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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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Riflessione aperta sulla situazione politica italiana dopo le elezioni del 13-14 aprile 2008

(1 Ottobre 2008)

ANTIPER
Critica rivoluzionaria dell’esistente
Teoria e prassi del non ancora esistente

WEB: http://www.antiper.org
BLOG: http://antiper.blogspot.com
EMAIL: antiper@ antiper.org

INTRODUZIONE

Come recita il sottotitolo, questo contributo intende essere una riflessione aperta sul risultato elettorale e sulla situazione politica italiana; non c'è alcuna velleità di esaurire le questioni o di offrirne un'interpretazione dogmatica. Al contrario, l'ambizione è piuttosto quella di proporre un'ipotesi di lavoro da verificare, approfondire, confrontare e mettere in relazione con altre riflessioni (e con altri testi[1] elaborati nell'ambito di un percorso di analisi e di iniziativa politica avviato ormai da alcuni anni).

La frana del 13-14 aprile scorso ha messo a nudo la crisi della sinistra sedicente radicale o arcobaleno. Questa crisi non è un “incidente di percorso” perché le sue ragioni, come cercheremo di evidenziare nel seguito, non sono puramente congiunturali, ma vengono da lontano. In estrema sintesi, possiamo dire che la crisi della sinistra arcobaleno è un episodio della più generale crisi di credibilità del riformismo che a sua volta è determinata dalla più generale crisi politica ed economica del capitalismo[2].

Quando nel seguito useremo il termine riformismo ci riferiremo sempre all'idea di una trasformazione in senso progressivo della società, da realizzarsi attraverso lo sviluppo di riforme (politiche, sociali, culturali…) sempre più avanzate. Oggi, purtroppo, la neolingua imperante vorrebbe imporci di considerare “riformiste” anche proposte che hanno prodotto e producono l'arretramento delle condizioni materiali e il restringimento dei diritti sociali di settori sempre più ampi della classe lavoratrice. Noi, queste “riforme all'indietro”, le chiamiamo contro-riforme.

Tutta la storia del movimento operaio è caratterizzata dallo scontro tra “riformisti” e “rivoluzionari”; gli uni, convinti di poter accedere al socialismo attraverso il miglioramento delle condizioni materiali e l'allargamento dei diritti civili e “democratici”; gli altri, consapevoli che ogni grande riforma si realizza solo quando le classi dominanti si trovano di fronte alla scelta tra il dover perdere qualcosa e il rischiare di dover perdere tutto. I primi, fiduciosi che le lotte sindacali e le vittorie elettorali avrebbero condotto la “sinistra” al governo; gli altri, persuasi che l'eventuale conquista del governo di un paese capitalista è cosa ben diversa dalla conquista rivoluzionaria del potere politico da parte delle masse popolari e che questa conquista è il passaggio necessario per consentire l'avvio della transizione dal capitalismo al socialismo - l'unica vera “riforma di struttura”[3] -.

***

Massimo Bontempelli e Marino Badiale scrivono che la “sinistra” è divenuta incapace di lottare per l'emancipazione dei “ceti subalterni” perché con la globalizzazione sviluppo ed emancipazione si sono separate

“La fase storica che, utilizzando termini imprecisi ma ormai di uso comune, viene chiamata “globalizzazione” o “neoliberismo” rappresenta, fra le altre cose, il momento in cui sviluppo ed emancipazione si separano e si contrappongono” [4].

Dalla convinzione errata che, prima di questa fase storica, l'emancipazione degli oppressi fosse il prodotto necessario dello sviluppo capitalistico, Badiale e Bontempelli traggono la conclusione ancora più errata che il compito di chi si colloca contro il sistema sociale esistente non sia, né quello di ipotizzare i tratti fondamentali una società dialetticamente alternativa al capitalismo né, tanto meno, quello di costruire un partito comunista che possa essere strumento intellettuale ed organizzativo della lotta per la realizzazione di tale prospettiva; i “nostri compiti” dovrebbero essere quelli di esprimere il nostro dissenso rispetto alle devastazioni territoriali prodotte dallo sviluppo (TAV, Mose, ponte sullo stretto, rigassificatori, ecc…) indicando come alternativa la cosiddetta decrescita.

Per capire la confusione globale di Bontempelli e Badiale basti citare il passo seguente:

“L'opposizione da parte degli abitanti del territorio attaccato è dunque naturale e istintiva, non necessariamente derivante da opzioni politiche e ideologiche generali, ma, questo è il punto cruciale, essa va nella direzione della critica dello sviluppo, anche se i suoi attori possono non averne coscienza. Con questo intendiamo dire che la prospettiva della critica dello sviluppo è l'unica che renda coerenti queste lotte, dando ad esse un valore e una prospettiva generali. Al di fuori di tale prospettiva, queste lotte possono essere facilmente criticate e isolate indicandole come espressione di egoismi locali che devono cedere il passo all'interesse generale. La risposta a questa critica sta appunto nell'indicare il rifiuto dello sviluppo, cioè la decrescita, come interesse generale del paese”.

Prima si dice che le lotte contro la TAV o contro il Mose sono oggettivamente “critiche dello sviluppo”, indipendentemente dalla coscienza che ne hanno “gli attori” che le conducono[5]; poi, però, si aggiunge che se le lotte non sono coscientemente critiche allora possono essere criticabili. Lasciamo perdere in nome di cosa si cerca la difesa dall'ipotetica critica - l'“interesse generale del paese” - perché sembra di sentir parlare Veltroni…

A differenza di Badiale e Bontempelli riteniamo invece che al capitalismo e al suo “modello di sviluppo” debba essere contrapposta anzitutto un'alternativa di società; non un generico “altro mondo possibile”, ma una società comunista pensata dialetticamente come negazione e al tempo stesso sviluppo della società esistente[6] perché solo in un modo di produzione in cui non sia il profitto la “pietra angolare” delle relazioni sociali è possibile pensare uno sviluppo compatibile con gli interessi delle masse popolari; nel modo di produzione capitalistico, lo sviluppo può essere compatibile solo con il profitto.

Non è nostra intenzione analizzare le proposte sulla decrescita che pure vanno tanto di moda tra alcuni intellettuali pentiti “di sinistra” (e di destra, come Alain De Benoist): ci basti solo dire che proporsi di invertire il funzionamento del modo di produzione capitalistico o anche solo di limitarne gli effetti rallentandone lo “sviluppo” equivale - aldilà della coscienza che possono averne gli attori - ad oscillare tra i due estremi culturali su cui si è intrattenuto il no-globalismo: proposte riformiste ultra-moderate o semplici chiacchiere.
Quanto poi all'ipotesi di un piano di riduzione concordata e generalizzata dello sviluppo capitalistico mondiale è chiaro che qui nessuno ha mai sentito parlare di anarchia della produzione capitalistica o di riproduzione del modo di produzione. Il modo di produzione capitalistico non può essere regolato in modo armonico per evitare le proprie crisi (industriali, finanziarie, ambientali, alimentari…) e tanto meno può essere costretto o indotto, per ridurre le ingiustizie sociali e tutelare la vita sul pianeta, a funzionare inversamente a come funziona. Ed è proprio questo che testimonia a favore della necessità storica del superamento del capitalismo, indipendentemente dal fatto che tale superamento sia pensabile come all'ordine del giorno o meno.

Considerare prioritaria, per evidenziare la “negatività” dell'attuale modo di produzione, la costruzione di un tunnel tra Torino e Lione, piuttosto che il fatto che tale sistema condanna a morire per fame, guerre e malattie centinaia di milioni di persone ogni anno, costringe miliardi di esseri umani a vivere in società militarizzate, prive di libertà, di uguaglianza, di diritti sociali, di garanzie per la salute e la vita dei lavoratori (110 milioni di morti sul lavoro ogni anno nel mondo), sottomette “manu militari” popoli interi agli interessi geo-politici dei gruppi imperialisti, produce una devastazione ambientale di ben altre proporzioni che non in Val di Susa, distrugge interi eco-sistemi e minaccia persino il futuro del pianeta… ci sembra ben più che discutibile. E ci sembra, di conseguenza, ben più che discutibile impegnarsi solo o principalmente contro TAV, Mose e altre installazioni inutili o nocive (di cui, ovviamente, bisogna occuparsi) senza impegnarsi anche contro tutto il resto e, di conseguenza, contro la natura stessa del modo di produzione capitalistico e per una società comunista ad esso alternativa: anti e per.

Ma anche ammesso per assurdo che il problema principale nelle moderne società capitalistiche fosse quello della realizzazione di grandi opere neo-keynesiane come la TAV o il Mose non si capisce una cosa: o queste opere sono sostanzialmente inutili e lo sviluppo può anche farne a meno (e allora è illusorio pensare di colpire strategicamente lo sviluppo solo attraverso la lotta contro tali opere) oppure sono indispensabili e allora non si capisce come si possa realizzare l'obbiettivo di impedire la loro costruzione (a Bontempelli e Badiale non sarà sfuggito il fatto, fra l'altro, che TAV e Mose sono già in costruzione) senza mettere strutturalmente in discussione l'ordinamento sociale, economico, politico e militare esistente: se qualcuno pensa di fare questo con le bandiere della pace, con i comitati ecologisti, con le passeggiate o le mailing list “no global”…, faccia pure, sognare ad occhi aperti non costa nulla.

E soprattutto. Si può mettere davvero in discussione un modo di produzione senza pensarne uno ad esso realmente alternativo che non sia la semplice critica degli effetti più devastanti di quello esistente? Non è stata per qualche anno, questa, l'illusione post-riformista dei “no global”, criticare verbalmente gli effetti del cosiddetto neo-liberismo senza combattere concretamente il funzionamento del capitalismo della fase imperialista (di cui “neo-liberismo” e globalizzazione - ammesso e non concesso che i termini siano opportuni - non sono che forme storiche)?

***

Siamo partiti da questo piccolo esempio per evidenziare come anche sotto le bandiere del movimentismo post-moderno neo-ecologista - che ci viene propinato oggi come la nuova frontiera della critica al capitalismo - si nasconda una concezione economica neo-romantica[7] ed una concezione politica neo-riformista.

Lo vedremo anche più avanti. Malgrado la crisi di credibilità che il riformismo attraversa nel rapporto con le masse, esso possiede ancora una indubbia egemonia culturale su la larga parte di quel movimento che, pur ri-combinandosi nelle più svariate forme, continua a definirsi “di sinistra” o addirittura “anti-capitalista”.

La critica riformista all'ipotesi rivoluzionaria, in fondo, è sempre stata molto semplice: meglio un (concreto) uovo oggi che una (ipotetica) gallina domani. Meglio un piccolo, ma tangibile, miglioramento sociale o salariale che cento discorsi sulla rivoluzione… Bene. Ma cosa succede quando i “concreti” non portano a casa nessun risultato concreto? Succede che cento discorsi sulla rivoluzione valgono quanto un milione di discorsi sui risultati concreti. Si presenta così la singolare situazione per cui quanto maggiore è il richiamo al concreto, tanto minore è il “concreto concretizzato”.

Naturalmente, la sempre minore credibilità delle proposte riformiste non rende automaticamente più credibili le proposte rivoluzionarie. Diciamo che crea le condizioni affinché ciò possa avvenire, ma che non c'è nessun automatismo; ed infatti ci troviamo in una situazione caratterizzata da una diffusa perdita di credibilità tanto della proposta riformista, quanto di quella rivoluzionaria.

Il peggioramento delle condizioni sociali ed economiche fa aumentare il disagio, il malcontento, l'insicurezza sociale... in settori popolari sempre più vasti, ma che questo disagio debba prendere necessariamente la strada di una critica anti-capitalista - o, più ancora, comunista - è solo il frutto di una supposizione economicistica in cui la coscienza oscilla inversamente con il livello della busta paga o del conto corrente.

Per capire che le cose non stanno così basta analizzare la situazione che abbiamo di fronte in cui si profila sempre più chiaramente la minaccia di una deriva culturale di massa che al momento tende ad essere, più che altro, qualunquista[8], ma potrebbe anche essere diretta in senso reazionario (e quello che sta accadendo negli ultimi mesi con i pogrom anti-rom e l'ossessione degli immigrati e della sicurezza ci suonano un chiaro campanello d'allarme).

Chi rifiuta questa evidenza (l'egemonia culturale del capitalismo sulle masse popolari) cullandosi in analisi auto-consolatorie sui risultati elettorali del 13 e 14 aprile farebbe meglio a ricordare Gramsci e la sua analisi delle “rivoluzioni passive”. Se aspettiamo il fez o l'olio di ricino per riconoscere il pericolo di una deriva reazionaria delle masse popolari probabilmente non abbiamo capito davvero nulla della lezione della storia.

