli Stati Uniti.
Forse sbaglia Evo, sicuramente non può fidarsi di quei quattro banditi che sono i prefetti dell’opposizione, ma non può prestare il fianco al nemico rispondendo con la forza e dando il via a una vera dichiarata guerra civile. Evo sa che si è arrivati a questo punto, con l’opposizione schiacciata sul suo stesso estremismo più folle e più violento perché ogni giorno lui, Evo Morales è più popolare, più saldo, più convinto di stare cambiando davvero la Bolivia. E il popolo lo appoggia come ha testimoniato il 10 agosto confermandolo Presidente con il 67.4% dei voti. Sono loro, l’opposizione, ad aver bisogno della violenza, ad aver bisogno di incendiare il paese in un mare d’odio. Sono loro ad avere la forza ma non la ragione.
Gennaro Carotenuto
Giornalismo partecipativo
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