Può apparire paradossale, ma una lucida diagnosi del problema che stiamo analizzando l'ha fatta di recente Fausto Bertinotti

“Perché il malcontento ha un esito di destra? Secondo me è sbagliato dire che è colpa della forza della destra [o che] è colpa delle nostre insufficienze. Bisogna indagare a fondo questo passaggio storico.
Quando un operaio di Brescia prende la tessera della FIOM e vota Lega non è uno sciocco, non è uno stupido, non è un traviato, è uno che ragiona secondo una convenienza attesa e noi siamo in grado di disgregare questa attesa e costruirne una nuova oppure quello continuerà a votare Lega”[9]


Appunto. L'operaio FIOM di Brescia vuole salario, diritti, servizi sociali... Siccome la “sinistra” - parlamentare e sindacale - non offre che sacrifici “per il bene del paese” (o, per meglio dire, delle imprese)[10], laddove invece la Lega offre almeno l'illusione credibile che attraverso il federalismo fiscale “i soldi del nord restano al nord” e attraverso il giro di vite sull'immigrazione si può abbassare la concorrenza tra poveri (“il lavoro, le case, le scuole, gli asili, gli ospedali… prima agli italiani”), l'operaio del nord vota Lega (e in massa, perché la Lega è da anni il partito più operaio d'Italia, ovvero è il partito che ha la più alta percentuale di operai nel suo elettorato[11]).

Manca, nella riflessione di Bertinotti, l'esplicitazione della conseguenza politica del proprio ragionamento: se voglio essere credibile come forza riformista devo dimostrare che sono capace di strappare risultati concreti a favore delle masse; ma siccome non ho, né la forza politica, né la forza sociale, di realizzarli devo a tutti i costi cercare di ottenerli attraverso l'alleanza con i partiti confindustriali.

Ecco com'è che partiti che si dichiarano verbalmente dalla parte dei lavoratori finiscono per diventare gli zerbini di partiti che stanno concretamente dalla parte dei padroni. L'alleanza con il PD non è un optional, ma un'esigenza ineludibile per i partiti della SA. Un “partito riformista di opposizione” ha senso solo se ha una forza politico-sociale enorme e in un contesto economico di crescita; piccoli partiti riformisti di opposizione non sono che partiti di testimonianza: e il richiamo ossessivo alla “concretezza” non si può “testimoniare” altrimenti che concreto è?

***

In una bellissima frase del Manifesto del partito comunista Marx riassume indirettamente la differenza tra una concezione riformista ed una concezione rivoluzionaria

“Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma l'unione sempre più estesa degli operai”[12].

Dunque, quando si dice “la lotta paga”, si dovrebbe dire meglio: “di quando in quando la lotta paga…” e avere ben chiare due cose:

1) che l'obbiettivo delle lotte non può essere - né solo, né tanto - il raggiungimento di risultati “concreti”, specialmente quando i risultati “concreti” sono quasi impossibili, ma la trasformazione delle singole lotte parziali in lotta di classe generale (dunque in coscienza anticapitalista[13]) senza la quale i singoli risultati parziali, ove anche realizzati, sono destinati inevitabilmente ad essere persi successivamente[14] (sono effimeri);

2) che la necessità storica di una strategia rivoluzionaria deriva proprio dalla impossibilità strutturale di una progressione indefinita di conquiste riformiste (in questa fase, si dovrebbe dire, la difficoltà anche solo a frenare l'offensiva contro-riformatrice).

Naturalmente, dobbiamo rifuggire dalla tentazione di affidarci a certe semplificazioni fuorvianti che il risultato del voto di aprile potrebbe suggerire. La “crisi del riformismo” in Italia (e, in genere, in “Occidente”) è una crisi reale in atto da molti anni e su cui si è molto parlato, talvolta a proposito, altre volte meno. Questa crisi segna, con la scomparsa della “sinistra” dal Parlamento, un passaggio manifesto; ma questo non significa che i partiti della SA non esistano più e che non possano continuare a svolgere ancora per un certo tempo, in cambio di qualche briciola di potere, magari locale, il loro ruolo di “pompieri”[15] del capitalismo italiano.

Non significa neppure che sia immediatamente e definitivamente scomparso uno spazio elettorale. Le politiche anti-popolari di Berlusconi e la finta opposizione di Veltroni produrranno malcontento in alcuni settori elettorali e questo, combinato con la recita di qualche finta autocritica[16], potrebbe far riguadagnare qualche effimero consenso ai partiti della SA, almeno nel breve termine.

Ma ormai siamo, comunque, ai titoli di coda.

***

Spesso, in una situazione di crisi, si è indotti a ripensare le proprie scelte e a rimettere in discussione le proprie certezze; qualche simpatizzante della Sinistra Arcobaleno si domanderà quanto fosse davvero giusta la strada seguita in omaggio ad alcuni pilastri del luogo-comunismo (se non si vota si avvantaggia la destra; le battaglie si fanno dentro il partito; bisogna essere uniti altrimenti siamo deboli; chi comanda veramente non è Berlusconi, ma il fascista Fini; dobbiamo contare e non solo protestare; Berlusconi fa solo i suoi interessi, è amico di Bush e di mafiosi, ha le televisioni; quelli della Lega sono razzisti; gli italiani pensano solo al telefonino, a Sky e al calcio e così via…). Il dubbio è certamente il primo indispensabile passo di ogni processo di sviluppo della coscienza. Ma il dubbio, di per sé stesso, non produce alcuna trasformazione progressiva; più spesso, produce fenomeni come l'abbandono dell'attivismo, ma anche, all'opposto, lo “scatto di orgoglio” nell'ora della sconfitta, ma anche la blindatura prima e dopo l'ennesimo congresso “di svolta”, ma anche l'indisponibilità a riconoscere l'errore, ma anche la crescita di un sentimento ostile verso gli elettori “che non capiscono”, ma anche il rancore contro gli italiani che “hanno dimenticato il fascismo”, ma anche la disillusione verso gli operai che si sono imborghesiti, ma anche la convinzione che tutto è cambiato e il ‘900 deve essere superato, ma anche la necessità di nuovi linguaggi, ecc… “Ma anche”.

Probabilmente, se esistesse un'autorevole proposta politica alternativa, questa potrebbe rivelarsi una situazione non sfavorevole per i comunisti perché, come cercheremo di dimostrare, l'opzione rivoluzionaria non cresce come “di più” dell'opzione riformista, ma come alternativa al fallimento di quest'ultima. E noi siamo proprio nel pieno del fallimento dell'ipotesi riformista.

Purtroppo, una proposta politica alternativa sufficientemente autorevole attualmente non esiste e probabilmente, ancora per un certo tempo, non esisterà; farsi soverchie illusioni sull'esito dell'attuale “dibattito” sull'unità dei comunisti significa essere destinati a cocenti disillusioni.

Ciò non significa, ovviamente, che non si debba lavorare nella direzione dell'unità dei comunisti, al contrario; l'unità dei comunisti - ovvero la ricostruzione del partito comunista - è il nostro primo e fondamentale compito di fase.

Ma per costruire un'unità vera, solida, capace di reggere le tante temperie a cui un movimento autenticamente rivoluzionario è destinato, non basta dire cento volte “unità”: bisogna scegliere la giusta strada e, ovviamente, i giusti compagni di strada.

PREMESSA STORICA E POLITICA

I partiti parlamentari che, negli ultimi 15 anni, si sono definiti “comunisti” - PRC e PdCI - hanno rappresentato, all'apice del proprio consenso, una quota elettorale inferiore al 10%. Questo significa che gli italiani non comunisti o addirittura ostili al comunismo sono più del 90%.

Che l'Italia non fosse mai stata particolarmente incline verso i “comunisti” e la “sinistra” lo si sapeva da tempo, aldilà della fanfara sul “più grande partito comunista dell'Occidente” che era grande numericamente appunto perché non era comunista politicamente.

Già fin dalle elezioni del 18 aprile 1948, a soli 3 anni dalla caduta di Mussolini, le forze clerical-fasciste (come le avrebbe definite Pierpaolo Pasolini), nuova espressione del vecchio blocco sociale che aveva sostenuto il fascismo, erano tornate saldamente al comando con in tasca il jolly del denaro proveniente dal Piano Marshall[17]. Due anni prima, alle elezioni per la formazione dell'Assemblea Costituente (2 giugno 1946) la DC aveva raccolto il 35.2% mentre i partiti antifascisti avevano ottenuto circa il 40% [18]. E, sempre il 2 giugno 1946, il referendum su repubblica o monarchia era finito con la vittoria risicatissima della prima (54,3% contro 45.7%).

Il PCI, nel 1946, ottiene circa il 19% dei voti.

Questo è il patrimonio elettorale conquistato con la Resistenza. Non è poco, ma non è neppure molto e dimostra che l'Italia del secondo dopoguerra è un paese spaccato a metà in cui l'anti-comunismo è forte tanto quanto l'anti-fascismo.

Il tentativo di comunisti e socialisti di vincere le elezioni del 1948 attraverso un blocco elettorale antifascista fallisce. Di fronte alla minaccia di una vittoria dei partiti antifascisti, le forze anticomuniste italiane si mobilitano, consegnando alla DC una vittoria pesantissima (48%) e relegando il “fronte popolare” (che non a caso aveva usato il richiamo a Garibaldi per ricordare agli elettori di essere stato il nerbo della Resistenza [19]) ad un misero 30%, con un arretramento di 10 punti rispetto al risultato ottenuto appena 2 anni prima.

Evidentemente, l'emozione della Resistenza comincia a scemare, il Piano Marshall comincia a fare il suo effetto, il giudizio sull'azione dei partiti antifascisti nei due anni di governo di “unità nazionale” è negativo (disarmo dei partigiani, liberazione dei fascisti, compromesso con la DC, ovvero con il partito che raccoglie i consensi dei monarchici, dei fascisti, dei clericali, dei padroni…).

E' naturalmente pericoloso azzardare paragoni tra la situazione antecedente e quella successiva al fascismo, ma almeno un dato lo si può evidenziare: nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921 [20] socialisti e comunisti raccolgono insieme il 29,3% (con il PCdI che, appena nato, ottiene il 4,6%). Il 18 aprile del 1948, dopo vent'anni di fascismo, 5 anni di guerra, 2 anni di Resistenza armata, PCI e PSI-UP (il Fronte Democratico Popolare) raccolgono il 30,98%. Il rapporto interno tra PCI e PSI si sta modificando [21], ma si tratta, appunto solo di un riequilibrio interno.

Con la linea della “democrazia progressiva” [22], avanzata sin dalla “svolta di Salerno” del 1944 e perfezionata all'VIII Congresso, il PCI punta all'ampliamento dei diritti democratici e al miglioramento delle condizioni sociali ed economiche. Si tratta, secondo il PCI, di “dare completa attuazione alla Costituzione” e di inserire “elementi di socialismo” all'interno della società capitalistica, come si ritiene di essere riusciti a fare, appunto, con la Costituzione la quale, però, è un compromesso istituzionale (relativamente avanzato per un paese capitalista) che deriva da ben precisi rapporti di forza; con la smobilitazione dei partigiani, la liberazione dei fascisti, la vittoria elettorale della DC, l'inizio della repressione scelbiana delle lotte operaie, la scelta della “via parlamentare” al socialismo del PCI… questi rapporti di forza si stanno già squilibrando a favore dei partiti anti-comunisti. Invece di estendere ulteriormente gli “elementi di socialismo” esistenti il PCI, nonostante la sua crescita di consenso e di capacità di lotta, non riuscirà neppure a praticare quelli esistenti, se così si può dire. Si apre così una divaricazione tra la “lettera” della Costituzione e quella che verrà poi chiamata Costituzione “materiale”.

Il PCI sa che la credibilità della sua linea e il suo consenso elettorale sono strettamente legati al raggiungimento di risultati riformisti “concreti”. Solo ottenendo questi risultati si può dimostrare che la “via italiana” al socialismo è possibile.

Il vero “punto di tenuta” della strategia riformista del PCI è, infatti, la credibile illusione che la crescita del partito e del sindacato apriranno la strada al socialismo. Si tratta di una concezione tutt'altro che nuova che riesce ad affermarsi perché supportata da alcune conquiste reali, o che appaiono tali. In certe fasi sembra persino che l'azione del PCI “sposti a sinistra” la linea politica della DC

“…l'iniziativa politica e sociale del Pci nel meridione condizionò notevolmente l'azione della Dc e l'evoluzione più complessiva della politica italiana. Le lotte agrarie dell'autunno del 1949 contribuirono infatti in misura rilevante a determinare la svolta che nel gennaio del 1950 portò alla costituzione del VI governo De Gasperi con un programma riformista incentrato sull'uso produttivistico degli aiuti del Piano Marshall e sul varo della riforma agraria e della Cassa del Mezzogiorno” [23].

Per tutta una fase la credibilità della strategia riformista cresce e, grazie ad essa, il PCI riesce a contenere e a depotenziare le spinte radicali o addirittura rivoluzionarie emergenti dalla società italiana; sia quelle dell'immediato dopoguerra, influenzate dall'idea che la Resistenza sia stata interrotta e debba proseguire fino alla conquista del potere, sia successivamente.

La linea del PCI, ovviamente, non ha nulla a che vedere con un'effettiva strategia di trasformazione in senso socialista dell'esistente. Per il PCI il socialismo coincide, più o meno, con l'arrivo al governo. Ma un conto è la conquista rivoluzionaria del potere da parte di una classe (conquista che certo, come suggerisce Gramsci, deve essere materiale e culturale - forza ed egemonia -, ma che in nessun caso può realizzarsi per via elettorale e stabilizzarsi senza la distruzione e sostituzione dell'apparato statale borghese); ben altro conto è la conquista per via elettorale del governo di un paese capitalistico da parte di una rappresentanza politica che pretende di far funzionare a favore dei lavoratori uno Stato che si è costituito e consolidato storicamente per difendere gli interessi dei capitalisti contro quelli dei lavoratori.

D'altra parte, per le stesse masse popolari l'“essere comunisti” si risolve essenzialmente nell'aspirazione alla conquista di diritti e consumi negati. Ovviamente, non è deprecabile che i lavoratori tendano spontaneamente solo verso la contrattazione di condizioni economicamente migliori nello sfruttamento della propria forza-lavoro piuttosto che verso il rovesciamento rivoluzionario di questo sfruttamento. Non è da disprezzare che i lavoratori pensino a “stare meglio” piuttosto che a “fare la rivoluzione” perché proprio la frustrazione dell'aspirazione a “stare meglio” e la constatazione del progressivo “stare peggio” è uno degli elementi che apre la strada ad una riflessione sulla necessità di “fare la rivoluzione”.

Via via che le condizioni di vita dei lavoratori migliorano (grazie alle lotte sociali, allo spauracchio dell'URSS ed anche alla modernizzazione capitalistica di un paese che da principalmente contadino diventa principalmente industriale) il partito cresce lentamente nei suoi consensi elettorali [24] e nella sua “egemonia” nella società: intellettuali, artisti, case del popolo, sindacato, circoli Arci, associazioni sportive…, una specie di “contropotere riformista” - il “popolo della sinistra” - che si prepara a sostituire la Democrazia Cristiana alla guida del paese.

Ma così come il PCI rafforza la sua “presa” sui lavoratori dimostrando che anche con le semplici lotte economiche e sindacali, civili, “democratiche”… si possono ottenere importanti conquiste (la riforma agraria, la “scala mobile”, lo statuto dei lavoratori, la riforma sanitaria, la riforma pensionistica, l'equo canone, i diritti civili e democratici come il divorzio, l'aborto, la riforma psichiatrica…) così, allo stesso modo, la Democrazia Cristiana conserva la sua “presa” sulla maggioranza degli italiani cercando di dimostrare che il capitalismo è un sistema sociale progressivo in cui anche la condizione degli operai può migliorare costantemente (e comunque è molto migliore che in Russia o in Cina dove la gente fa la fila davanti ai negozi).

La credibilità dell'ipotesi riformista si risolve quindi nella credibilità del capitalismo e il quesito rimane: il miglioramento sociale ed economico dei lavoratori è dato dal capitalismo o dalle lotte economiche contro i capitalisti? DC o PCI?

Tra la fine degli anni '60 e la metà degli anni '70 il PCI riuscirà a dispiegare la sua massima “capacità riformista”. Non a caso, con le Amministrative del 1975 e le Politiche del 1976, il PCI realizzerà, sull'“onda lunga” dei risultati conseguiti nella fase di lotte immediatamente precedente, una poderosa avanzata elettorale.

Mentre il PCI avanza, si consuma alla sua “sinistra” una rottura politica che vorrebbe essere rivoluzionaria, ma che in pratica resta ancora chiusa all'interno di una visione politica influenzata dal riformismo e dall'economicismo.

Questo vale in modo più chiaro per aree come quella del Manifesto [25], ma vale anche per chi pensa il passaggio dalle lotte del biennio '68-'69 alla lotta armata come inevitabile sbocco della contraddizione tra la pressione delle lotte studentesche e operaie e i limiti che queste lotte incontrerebbero a causa della linea riformista del PCI (Potere Operaio). Il presupposto che sostiene questo ragionamento è semplice: il limite alle capacità riformiste della classe è il riformismo. Superando il riformismo, le sue forme di lotta, i suoi compromessi, la sua moderazione…, si può superare ogni limite rivendicativo fino ad arrivare, nientemeno, che a forme di vero e proprio “contropotere” sociale e politico.

Certamente, senza la conquista del potere politico, ogni miglioramento sociale, per quanto avanzato, è destinato inevitabilmente ad essere perso. E mai come negli ultimi 30 anni, contrassegnati da un gigantesco processo di ristrutturazione capitalistica, questo appare chiaro. Ma la tensione verso la conquista del potere politico da parte delle classi sfruttate non può essere concepita solo come il “fissante” delle conquiste riformiste, una sorta di garanzia della loro inespugnabilità, perché in questo modo essa torna ad essere nuovamente lo sbocco necessario di un processo riformista.

Chi pensa che dopo quello del “vogliamo di più” è ormai giunta l'ora del “vogliamo tutto” esprime, seppure in buona fede, la variante di “estrema sinistra” dell'adagio riformista secondo cui la conquista del “potere” non è che l'esito di un processo di conquiste economiche e sociali realizzate attraverso la progressione elettorale sostenuta dalle lotte sindacali laddove, al contrario, la prospettiva rivoluzionaria diventa credibile solo quando (condizione necessaria, ma non sufficiente) l'ipotesi riformista rivela la sua mancanza di credibilità. La conquista del potere politico deriva così proprio dall'impossibilità di realizzare le conquiste fondamentali attraverso processi graduali di riforma, è il tappo che salta e permette l'avvio della transizione rivoluzionaria, è la soluzione della contraddizione [26] tra rapporti sociali (capitalistici) e capacità di sviluppo [27] delle forze produttive, è il dispiegarsi di un epoca nuova dove libertà, solidarietà, giustizia sociale... prendono il posto di sopruso, violenza, umiliazione.

***

Gli anni '70 sono anni in cui “la lotta paga” ancora (sebbene più per poco perché la “marcia dei 40.000” [28] e la sconfitta degli operai FIAT - permessa dal PCI per determinare l'auto-distruzione del più importante avamposto di lotta della classe operaia italiana - sanciranno simbolicamente e materialmente l'inversione di tendenza).

La relativa facilità con cui operai, studenti, donne…, a cavallo tra gli anni '60 e '70, sembrano strappare importanti conquiste sociali, civili ed economiche fa supporre di essere alla vigilia di un imminente “crollo del sistema” [29] e che, di conseguenza, compito delle avanguardie rivoluzionarie sia quello di aiutare la “spallata” al “regime imperialista marcio e putrescente”. Invece, anche se può apparire paradossale, il regime capitalistico non era mai stato (e non sarebbe più stato) così forte perché la sua capacità di gestione delle contraddizioni interne ed internazionali era garantita da spazi economici ampi (ciò che rendeva più credibile il riformismo e, di conseguenza, il capitalismo) e da uno scontro inter-imperialistico tra le potenze “occidentali” più “blando” perché soffocato dalla contraddizione principale con il blocco sovietico.

L'economia dei paesi imperialisti viene da un trentennio di crescita ed esistono spazi per la re-distribuzione di qualche briciola (che viene effettivamente re-distribuita anche per incanalare la spinta dei lavoratori nella direzione del riformismo ed impedire la crescita di tendenze anti-capitaliste).

Ma con la prima metà degli anni '70 ha inizio una crisi capitalistica mondiale [30] (che si rivelerà poi generale, nel senso di non puramente congiunturale e non puramente economica), costellata da cicli interni e crisi specifiche (petrolio, finanza…) e attenuata da tutta una serie di fattori tra i quali citiamo, a titolo di esempio, la crisi definitiva e (poi) l'implosione del blocco sovietico, il ritorno della Cina all'economia di mercato, l'accelerazione del processo di globalizzazione del modo di produzione capitalistico sostenuta negli ultimi decenni dallo sviluppo della logistica, dell'informatica, dell'elettronica…; questi sono solo alcuni degli elementi economici che hanno permesso l'attenuazione degli effetti della crisi che però è tornata a riproporsi costantemente come nodo irrisolto.

Con la fine dell'URSS e lo sviluppo a basso regime dell'economia dei principali paesi capitalistici si determina un'impennata della competizione inter-imperialistica e l'erosione progressiva degli spazi economici per politiche di mantenimento del reddito delle fasce popolari. Anzi, si realizza un gigantesco processo di polarizzazione sociale del quale oggi tutti si accorgono (come se fosse una gran scoperta quella di verificare che il capitalismo funziona capitalisticamente).

Del povero Marx, che parlava del modo di produzione capitalistico come di un rapporto sociale che riproduce innanzitutto sé stesso come rapporto sociale (il “doppio mulinello") [31], nessuno si ricorda. Non se ne ricordavano quelli che volevano cambiare il capitalismo dall'interno e condurlo verso il “socialismo” attraverso le lotte sindacali (i Kaustky negli anni ‘10 e '20 o i Togliatti negli anni ‘40 e '50); e tanto meno se ne ricordano quei “no global” [32] che volevano avviarsi verso un nuovo mondo possibile (che nessuno è mai riuscito a capire che cosa fosse) o certi micro-gruppi operaio-sindacal-consiliaristi.

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Se un forza politica dichiara di essere “costretta” a fare compromessi e concessioni, ma è capace di ottenere risultati “concreti” avrà di fronte a sé 2 tendenze: una contraria (quelli che considerano più importanti principi e strategia che piccoli risultati immediati) e una favorevole (quelli che preferiscono subito qualcosina di concreto piuttosto che “pensare alla rivoluzione”). Il PCI, grazie alla sua capacità di concretizzazione di obbiettivi riformisti (che a dire il vero erano spesso molto più realistici di quanto non fossero reali) sviluppava le due tendenze in questo modo: un dissenso numericamente limitato anche se politicamente agguerrito; un consenso, politicamente arretrato, ma elettoralmente immenso e, decisamente, operaio e popolare. Ecco come mai, più il PCI si allontanava da una qualsiasi via - italiana o non - al socialismo, più cresceva il suo consenso popolare e tra i lavoratori.

Ed ecco come mai il richiamo ossessivo al concreto è sempre una strada verso il riformismo e, in un'epoca come questa, verso un duplice nichilismo: l'annullamento di ogni pensiero del non ancora esistente (con il bel risultato di finire nella ben nota legittimazione hegeliana del solo reale - esistente - come razionale) e il nulla dei risultati “concreti”. Così, a forza di “stare con i piedi ben piantati in terra” poi non si riesce più a muoversi, laddove invece nessuna dinamica storica è possibile senza cogliere la dialettica tra ciò che esiste e ciò che non esiste, tra ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere [33].

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Il PCI sa guardare oltre l'immediato e comincia ad aver chiaro che gli spazi per una politica economica anche solo parzialmente re-distributiva tenderanno nella prossima fase a chiudersi; con essi tenderanno a diminuire anche i consensi elettorali [34] e così la prospettiva del governo si farà praticamente impossibile da realizzare. Decide allora di puntare su un'alleanza di carattere neo-corporativo con le imprese e di “alzare il livello di incontro” con lo Stato e con il padronato.

Rispetto allo Stato il PCI si propone come pilastro di una nuova versione dell'“unità nazionale” [35] per superare, oltre che la crisi economica, anche la conventio ad excludendum che Vaticano, Washington e borghesia italiana (con il decisivo appoggio del PSI) avevano costruito attorno ai “comunisti”. In cambio cosa darà? Ovvio, la pace sociale sulle misure che il governo “sarà costretto” a prendere.

La proposta solletica alcuni settori della DC, tanto che nel 1978 l'operazione sembra andare in porto grazie all'appoggio di Aldo Moro, presidente della DC, che invece il 16 marzo viene arrestato dalle Brigate Rosse, tenuto prigioniero e poi giustiziato dopo 55 giorni durante i quali, probabilmente, gli unici a voler Moro vivo erano i brigatisti.

Rispetto al padronato il PCI decide di investire su quel “patto dei produttori” - operai e padroni insieme a “fare squadra” per l'“azienda Italia” - che in fondo, seppure in forme diverse, rappresenterà il vero “leit motiv” della strategia centro “sinistra” degli ultimi 30 anni (e, seppure in forma molto più attenuata e sporadica, anche di anni precedenti [36]). La “svolta” si basa, come detto, su una previsione: quando il PCI non riuscirà più a portare a casa risultati concreti, comincerà anche a perdere il proprio consenso elettorale di massa. In questo modo verrà vanificata la ricorsa verso il governo e con essa le aspirazioni di potere di una classe dirigente che da tempo è diventata puro ceto nichilistico il cui unico fine è riprodurre sé stesso.

Il dialogo con i settori di piccola e media borghesia “produttiva” è già in atto fin dal lancio del “partito nuovo”, ma ciò che poteva produrre elettoralmente lo ha già prodotto. E in fondo il problema non è elettorale, è politico. Per rimuovere il diktat che vuole il PCI sempre e comunque all'opposizione bisogna cercare l'accordo con i settori più “illuminati” (ovvero disponibili) della grande borghesia italiana, dimostrando la propria completa affidabilità. Si accelera così quella transizione infinita che porterà il gruppo dirigente ex-PCI al PD.

Nei primi mesi del 1978 CGIL-CISL-UIL avevano adottato alla Conferenza dell'EUR [37] una linea basata sulla collaborazione organica del sindacato al piano di ristrutturazione capitalistica fatto passare agli italiani come “sacrifici necessari per superare la crisi economica”. L'adesione della CGIL è l'atto formale con cui il PCI sigilla la chiusura definitiva di un'epoca e l'apertura di una nuova epoca: niente più sogni di impossibili “democrazie progressive” (i riformisti diventano realisti comprendendo l'illusorietà dell'ipotesi riformista), ma piena integrazione dentro il funzionamento del modo di produzione capitalistico e, conseguentemente, disponibilità ad assumersi gli oneri della ristrutturazione. Spetterà a Luciano Lama (non a caso esponente di spicco della componente di destra del PCI - i cosiddetti “miglioristi” [38]) legare il proprio nome alla nuova stagione neo-corporativa che permetterà a padroni, Stato, sindacati e partiti della sinistra di condurre i lavoratori dall'essere i meglio pagati d'Europa nella metà degli anni '70 ad essere, oggi, i peggio pagati. Un'operazione la cui portata sarebbe stata impensabile senza il coinvolgimento attivo del gruppo dirigente del PCI.

A differenza del PD che chiamerà “patto dei produttori” un programma politico integralmente subalterno alla logica del mercato e agli interessi del grande capitale italiano, senza più alcuna forma di mediazione con gli interessi dei ceti popolari, considerati solo come massa elettorale da ammaliare con operazioni di marketing, il “patto” del PCI doveva essere un “vero” patto tra produttori. Non si tratta, è chiaro, dei produttori di cui parla Gramsci [39] (anche su questo strumentalizzato come su molte altre cose), ma dei soggetti che “agiscono” nella produzione: lavoratori e padroni. Come voleva Amedola, che auspicava un patto tra lavoratori e imprenditori illuminati in chiave anti-monopolistica.

Ma come si possono conciliare gli interessi di due classi antagoniste? Evidentemente non si può. Ecco perché il risultato della strategia del PCI non sarà l'impossibile alleanza tra capitale e lavoro, ma l'ulteriore sottomissione del lavoro al capitale. Il primo passaggio necessario è quello di creare “interessi generali” da collocare al di sopra degli specifici interessi di classe e verso i quali chiamare alla “responsabilità” tutto il paese; il compromesso storico è l'espressione politica di questo passaggio. Di fronte ad un “interesse generale” che impone a tutti “senso di responsabilità” diventa legittimo ipotizzare che le grandi forze politiche del paese possano e debbano unirsi, pur nella loro diversità, per far fronte all'emergenza.

Il farsi carico da parte del PCI della crisi economica e politica del capitalismo italiano (“solidarietà nazionale”), del controllo delle contraddizioni sociali e politiche (lotta contro il “terrorismo”), del rilancio del profitto (“svolta dell'EUR”)… è l'atteggiamento di chi si sente già al timone dell'economia nazionale di un paese capitalistico: con una formula efficace qualcuno ha scritto di questo passaggio, avviato peraltro da tempo, che il PCI era passato da “partito della classe operaia dentro lo Stato” a “partito dello Stato dentro la classe operaia”.

Cosa intendeva Berlinguer quando, riflettendo sull'esito dell'esperimento riformista in Cile di Salvador Allende, deposto ed assassinato nel 1973 dal colpo di stato di Pinochet appoggiato dagli USA, affermava che in Italia il PCI non avrebbe potuto governare neppure con il 51%? Non certo, ovviamente, che avrebbe dovuto conquistare il 60 o il 70%, ma che il grande capitale italiano e internazionale non avrebbero mai permesso un governo di “comunisti” o con i “comunisti” senza un accordo strategico che garantisse in modo inequivocabile il suo profitto e potere reali. Ecco come il colpo di stato militare in Cile (assieme anche alla “strategia della tensione”) ha messo fine anche alle illusioni democratico-riformiste del PCI.

Di fronte all'evidenza che è solo con la forza di un processo rivoluzionario che un popolo si conquista il diritto e l'opportunità di decidere il proprio futuro il PCI ha scelto l'unica via che, ormai, poteva scegliere: ha scelto sé stesso, abbandonando il proprio popolo. I successori di Berlinguer non hanno fatto che perfezionare questa linea [40] fino ad arrivare a Veltroni e Bertinotti.

DALLA “DEMOCRAZIA PROGRESSIVA” AL RIFORMISMO SENZA RIFORME

Fausto Bertinotti diviene segretario del PRC nel marzo del 1994; fino al settembre precedente è ancora un iscritto del PDS da dove ha seguito la “stagione dei bulloni” [41] e il nuovo “movimento dei consigli di fabbrica autoconvocati”, sorto contro gli accordi del 31 luglio 1992. Qualche giorno prima della manifestazione di Roma del 25 settembre 1993 Bertinotti annuncia la sua uscita dal PDS; 5 mesi dopo diventa segretario del PRC attraverso un meccanismo che a molti, giustamente, ha fatto pensare all'assunzione di un manager più che all'elezione di un segretario politico. Già questo fatto avrebbe dovuto insospettire non poco. Un partito che scrittura il Segretario nel modo in cui il Milan compra Ronaldinho è sintomo, sì, di “novità”, ma non certo nella direzione di quella “democrazia partecipata” che negli anni successivi sarà il refrain più insopportabile delle chiacchiere “no global” di Fausto Bertinotti.

Il nuovo leader “comunista” dovrà avere 2 caratteristiche essenziali: 1) avere un volto presentabile per il popolo “comunista e operaio” che apprezza un sindacalista che si veste di cachemire come testimonial della propria rispettabilità (“non mangiamo mica più i bambini !!”) e 2) poter essere manovrato da Cossutta che co-governa Rifondazione assieme ai vari Garavini, Salvato, Magri, Pettinari, Castellina [42]… ma che vorrebbe restare da solo al comando (cosa che infatti avverrà nel giro di un paio di anni). Insomma, un mietitore di consensi utile anche per tenere sotto controllo il partito.

Nel PRC del 1994 la parola riformismo è ancora quasi “proibita”; ci vorrà la Conferenza politico-programmatica del 1995 e il contributo dell'ex-socialista Nerio Nesi [43] (in seguito ministro dei Lavori Pubblici dell'ultimo governo Amato, allora responsabile economico del PRC e grande amico di Bertinotti, guarda caso anch'egli ex-socialista) per avviare lo sdoganamento della parola.

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Dopo la bufera di Tangentopoli e la svolta della Bolognina il PDS comincia a pensare che la vittoria elettorale sia ad un passo. Nella campagna elettorale Achille Occhetto parla della “gioiosa macchina da guerra” con cui, finalmente, la sinistra vincerà. E invece, anche questa volta, non sarà la sinistra a vincere, ma Berlusconi, che non prevale solo grazie alle sue televisioni o alla sua presunta comunicatività, come si è detto e ripetuto a sproposito. Questi sono elementi importanti, ma secondari rispetto al fatto decisamente più strutturale che l'Italia è un paese in cui il blocco sociale che per 50 anni ha permesso alla DC di governare non è scomparso con la scomparsa della DC e da' la vittoria al cosiddetto “polo delle libertà e del buon governo” ovvero all'alleanza spuria tra Bossi, Berlusconi e Fini.

Di questa alleanza, paradossalmente, Berlusconi è al tempo stesso elemento di forza e di debolezza. Di forza, grazie al suo potere economico-mediatico e alla sua capacità di essere catalizzatore dell'Italia “anti-sinistra”; di debolezza, perché la propaganda anti-comunista e anti-sindacale con cui si presenta fa presa su parte dell'elettorato, ma rischia di far saltare un'operazione avviata alla fine degli anni '70 e faticosamente arrivata ad operatività solo dal 1992, ovvero il patto neo-corporativo del grande capitale con il sindacato e il PCI-PDS (poi DS-PD).

Il PDS, pur in difficoltà, escogita una trovata geniale inventando il “berlusconismo” e, ovviamente, l'anti-berlusconismo. Grazie all'anti-berlusconismo si può procedere - per “battere le destre” - all'alleanza con il PRC nella lista dei Progressisti che viene però sonoramente bastonata alle elezioni del 18 aprile 1994.

Nonostante le accuse a Forza Italia di essere un partito leggero e senza radicamento il PDS capisce che Berlusconi non sarà una meteora e comincia a sviluppare l'operazione “anti-berlusconismo” in modo ancora più scientifico, usando tutti i mezzi a sua disposizione tra cui, naturalmente, anche quello dei “magistrati democratici” (che dopo la vittoriosa lotta contro il “terrorismo”, dopo Tangentopoli e dopo la morte di Falcone e Borsellino hanno acquisito una grande autorità morale); se non si riuscirà a far fare a Berlusconi la stessa fine che aveva fatto il vecchio CAF [44], ovvero metterlo alla sbarra, si potrà comunque tentare di ricattarlo politicamente. L'obbiettivo non è necessariamente quello di arrivare alle condanne, che infatti non arrivano quasi mai grazie anche, ma solo in parte, a leggi che vengono definite “ad personam”, ma che sarebbe meglio definire “ad classem” - ci si perdoni il “latinismo” - e che infatti la “sinistra” al governo si guarda bene dal toccare. L'obbiettivo è piuttosto quello di sollevare su Berlusconi e le sue alleanze una “spada di Damocle” da agitare propagandisticamente quando conviene, sia elettoralmente, sia per avere potere di contrattazione dall'opposizione.

I “poteri forti” - o per meglio dire i veri poteri - temono che il “parvenu” di Arcore possa far saltare un piano costruito in anni ed anni; per cui lo de-fenestrano dopo soli 7 mesi di un travagliatissimo governo attaccato da tutti i versanti inducendo la Lega Nord e il partito di Rocco Buttiglione a ritirare la fiducia al governo; Berlusconi va a casa e gli subentra un suo ministro, il tecnocrate Lamberto Dini, già Direttore Generale della Banca d'Italia sotto il governatorato di Ciampi.

Il governo di Lamberto Dini (appoggiato in Parlamento da PDS, Lega Nord, ex-democristiani… e fuori dal Parlamento dal grande capitale industriale e finanziario nonché, ovviamente, dalla “triplice” sindacale) prosegue il percorso che Berlusconi aveva minacciato di incrinare ovvero il percorso della ristrutturazione neo-corporativa del capitalismo italiano mediante l'esproprio progressivo di tutte le conquiste che il movimento operaio italiano aveva strappato in decenni di lotte. Si tratta del tentativo - in gran parte riuscito - di sostenere il rilancio del profitto attraverso la ri-distribuzione di una quota gigantesca di ricchezza dai lavoratori verso i capitalisti il cui passaggio centrale di fase nel 1995 è la distruzione del sistema previdenziale.

L'implementazione della riforma Dini produrrà a regime una diminuzione del 40-50% delle pensioni che un tempo venivano chiamate di anzianità: questo è il primo passo indispensabile per spingere nella fase successiva - cioè oggi - i lavoratori a rivolgersi alla previdenza integrativa. Quello della previdenza complementare (i Fondi Pensione Integrativi) è un gigantesco business che il sindacato gestirà direttamente assieme al grande capitale nei consigli di amministrazione dei fondi detti “chiusi” o “negoziali” [45] sostenuti efficacemente a prevalere su quelli “aperti” (proposti da banche, assicurazioni e finanziarie).

Questa unità del grande capitale industriale e finanziario italiano con il sindacato nella speculazione sulle pensioni dei lavoratori è un'ulteriore plateale dimostrazione di cosa significhi oggi “patto dei produttori”. Non certo, ovviamente, l'impossibile alleanza tra operai e padroni, ma l'accordo tra padroni e sindacati di regime contro i lavoratori.

Dal momento che i lavoratori recalcitrano ad aderire ai FPI, verso la fine della legislatura, dopo una lunghissima trattativa, il governo Berlusconi vara una legge che obbliga i lavoratori a versare - irreversibilmente - il proprio TFR ad un FPI chiuso se non dichiareranno il proprio esplicito dissenso entro i primi 6 mesi del 2008 [46]. La prima cosa che l'Unione farà, una volta arrivata al governo nel 2006, sarà quella di anticipare di un anno l'attuazione di questo vero e proprio scippo. Poi, nella “sinistra” si domandano come mai hanno perso i voti dei lavoratori…

Da evidenziare che, contro tutti i partiti istituzionali (da AN e Lega al PRC e PdCI) e contro tutti i sindacati di regime (dall'UGL alla CGIL), i lavoratori, con il solo appoggio dei sindacati extra-confederali, dei gruppi politici extra-parlamentari e del proprio istinto, sono riusciti, almeno per il momento, a frustrare le speranze del padronato e del sindacato di regime aderendo in misura bassissima ai FPI nel primo semestre 2007 e ancora meno successivamente, malgrado la trappola del silenzio-assenso e la massiccia campagna di disinformazione attuata con la complicità di tutti i mass media (a parte la solitaria eccezione della trasmissione Report).

Il sindacato confederale porta il criminale accordo sulle pensioni del 1995 nelle fabbriche, ma viene battuto nel referendum: i lavoratori attivi dicono no e solo grazie ai brogli e al voto dei pensionati (che non sono minimamente intaccati dalla riforma) il sì viene dichiarato “vincente”. In cambio dell'appoggio del sindacato alla riforma, i suoi padrini politici avranno il “via libera” verso il governo che infatti arriverà nel 1996. Per la prima volta ex-PCI diventeranno ministri e la “sinistra” coronerà la sua lunga rincorsa. Certo, il premier è pur sempre un democristiano, ma è già pronta l'operazione che porterà a Palazzo Chigi Massimo D'Alema a cui spetterà l'“onore” di essere il primo Presidente del Consiglio ex-PCI e di condurre l'Italia nella criminale aggressione imperialista contro la Jugoslavia (ovviamente, e per quello che può valere, senza nessuna consultazione del Parlamento e in plateale disprezzo dell'art.11 della Costituzione; poi ci chiamano alla lotta contro le leggi di Berlusconi).

Le vicende successive alla controriforma Dini sono paradigmatiche del modo in cui la “sinistra” ha funzionato in questi 15 anni. Il PRC, schierandosi contro la riforma delle pensioni, aveva conquistato molte simpatie tra i lavoratori e ciò gli permise di passare, in meno di due anni, dal 6 all'8,5% (con un trend di crescita che in quella fase proiettava il PRC verso il 10% ed oltre); grazie al consenso capitalizzato il PRC si precipitò a stipulare l'anno successivo un accordo chiamato, eufemisticamente, di desistenza per sostenere il governo Prodi nel quale Dini sarà nuovamente ministro [47]

La “desistenza” viene presentata come un accordo “puramente tecnico” perché nel PRC ci sono molti mugugni verso una qualsiasi alleanza con chi aveva fatto passare la pesantissima contro-riforma delle pensioni (Dini, i sindacati, i partiti “della sinistra”, ecc…). In realtà, si tratta di un vero accordo politico che reggerà fino alla fine del 1998, ovvero fino alla vigilia del “bombardamento umanitario” della Jugoslavia. A questo punto si ripresenta di nuovo lo “schema-Bolognina”: una parte va avanti a garantire il processo e una parte si stacca per andare a recuperare il dissenso. Si contano i parlamentari: se una parte del PRC deve tornare all'opposizione per ri-accalappiare pacifisti e anti-imperialisti che non si bevono la frottola della “guerra umanitaria” (concordata dopo il fallimento pilotato della Conferenza di Rambouillet) bisogna far arrivare “truppe cammellate” dal centro-destra perché di votare non se ne parla: il rischio è che vinca Berlusconi. Ed ecco che si presentano Cossiga e Mastella a permettere il varo del nuovo governo D'Alema e, successivamente, di quello Amato. Il PRC si scinde: la frazione Cossutta-Diliberto va al governo, il resto va all'opposizione. Contro la guerra il “popolo comunista” si mobilita e chiama D'Alema assassino. Non sa che, alla prima occasione possibile, il PRC sarà di nuovo al fianco del cinico bombardatore di Gallipoli.

La “sinistra” esce malconcia dalla prima esperienza di governo. Una pesantissima contro-riforma del mercato del lavoro (il “Pacchetto Treu”), un gigantesco processo di svendite e privatizzazioni agli industriali amici, l'attacco al diritto di sciopero nei servizi pubblici, l'istituzione dei lager-CPT con la legge razzista Turco-Napolitano, la riforma aziendalista della scuola di Berlinguer, la guerra imperialista in Jugoslavia e le tantissime altre scelte anti-popolari mettono a dura prova la fedeltà del pur fedele elettore di sinistra che diserta un po' il voto, malgrado l'agitazione dell'ennesima emergenza anti-berlusconista.

Berlusconi vince le elezioni e governa per 5 anni proseguendo linearmente il percorso avviato dai governi precedenti e sviluppandone i vari provvedimenti. Ecco che la Bossi-Fini sviluppa e peggiora la Turco-Napolitano mentre la “legge Biagi” sviluppa e peggiora il “Pacchetto Treu” e la “riforma Moratti” sviluppa e peggiora la “riforma Berlinguer”.

Berlusconi fa approvare una serie di leggi utili per sé stesso (e per i padroni in genere), ma non riesce a stravolgere il patto con il sindacato tanto è vero che è costretto al dietro front nella partita sull'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, sulla parificazione tra fondi “aperti” e “chiusi” nella destinazione del TFR e persino sul tentativo di aprire una stagione di accordi separati con CISL-UIL [48].

Durante il suo “quinquennato” Berlusconi è costretto a fronteggiare una serie di problemi. Si comincia subito, nell'estate 2001, con le manifestazioni contro il G8 a Genova e la mattanza del 20 e 21 luglio (che voleva essere più preventiva che non repressiva con un messaggio chiaro e forte: “non tornate in piazza”). A settembre c'è l'attacco aereo contro New York e, nel giro di poche settimane, la “rappresaglia” [49] contro l'Afghanistan promossa dalla “coalizione dei volenterosi” cui aderisce formalmente anche la volenterosa Italia.

Nel giro di pochi anni tutti i movimenti si gonfiano rapidamente: quello “no global”, quello contro l'aggressione USA all'Iraq, quello contro il tentativo di attacco all'articolo 18, quello dei “girotondi”, quello dei metalmeccanici per i precontratti… Aldilà del loro “programma politico” [50] uno dei limiti principali di questi movimenti consiste nella loro oggettiva subalternità politica ed organizzativa al centro-sinistra e al fatto di essere concepiti soprattutto in chiave anti-berlusconiana. Questo avrà come risultato, in effetti, la perdita progressiva di consensi da parte del governo e il recupero elettorale del centro-sinistra, ma anche quello di impedire lo sviluppo dei movimenti o, per meglio dire, di alcuni suoi settori e, infine, la loro progressiva uscita di scena mano a mano che l'opposizione tenderà a diventare maggioranza e comincerà a sgonfiare i movimenti che non ha più interesse a tenere in piedi.

Nel 2006 si realizza un pareggio elettorale che determina una situazione di sostanziale ingovernabilità parlamentare. In realtà l'ingovernabilità sarà solo nella forma perché nella sostanza, malgrado piccole forze abbiano teoricamente la possibilità di esercitare una forma di ricatto permanente, Prodi approverà integralmente il programma concordato con il padronato: solo per fare pochissimi esempi, ma chiari: l'avvio anticipato dello scippo del TFR con la truffa del silenzio-assenso; l'approvazione dei “protocolli” del 23 luglio 2007 con l'ulteriore estensione della precarietà, il nuovo innalzamento dell'età pensionabile, la detassazione degli straordinari…; l'aumento del 20% delle spese militari in omaggio all'apparato militare-industriale italiano e al ruolo attivo dell'Italia nelle operazioni di controllo politico e territoriale in giro per il mondo; la riduzione di 6 miliardi del cosiddetto “cuneo fiscale” per le imprese. Non male per un anno e mezzo di lavoro…

Dopo il governo Prodi 2006 ormai “il re è nudo”. La litania del “movimento dei movimenti” ha stancato un po‘ tutti (anche perché i movimenti tendono “stranamente” ad uscire di scena mano a mano che il centro-sinistra avanza nei sondaggi [51]); Bertinotti decide che è arrivato il momento di chiudere l'esperienza parlamentare “comunista” in Italia avviando il nuovo percorso “arcobaleno”.

E' una prova generale. Se “va”, si prosegue; se non va si cercherà un nuovo assetto. Non va. La Sinistra Arcobaleno finisce fuori dal Parlamento e si apre il dramma.

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La parabola che conduce il PRC dal 1992 al 2008 potrebbe essere definita: dal finto comunismo al finto pacifismo.

Così come il riferimento al comunismo era per il PRC puramente simbolico (in omaggio alla natura sostanzialmente identitaria del richiamo al comunismo della sua base) così è puramente elettoralistico il riferimento ossessivo alla pace e alla non violenza. Certo, c'è anche una valenza ideologica “a futura memoria”… ma chi conosce gli iscritti e gli elettori del PRC sa bene che non c'era proprio alcun bisogno di avviare una campagna così martellante per la non violenza (neanche ci fossero migliaia di iscritti al PRC in procinto di passare alla guerriglia); è chiaro che l'operazione “non violenza assoluta” è in buona parte una “cortina fumogena” per avviare il re-branding del PRC con l'obbiettivo di acquisire tutti quei bravi pacifisti a senso unico che hanno esposto ai balconi le bandiere arcobaleno (“lotta dura senza paura !”), ma di cose come lotta di classe, imperialismo, comunismo, resistenza… non vogliono neppure sentir parlare. Ed infatti, su tutti questi temi, Bertinotti e l'intero gruppo dirigente del PRC si applicano con diligenza nell'opera revisionistica che ha l'obbiettivo di tagliare tutti i ponti culturali e politici con l'esperienza storica del movimento comunista e del movimento operaio.

Visto che neppure il PRC può più stare “in mezzo al guado” a declamare le virtù dei “movimenti” sostenendo governi che realizzano strategie che vanno nella direzione esattamente opposta alle rivendicazioni formali di questi (fossero anche le più moderate), è chiaro che bisogna inventarsi qualcosa per mantenere un “posto al sole” nel quadro del “patto dei produttori”. Già, perché anche Bertinotti è un sostenitore del “patto dei produttori” e per sincerarsene basti ricordare l'eclatante intervista sui “padroni illuminati” [52], da cui emerge come la differenza con Veltroni consistesse, in definitiva, nella scelta dell'“illuminato”: Bertinotti avrebbe voluto essere illuminato da Marchionne, ma Veltroni ha ingaggiato Calearo. L'intervista in questione è quella rilasciata alla fedelissima Rina Gagliardi; in essa Fausto Bertinotti spiega la sua “strategia” per rafforzare l'Unione e superare così la limitatezza dei suoi numeri parlamentari

La maggioranza attuale, quella che ha vinto le elezioni del 9 e 10 aprile, ha sempre avuto di fronte a sé il problema dell'allargamento: cioè accrescere il consenso sociale, oltre le cifre risicate di quello elettorale, aumentare la sua influenza e capacità di orientare i cittadini. Mi è già capitato di dire che questa operazione, se non vuole diventare puro politicismo, significa, per esempio, un'alleanza del popolo di sinistra con quel pezzo di borghesia che è disposta ad andare oltre il liberismo - quella che ammette che la compressione dei salari non è la strada giusta per uscire dalla crisi italiana. Marchionne, per fare anche un nome”.

Beh, qualcuno avverta il presidente della FIAT (Montezemolo) che il suo Amministratore Delegato (Marchionne) è un “no global”.

Qui non si tratta, evidentemente, della costruzione di un blocco sociale anti-capitalista tra lavoratori e settori della piccola borghesia proletarizzata o in via di proletarizzazione da strappare all'egemonia culturale dei partiti borghesi secondo uno schema classico del marxismo.

Per il riformismo la questione della compatibilità tra interessi dei lavoratori e modo di produzione capitalistico è, evidentemente, un problema fondamentale. Togliatti lo aveva affrontato in diverse occasioni e con approcci diversi. Ma il filo conduttore è certamente quello del tentativo - peraltro rivelatosi storicamente infruttuoso - di rompere il blocco sociale “reazionario”

“L'idea di un compromesso a suo modo storico tra l'egemonia comunista e la realtà delle classi borghesi nasceva dalla consapevolezza che l'Emilia era un'isola rossa in un mare bianco, la rivoluzione non era alle porte, che c'erano le condizioni per creare benessere e distribuirlo: “Compagni,” disse Togliatti ai funzionari comunisti “qui da voi c'è l'occasione storica di dimostrare che il socialismo si può fare pacificamente, con un largo fronte democratico, in cui le ragioni del lavoro e quelle del capitale possono collaborare per far vedere al blocco reazionario che i comunisti sono capaci di fare star bene il popolo”. Nel breve silenzio che seguì queste parole, una voce sussurrò distintamente: “E la rivolussione?”” [53].

Anche la questione dell'antifascismo è parte di questa ipotesi.

Il filosofo ex-marxista Costanzo Preve scrive

“Il PCI fra il 1943 ed il 1948 fu rifondato sulla base dell'ideologia dell'antifascismo. Si tratta di un salto storico, perché il PCdI degli anni Venti era invece stato fondato sulla base dell'ideologia del classismo. Non si tratta assolutamente della stessa cosa, in quanto le due impostazioni non si sovrappongono. Per poterlo fare, bisogna sostenere che il fascismo è solo una manifestazione della strategia politica del grande capitale industriale e soprattutto finanziario. Ma non è così, ed è ora di cominciare a dirlo. Il fascismo è stato soprattutto una reazione politica dei nuovi ceti medi minacciati dall'ascesa del proletariato e dall'auto-referenzialità della grande borghesia. In ogni caso il classismo è, come dice la parola stessa, “classista”, mentre l'antifascismo è per sua natura interclassista. Non dico che non sia un bene o non possa essere un bene. Personalmente, sono per un interclassismo rivoluzionario e non per un classismo puro” [54]

Proviamo a sviluppare il suggestivo ragionamento di Preve (che qui usa il concetto di ideologia, giustamente, in termini negativi):

- il PCI accredita l'idea di una Resistenza patriottica e neo-risorgimentale e non l'idea della lotta di liberazione nazionale come prodromo di una successiva lotta di liberazione sociale - com'era per migliaia di partigiani - perché il PCI non vede la Resistenza come primo passo verso la Rivoluzione, ma come primo passo verso l'integrazione nel processo democratico borghese. Di fronte all'impegno con cui i comunisti hanno difeso la “patria” (e le sue fabbriche) dall'invasore tedesco chi potrà mettere in discussione il loro diritto a candidarsi alla guida della Nuova Italia [55]?

- un segnale inequivocabile del decadimento politico e culturale di questo paese è evidenziato dal passaggio dall'antifascismo all'anti-berlusconismo in quanto colonna portante dell'unità delle cosiddette sinistre. Del resto, con quale coraggio sarebbe possibile definire antifascista un D'Alema che bombarda la Jugoslavia sotto il comando della NATO o un Rutelli? O un Violante che dichiara all'atto del suo insediamento come Presidente della Camera nel 1996 che partigiani e repubblichini furono vittime di una comune tragedia? E se pure Fini, riconosce che il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani, beh… è chiaro che fascismo e antifascismo sono ridotti a pure forme identitarie e per giunta marginali.

Nell'immaginario degli “elettori moderati”, l'antifascismo era poi una base politica troppo restrittiva per la costruzione del fronte centro-“sinistro” (troppi ex-democristiani impossibili da convertire, anche solo formalmente, all'anti-fascismo); ma la soluzione dell'anti-berlusconismo è quasi perfetta. I programmi di centro-destra e centro-sinistra possono divenire totalmente interscambiabili; l'unico elemento di distinzione è Berlusconi si o Berlusconi no. E questa è una delle ragioni per cui abbiamo sempre considerato auto-lesioniste (oltre che sbagliate) le linee politiche anti-berlusconiane indicate anche da micro-gruppi “comunisti” o di “estrema sinistra” che, nella foga disperata di essere amati dalle masse, sono finiti per legittimare culturalmente un'operazione che rafforza l'evoluzione ultra-capitalista della società italiana.

Se (mutuando il linguaggio di Preve) il passaggio dall'ideologia del classismo all'ideologia dell'antifascismo permette alla “sinistra” di parlare a settori sociali di piccola e media borghesia, il passaggio dall'ideologia dell'antifascismo all'ideologia dell'anti-berlusconismo permette di parlare a qualunque settore sociale. Si porta a compimento, quindi, il percorso che dalla “democrazia progressiva” di Togliatti conduce, passando attraverso il “patto” di Amendola e il “compromesso storico” di Berlinguer, all'alleanza dei produttori di Veltroni e di Bertinotti.

O, se vogliamo, dal partito “nuovo” di Togliatti alle primarie dell'Unione; dall'illusione riformista al riformismo senza riforme e dal riformismo senza riforme alla piena integrazione nel capitalismo moderno.

In questa situazione l'alleanza tra capitale e lavoro di Veltroni e Bertinotti conduce inevitabilmente alla riduzione del cuneo fiscale per le imprese e alla detassazione di straordinari e premi aziendali, mentre aumenta vertiginosamente l'inflazione reale neppure minimamente recuperata dai rinnovi contrattuali. Conduce, in sostanza, al punto di arrivo di sempre: drenaggio di ricchezza dai lavoratori verso il capitale. Da questo punto di vista la compatibilità di Veltroni e Bertinotti, aldilà della loro soggettiva “falsa coscienza”, è molto più alta di quanto si possa immaginare. Giorgio Cremaschi, leader della Rete 28 aprile e della FIOM, osserva

in Italia non c'è mai stata una borghesia produttiva con la quale allearsi contro la rendita perché alla fine rendita e profitto hanno sempre vissuto assieme. Su questo è andato in crisi il ragionamento di Giorgio Amendola[56]

Dunque, anche Cremaschi coglie la continuità storico-teorica tra il “patto” di Amendola e quello di Bertinotti.

Naturalmente, se all'impossibilità strutturale di far leva su un settore del grande capitale per liquidarne un altro si sostituisce una immaginaria divergenza di prospettiva tra capitale industriale e capitale finanziario si possono poi “giustificare” gli aiuti di ogni tipo elargiti alle imprese con i soldi dei lavoratori salariati (una vera e propria donazione ai padroni da parte dei dipendenti), magari chiudendo un occhio e pure l'altro sulle agevolazioni date anche a banche, finanziarie, fondazioni e assicurazioni (continuando, beninteso, a tuonare sulla necessità di tassare le speculazioni o - addirittura - le rendite finanziarie).

Bei tempi quando si diceva: sfruttare le contraddizioni tra briganti imperialisti per liquidare tutti i briganti.

Ovviamente c'è una “bella” differenza tra il patto di Bertinotti e quelli di Veltroni. Nel patto di Bertinotti, capitalisti “no global” come Marchionne, Draghi e Moratti lottano insieme agli operai per fregare finanzieri come Profumo o Bazoli. Nel patto di Veltroni, invece, Profumo, Bazoli, Marchionne e Veltroni fregano gli operai. Cosa vogliamo dedurne? Che Veltroni vive nell'Italia del 2008 e Bertinotti è “Alice nel paese delle meraviglie”? Oppure che questo è ciò che vuole, come avrebbe detto Pirandello, il giuoco delle parti?

TANTO TUONO' CHE PIOVVE

Chi di noi non ha mai avuto occasione, dopo un temporale, di osservare la nascita di quel suggestivo fenomeno ottico chiamato arcobaleno ? Ma a quanti di noi era mai capitato di vedere un arcobaleno nascere prima di un temporale o, per meglio dire, prima di un uragano ? Dopo il 13 e 14 aprile 2008, a milioni di italiani.

Dopo aver “picconato” il ‘900 assieme al “compagno di merende” Marco Revelli, Fausto Bertinotti capisce che, a ben pensarci, il rifiuto del PD di fare l'“ammucchiatona” nelle elezioni 2008 può rivelarsi un assist per provare a chiudere il processo di transizione del PRC da partito riformista con simbolo comunista a partito radical con simbolo pacifista. “Correre da soli”, infatti, significa rischiare il quorum e quindi l'“ammucchiatina” della SA può essere presentata come necessaria per non essere espulsi dal Parlamento. La discussione sulla presenza o meno del simbolo comunista sembra una discussione puramente tattica (“se non mettiamo la falce e il martello possiamo chiudere l'accordo e prendere anche più voti”) e invece quella del simbolo è, ovviamente, un'operazione strategica [57]. Se passi da Che Guevara ad Aldo Capitini poi non puoi tenerti la falce e martello e la stella rossa: giustamente, prendi l'arcobaleno.

In ogni caso, Diliberto e Bertinotti avevano già decretato la scomparsa del simbolo comunista dal Parlamento italiano, indipendentemente dall'esito del voto.

Ai colori e simboli del comunismo succedono i colori e simboli del pacifismo. Anche a noi, che non siamo certo amanti delle iconografie, non sfugge che si tratta di un passaggio rilevante (almeno del punto di vista simbolico [58]).

Dopo l'esclusione dal Parlamento, i partiti della Sinistra Arcobaleno devono trovare un nuovo assetto ed è molto probabile che ci saranno ulteriori smottamenti, anche se, probabilmente, non prima delle Europee del 2009.

Il problema della SA è quello che, malgrado possegga un bacino elettorale potenziale sicuramente superiore a quello raggranellato il 13 e 14 aprile 2008, essa è destinata ad un equilibrio eternamente instabile e instabilizzabile, particolarmente in presenza di un'ulteriore riduzione di quelli che abbiamo già definito “margini di riformismo” (ovvero limitate [59] possibilità di strappare miglioramenti sociali per le masse popolari).

L'ossimorico Giano bifronte “comunismo-riformismo” non riesce a “far star meglio” gli italiani come Togliatti sosteneva che bisognasse fare per guadagnarne la simpatia. Il vero punto della questione è proprio questo. Non a caso, la tesi centrale di questo contributo è che il risultato elettorale del 13-14 aprile scorso non può essere spiegato adeguatamente se non si tiene conto di un fattore di lungo periodo ovvero della - attualmente non reversibile - crisi di credibilità del riformismo che deriva dalla sua crisi di risultati.

Nel 2006 i partiti della SA ottengono un risultato elettorale importante (10,2%) grazie anche al lavoro svolto nei “movimenti” della fase precedente. Ma quello che sembra il viatico per una nuova era della “sinistra” è in realtà l'ultima scommessa che molti elettori fanno, in buona fede, sui partiti della SA come potenziali rappresentanti dei movimenti nelle istituzioni. La concreta e plateale subalternità della SA al governo Prodi 2006 viene vissuta come il fallimento di questa scommessa.

Nel giro di un anno e mezzo la SA dilapida oltre il 70% del suo patrimonio elettorale e la cosa più sorprendente è che se il governo non fosse caduto per merito di Mastella, la SA sarebbe precipitata, probabilmente, ancora più in basso. Una politica talmente autolesionista da far pensare ad una specie di pulsione di morte elettorale.

***

L'“arcobaleno”, in Italia, non è una novità.

Già qualche anno fa, dalla confluenza di ambientalisti radical (Aglietta, Rutelli…) e demo-proletari pentiti (Capanna, Ronchi…) nacquero i Verdi Arcobaleno [60], esperimento assai poco longevo e ancor meno interessante, ma utile come “ponte tibetano” per alcuni transumanti. Il risultato dei Verdi Arcobaleno fu quello di dilapidare in un battibaleno un piccolo gruzzolo di voti; per correre ai ripari, i “verdi arcobaleni” si unirono con altri ambientalisti in quel partito da smaltire che sarebbe poi stata la Federazione dei Verdi.

Ma per prevedere il potenziale iettatorio dell'arcobaleno non c'era bisogno di tornare troppo indietro; bastava ricordare l'esito della “lista arcobaleno” presentata alle elezioni amministrative di Roma del 2006. Per quanto sostenuta da centri sociali “disobbedienti” e non, da intellettualoni di “lungo corso” e no global, e anche da qualche figura appartenente a noti gruppi comunisti extra-parlamentari [61]… la “lista arcobaleno” non voleva essere troppo antagonista nei simboli (era “arcobaleno”, appunto), nei contenuti (“imprimere una marcia in più - a sinistra - all'amministrazione Veltroni”, e meno male che sottolinearono “a sinistra”) e tanto meno nelle prospettive (visto che faceva parte della coalizione dell'uomo di Washington e Tel Aviv, Uolter Veltroni). La lista voleva essere un'alternativa “di movimento” ai partiti della sinistra per accalappiare elettoralmente (ops… per dare rappresentanza “partecipata” politico-istituzionale a…bla, bla…) settori di quel fugace e un po' smorto, ma elettoralmente corposo, “movimento contro la guerra” che nel 2003 aveva fatto dell'esposizione della bandiera arcobaleno ai balconi la sua principale - se non unica - iniziativa di lotta, a parte qualche camminata e una quantità spropositata di riunioni e di forum (sociali, ovviamente). Da segnalare che i promotori della “lista arcobalena de roma” si proponevano di lavorare “non per dividere ma per unire” (figuriamoci, lo davamo per scontato, sempre “unire” altrimenti non si è “unitari” !!) “e per questo il primo passo del Comitato Promotore è quello di scrivere alle segreterie dei partiti della sinistra romana, i Verdi, il Pdci e Rifondazione, per incontrarli e proporgli di unire le forze in una lista comune”.

“Scrivere alle segreterie”, una vera mobilitazione “dal basso”, “partecipativa”...

In realtà volevano essere il “quarto” al tavolo, quello che poi sarebbe stato Mussi con il suo “esercito” di sottufficiali. Il risultato di cotanto “realismo” e di copoco “antagonismo” fu lo 0.3% - più promotori che elettori verrebbe da dire -: una discreta, e ben meritata, punizione. L'elettore “di sinistra” e “di movimento” si sarà detto: se proprio bisogna essere “realisti” tanto vale farlo in uno dei partiti che già esistono e lasciare che gli ex-Social Forum vadano dove meritano.

La conclusione naturale di questi esempi è molto semplice: l'arcobaleno porta sfiga e per averne ulteriore conferma non c'è di meglio che ricordare l'ingloriosa fine del fu movimento contro la guerra del 2003 (quello delle milioni di bandiere arcobaleno appese ad ingiallire ai balconi di persone a molte delle quali faceva schifo la guerra in Iraq, ma non quella in Jugoslavia, che chiamava missioni di guerra quelle finanziate da Berlusconi in Iraq e missioni di pace quelle ri-finanziate da Prodi, Fassino, Bertinotti >& co... in Afghanistan e in Libano [62]); un movimento svanito in poche settimane dopo il “tutti a casa” dei leader che auspicavano la veloce resa degli iracheni “per evitare più morti” (!!), ma non prima di avere pontificato sulla necessità di “fermare la guerra prima ancora che la guerra avesse inizio” [63] attraverso la mobilitazione simbolica dell'opinione pubblica internazionale (che il New York Times aveva definito iettatoriamente “seconda superpotenza mondiale”); e, ovviamente, non prima di aver sparato sentenze sulla fine dell'imperialismo e l'inizio dell'Impero, nonché dopo aver spalato montagne di fango sull'unica reale lotta contro la guerra, ovvero la resistenza nazionale del popolo iracheno.

Questo preambolo per dire di come il “simbolo della pace” sia stato usato più volte in questi anni - quasi sempre in modo assai poco fortunato - per promuovere progetti che quasi sempre avevano la finalità di sommare aree politiche eterogenee unite, in definitiva, solo dalla caccia al voto.

Ma torniamo alle arcobalenate recenti.

PRC, PdCI, Verdi e Sinistra Democratica [64] si presentano alle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 con un'aggregazione - La sinistra, l'arcobaleno (SA) - che nelle intenzioni di alcuni è solo un cartello elettorale necessario per superare gli sbarramenti, mentre nelle ambizioni di altri (come Bertinotti, l'uomo meglio vestito della politica italiana) dovrebbe rappresentare nientemeno che tutta la sinistra, “resa orfana” dalla nascita del PD (nascita che si supponeva avrebbe aperto uno spazio elettorale che invece si è rivelato assai meno aperto del previsto).

Il sogno bertinottiano - sogno è un termine quanto mai appropriato specie dopo il “risveglio” del 13-14 aprile - di diventare il leader di un “sinistra” post-comunista [65] strategicamente vincolata al PD si infrange il 14 aprile sotto una vera e propria “doccia scozzese”. Passare da 137 parlamentari [66] a 0 non deve essere stato uno shock da poco, specialmente per tanti professionisti “di sinistra” della politica.

E' comprensibile che, per lenire lo sconforto degli iscritti e dare l'impressione dello “scatto d'orgoglio”, possano prodursi alcuni rimescolamenti interni ai partiti della SA.

Ad esempio, nell'incontro post-voto tra Veltroni e Claudio Fava (coordinatore di una Sinistra Democratica ormai privata, oltre che dei voti, anche degli scranni parlamentari) è stato deciso di avviare un “patto di consultazione” che prefigura in sostanza il rientro della SD dalla porta di servizio del PD.

I Verdi hanno riesumato la salma di Grazia Francescato, già una prima volta portavoce dei Verdi dal luglio 1999, l'anno in cui questo partito-truffa co-bombardava la Jugoslavia con l'uranio impoverito (da veri ambientalisti e pacifisti quali dicono di essere) e anche per questo perdeva voti alle elezioni europee (defenestrando Luigi Manconi, ex-comunista pentito e ministro del governo D'Alema durante i bombardamenti di Belgrado e della Zastava).

Il PdCI ha rieletto Oliviero Diliberto la cui “svolta epocale” al recente Congresso è stata quella di proporre la riunificazione con il PRC (che lui aveva concorso a spaccare pur di entrare nel governo D'Alema) e una strategia delle alleanze davvero innovativa

“Il PD è dentro la struttura del mercato, accetta le compatibilità del mercato, è sempre più simile ai suoi nemici. Noi abbiamo un obiettivo diverso, alternativo, il superamento del sistema capitalistico. Ma se vogliamo fare politica, dobbiamo porci il problema dei rapporti con il PD, la più grande forza di centrosinistra. Fare politica significa fare politica delle alleanze…” [67]

Ovvero, qualche frase demagogica sul “superamento del capitalismo…” che farebbe sorridere, se non facesse ribrezzo, ascoltata dalla bocca di un personaggio che calcava lo scranno di Ministro della Giustizia di quel bel governo che nel 1999, con l'appoggio di Cossiga [68], si profuse entusiasticamente nel bombardamento della Jugoslavia sotto il comando del “democratico” Clinton o che ha sostenuto per anni governi che hanno massacrato i lavoratori italiani, sia dal punto di vista salariale che sociale. Ma poi, oltre la demagogia, il dogma: con il PD ci si allea. E' o non è la più grande forza di centro-sinistra? Per Diliberto, evidentemente, è.

Nel PRC, il primo contraccolpo post-elettorale è stato il passaggio del gruppo Ferrero-Mantovani-Russo-Spena dalla vecchia maggioranza con Bertinotti alla nuova maggioranza con Claudio Grassi, naturalmente dopo aver retto per anni la coda al segretario e averne goduto i privilegi derivanti. Ora che ad affogare è il capo, lo bastonano per trovare un capro espiatorio sul quale scaricare tutte le responsabilità e ricominciare come prima, più di prima… Naturalmente, con una nuova linea politica del tutto in continuità sostanziale con quella vecchia; infatti, mentre tutti mettono in discussione astrattamente l'alleanza con il PD [69] sul piano nazionale (che oggi non si pone e che è saltata, ribadiamolo, per scelta del PD e non certo per volontà dei vari Grassi o Ferrero o Russo Spena), nessuno mette in discussione l'alleanza concreta che c'è con il PD in tutta Italia e anche in amministrazioni molto “pesanti”, ridimensionata solo dalle recenti batoste (Roma, Friuli, Sicilia…)

“non abbiamo mai detto né scritto che da questo discenda la rottura di qualsiasi forma di alleanza sul piano locale” [70]

“Il PRC al momento dispone di circa 3.500 consiglieri ed amministratori locali in tutto il paese con una presenza radicata in tutte le venti regioni italiane. Rifondazione è al governo in 13 regioni su 20, praticamente tutte quelle amministrate dal centrosinistra tranne Toscana, Basilicata e Calabria (Rc era uscita ma ora Scarpelli - vendoliano - ha deciso di rientrare). Ha un governatore , ‘lo sconfitto' Nichi Vendola, 13 assessori e 51 consiglieri. A livello provinciale il partito conta un presidente a Ascoli Piceno, 70 assessori e 160 consiglieri. Nei comuni, infine, sono di Rifondazione tre sindaci di comuni oltre i 15 mila abitanti (Cinisello Balsamo, Gubbio, Acerra) e circa 40 sindaci di piccoli comuni. Nei comuni capoluogo Rifondazione conta su 150 consiglieri comunali e circa 40 assessori” [71].

Per non parlare dell'alternativa neo-bertinottiana, affidata all'uomo più retorico d'Italia, Nichi Vendola, un “comunista” - si fa per dire - sessualmente scomunicato, ma ciò nonostante convinto credente e osservante, simbolo vivente di quella “diversità compatibile” la cui “bandiera” è stata assunta dal PRC come nuova frontiera post-moderna dell'oltre-novecento.

“Vendoliani” e “ferreriani” se le sono suonate di santa ragione prima e durante il recente congresso. Ne sono successe di tutti i colori, dai congressi truccati alle tessere inventate, roba da far arrossire la DC di Achille Lauro, quello che ai napoletani - si dice - dava una scarpa prima del voto e una dopo il voto, sempre che questo fosse andato come doveva andare. E questo è niente rispetto a cosa succederà quando ci sarà da spartire il “tesoretto” del PRC (qualcuno ben informato parla di 100 milioni di euro) nella prossima inevitabile scissione.

Che il crollo di Prodi sarebbe rovinato addosso, prima di tutto, alla sinistra “radicale” o “arcobalena” era ampiamente prevedibile (e il PD ha fatto di tutto perché questo avvenisse, irriconoscente per la fedeltà indefessa con cui i partiti della SA avevano sostenuto ogni passaggio, anche il più devastante, contro i lavoratori).

In una politica senza valori, americanizzata da primarie e vere proprie strategie di smercio dei leader [72], il voto diventa una specie di “accordo mercantile” (come Crespi e Berlusconi dimostrarono di aver ben compreso inventando il siparietto del “contratto con gli italiani” a Porta a porta).

Non si vota sulla base di idee; si vota sulla base di accordi commerciali: sindacati, imprenditori, commercianti, artigiani, coltivatori, le mille categorie del lavoro autonomo, professionisti, persino comunità locali… ognuno chiede qualcosa in cambio di pacchetti di voti. Più una categoria è al di sopra degli specifici poli capitalistici (ovvero, può spostarsi facilmente da una coalizione all'altra) più è in grado di far fruttare la propria “utilità marginale” (sempre che sia rappresentata da associazioni che tutelano i suoi interessi, cosa che avviene per tutte le categorie meno una: quella dei lavoratori che sono rappresentati da apparati sindacati che fanno solo gli interessi propri e quelli del padronato, con cui peraltro fanno ormai grandi affari). La “sinistra”, in cambio dei voti che hanno permesso ai suoi parlamentari di fare la bella vita, ha elargito mille promesse ai lavoratori, ai precari, ai pacifisti, a quelli che amano la natura… e non ne ha mantenuta neppure una; che altro potevano fare i lavoratori, i precari, i pacifisti e quelli che amano la natura… se non darle una bella pedata di dietro?

Tutte le promesse sulle “conquiste da realizzare” attraverso la “pressione sul Governo” realizzata “appoggiandosi ai movimenti”, ecc. si sono rivelate per quello che erano: vuote chiacchiere, buone solo per carpire voti a gente che in buona fede voleva difendere diritti e conquiste che Prodi, Veltroni, Bertinotti e tutti i vari sindacalisti di regime hanno distrutto o permesso che venissero distrutte. Lo hanno fatto consapevolmente? Sì. Ma fossero anche stati in “buona fede” (se si può credere francescanamente alla verginità di Maria dopo il parto, si può credere anche alla buona fede di Veltroni o Bertinotti o Diliberto o Pecoraro) resta il fatto che in un sistema capitalistico si fanno gli interessi dei capitalisti. Per definizione.

E per verificare che questa non è un'affermazione gratuita, ma una semplicissima constatazione basterebbe leggersi l'articolo [73] con cui Massimo Giannini stronca la “Robin Tax” di Tremonti, cioè la proposta assolutamente demagogica (ma non più della Tobin Tax [74] di Attac) di tassare un po' i grandissimi profitti di banche, petrolieri e assicurazioni per recuperare le risorse necessarie a sostenere la manovra finanziaria. Secondo Giannini, la Robin Tax

“Non è vincente dal punto di vista tecnico. Colpisce genericamente gli utili delle imprese sopra una certa soglia: non proprio il massimo, per un sedicente centrodestra liberale. Genera inevitabilmente un'odiosa partita di giro: senza un rigoroso sistema di controlli e un severo apparato di sanzioni sulle imprese petrolifere e sulle aziende di credito, alla fine a pagare il conto della stangata sono sempre i cittadini-utenti, sui quali si scaricano i rincari”.

In sostanza, Giannini - che in questa polemica contro Tremonti è schierato con il Governatore della Banca d'Italia Draghi, noto “difensore” degli interessi dei lavoratori - rimprovera il centro-destra di essere poco liberale e chiarisce che se si provano a colpire i grandi patrimoni, si finisce per colpire i bassi salari.

E' la stessa tesi avanzata anche da commentatori di sinistra come il simpatico Alessandro Robecchi

“Nella speciale lettura tremontiana, Robin Hood è un bello stronzo. Un conto infatti è rubare ai ricchi per dare ai poveri, e un altro conto è farci la cresta. […] E' un rubare per modo di dire: le società del settore energetico si rifaranno sul consumatore e quindi anche ammettendo che si rubi ai ricchi, non si impedirà ai ricchi di ri-rubare ai poveri[75].

Ed è la stessa critica rivolta (questa volta dal centro-destra) al fu ministro Pierluigi Bersani per la sua abolizione del costo di ricarica dei telefonini.

Si tratta, ovviamente, di alcuni esempi presi a caso tra le decine che si potrebbero fare. Ma al fondo c'è del vero. Nel capitalismo, per i lavoratori non ci sono speranze. O meglio, ci possono essere solo speranze, ma infondate.

Gli anni di governo del centro-“sinistra” hanno dimostrato una volta di più che gli interessi dei lavoratori non possono essere difesi efficacemente, specialmente in un'epoca come questa, in aule parlamentari dove bivacca un ceto di parassiti che si chiamano l'un l'altro “onorevole collega”. Qualche illuso potrà anche aver pensato che strappare parole e punteggiatura su leggi e decreti blindati fosse un gran successo, ma chi vive nel mondo reale sa bene che in questi anni è successa una cosa epocale ovvero che si è invertito il rapporto tra le generazioni: fino a qualche anno fa la generazione precedente lasciava alla successiva migliori condizioni sociali e maggiori diritti; oggi, le generazioni attuali lasciano alle successive un drastico e progressivo peggioramento.

Siamo letteralmente in una fase reazionaria che si potrebbe anche definire, gramscianamente, rivoluzione passiva, una trasformazione progressiva della mentalità diffusa che permette la sostenibilità di questa inversione generazionale senza che ad essa si opponga alcuna resistenza efficace. Prima, si lottava per andare avanti, oggi si lotta per non andare indietro.

Dopo l'esperienza di questi anni abbiamo l'ennesima controprova fattuale che la politica del meno peggio conduce solo al peggio. Purtroppo, in questi anni, il “peggio” è stato per i lavoratori che hanno visto degradare progressivamente e pesantemente la qualità complessiva della propria vita, sia dal punto di vista economico, sia da qualsiasi altro punto di vista. Vedere con le “pezze al culo” alcuni dei responsabili di tutto questo è una consolazione molto, troppo, piccola; ma una consolazione piccola è pur sempre meglio che nessuna consolazione.

***

La scomparsa parlamentare del baraccone arcobaleno è certamente il dato più eclatante delle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 anche se, leggendo i dati, possiamo ricavare altri elementi interessanti.

Un elemento che varrebbe la pena di approfondire, ad esempio, è il sostanziale fallimento della strategia del PD che non solo non ha battuto il PdL, ma è rimasto lontanissimo (altro che “siamo ad un'incollatura”, come vaneggiava Veltroni) e sarà quindi costretto a ripensare la propria “politica di alleanze” [76] oppure ad accettare un accordo con Berlusconi (ammesso che Berlusconi voglia e possa concederlo) per una riforma del sistema elettorale e istituzionale.

12 anni fa, alle politiche del 1996, DS e Margherita raccolsero un totale del 33,2%, cioè lo stesso identico dato raccolto dal PD nel 2008. Gli “effetti speciali” (effetto unificazione, effetto primarie, effetto Veltroni...) non hanno avuto un grande “effetto elettorale”, anche perché il PD appare come un partito tecnocratico, senza anima, un partito di funzionari dei grandi poteri industriali, finanziari, culturali, sindacali e clericali, italiani e internazionali.

Entrando più nel dettaglio dei risultati elettorali del 13-14 aprile scorso possiamo iniziare da un dato “anagrafico”. Il numero di elettori della SA alla Camera è pressoché identico a quello del Senato (in termini assoluti). Si può ragionevolmente ritenere che siano, grosso modo, proprio gli stessi (diversamente, bisognerebbe ipotizzare due voti disgiunti, mutuamente - e miracolosamente - compensativi).

Dal momento che al Senato non votano i giovani sotto i 21 anni si può concludere che il voto alla SA è un voto di “over 21” (altrimenti alla Camera ci dovevano essere più voti che al Senato). In questo modo si sfata il primo mito ovvero il mito della capacità di attrazione dei giovani e del totale fallimento - almeno in termini elettorali - dell'investimento fatto nel cosiddetto “movimento dei movimenti” con la cui retorica Bertinotti ci ha asfissiato in questi anni.

Ecco i dati del 2006 e del 2008 dei partiti che hanno formato la SA:

Camera

Partito

Voti

%

Seggi

PRC

2.229.464

5,84%

41

PdCI

884.127

2,32%

16

Verdi

784.803

2,06%

15

Totale 2006

3.898.394

10,22%

72

Totale 2008 SA

1.124.428

3,084%

0

Senato

Partito

Voti

%

Seggi

PRC

2.518.361

7,37%

27

Insieme con l'Unione [77]

1.423.003

4,17%

11

Totale 2006

3.941.364

11,54%

38

Totale 2008 SA

1.053.154

3,213%

0

Si può - con molta immaginazione - ritenere che Sinistra Democratica avesse un bacino elettorale potenziale grosso modo proporzionale alla sua presenza parlamentare. Oppure si può ritenere che SD fosse soprattutto un gruppo parlamentare con pochi voti. Facciamo l'ipotesi che i suoi voti valessero zero e quindi i dati che riportiamo non tengono conto dell'ipotetico contributo della SD. A questo punto, un elemento si può considerare assodato: la SA subisce un crollo di ben oltre il 70%.

Questo crollo non è stato istantaneo. Avvisaglie della pesante crisi di consenso dei partiti della SA si erano già avute nelle precedenti elezioni.

Alle amministrative del 13 e 14 maggio 2007 il dato relativo ai 146 comuni in cui si votava era stato: PRC (2,9%) + PdCI (1,3%) + Verdi (1,3%) = 5,5%[ [78] a fronte del dato delle politiche dell'anno precedente (2006) del 10,5%[ [79].

Ovviamente, si tratta di un dato molto parziale, disomogeneo per tipologia e limitato in ampiezza. Ma è un dato che si aggiunge alle rilevazioni degli analisti borghesi e che, soprattutto, è contro-verificato dal risultato elettorale del 2008.

Il fatto che i partiti della SA fossero già “in caduta libera” da almeno un anno dimostra concretamente che l'influenza del “voto utile” nelle politiche 2008 è stata più contenuta di quello che si vuol far credere [80]. E dimostra che la SA perde buona parte del proprio consenso già nel primo anno di governo dopo la Finanziaria per il 2008, il rifinanziamento dell'Afghanistan e l'anticipazione dello scippo del TFR con la truffa del silenzio-assenso.

Del resto, che qualcosa non andasse tra i partiti della SA e il proprio elettorato lo si era capito anche in occasione delle manifestazioni contro l'arrivo di Bush in Italia, il 9 giugno 2007, quando la SA, che aveva già subito la batosta elettorale, decise non solo di snobbare la manifestazione promossa dal movimento contro la guerra, ma addirittura di convocarne una alternativa in Piazza del Popolo, assieme alla CGIL, l'ARCI e varie altre associazioni pacifiste, ottenendo un risultato disastroso: Piazza del Popolo deserta e la manifestazione “no war” molto partecipata. Una rappresentazione plastica dell'abbandono della “sinistra” istituzionale da parte dei movimenti (almeno di quel poco che ne era restato e almeno per quella occasione).

La manifestazione di propaganda del 20 ottobre 2007 fu il tentativo disperato di recuperare un po' di immagine; tutto l'apparato venne mobilitato per realizzare una manifestazione importante capace di coinvolgere ancora per una volta gli ultimi mohicani ancora in attesa della “fase due” del governo. E così fu. 100-150 mila persone in piazza (magari un po' meno del milione vaneggiato dagli organizzatori), ma ormai il destino era segnato. Il classico canto del cigno.

Da quanto visto emerge che gran parte (e non una parte del tutto marginale come si vorrebbe suggerire [81]) del flusso in uscita dai partiti della SA è dovuta ad una critica politica alla SA; poi, certo, c'è anche il voto utile “per battere Berlusconi” e questa è la parte più fedele alla linea “anti-berlusconista” con cui anche i partiti della SA hanno (dis)educato i propri elettori per anni.

Dal fatto che l'arretramento della SA sia dovuto più a fattori politici che non a fattori tattici deriva che i margini di recupero nelle prossime tornate elettorali non sono così ampi come evidentemente pensa chi ritiene sufficienti correzioni simboliche, qualche martello qui, qualche falce là. Infatti, mentre il “voto utile” si potrà recuperare abbastanza facilmente alle elezioni Europee del 2009, il “voto politicamente critico” si recupera con più difficoltà.

***

Per riassumere. Alla disfatta della Sinistra Arcobaleno del 13-14 aprile scorso hanno concorso molti fattori. Per semplicità ne individuiamo, macroscopicamente, 2 principali e 2 secondari, che ci limitiamo a accennare.

I 2 fattori principali sono stati il deflusso di voti dalla SA verso il PD e soprattutto quello verso l'astensione.

Il primo deflusso, il cosiddetto “voto utile”, si è determinato, certo, anche per l'influenza che ha avuto su alcuni elettori della SA la campagna mediatica sviluppata contro la “sinistra radicale”, accusata di avere messo continuamente in fibrillazione il governo Prodi e quindi di averne causato la caduta dei consensi (con il corollario della crescita di quelli di Berlusconi e soci). Si tratta, ovviamente di sciocchezze. Il governo Prodi ha avuto l'immagine che meritava e la “sinistra radicale” ha manifestato una subalternità così completa, plateale e lineare che certe volte veniva da pensare che i parlamentari verdi e “comunisti” non fossero, in realtà, che un'appendice del PD.

I veri elementi costitutivi del “voto utile” sono stati, per un verso, la volontà di provare a “battere Berlusconi” (e chiaramente in questo senso l'ipotesi PD era più credibile dell'ipotesi di SA) e, per altro verso, il desiderio di vedere “ridotta la frammentazione” del quadro politico (altro refrain mediatico), con conseguente adesione alla proposta di semplificazione avanzata da Veltroni e Berlusconi (i quali infatti l'avevano avanzata ben sapendo che sarebbe stata apprezzata da larghi settori dell'elettorato).

L'altro deflusso, quello verso il “non voto”, è più interessante dal punto di vista politico perché è l'espressione di una critica al sistema politico in generale e alle scelte dei partiti della SA in particolare. Il perché è relativamente semplice: la SA si è proposta come rappresentanza politico-istituzionale di chi non ha aderito alla logica dell'“interesse generale” del paese, delle “esigenze di competitività” delle imprese, delle “responsabilità internazionali” dell'Italia, dell'aumento della produttività a discapito della sicurezza, delle “opportunità della flessibilità”, della concertazione, della “guerra tra poveri” contro gli immigrati, ecc…; ma nel momento in cui i partiti della SA hanno appoggiato senza battere ciglio ogni provvedimento del governo che andava nella direzione opposta a quella agitata, senza porre alcun argine al sistematico massacro sociale dei lavoratori, hanno deciso di smettere di “turarsi il naso”.

Abbiamo poi altri 2 deflussi secondari.

Il primo è quello dalla SA verso i partiti di sinistra con la falce e il martello.

Si tratta di voti in larga parte “identitari”, “simbolici” e “protestanti” più che di voti dettati dalla scelta di un programma politico più avanzato.

Un secondo deflusso secondario è verso altre tendenze tra cui c'è anche, in minima parte, quel deflusso verso la Lega Nord di cui si è tanto parlato all'indomani del voto ma che è assai meno significativo di quanto detto.

E' evidente che si insiste su questo presunto passaggio per dimostrare che “persino gli operai abbandonano la sinistra”. Il problema è che gli operai hanno già abbandonato la sinistra da tempo. L'indagine IRES CGIL mostra, ad esempio, che con il 13% di “operai o commessi” la SA è effettivamente una delle liste più “operaie” che si sono presentate il 13-14 aprile, ma che a pari merito arriva La Destra di Storace e sopra c'è la Lega Nord, che con il suo 17% risulta di gran lunga il partito più operaio d'Italia [82]. Questa è la situazione in termini relativi (la “composizione del voto alla lista”). Se invece guardiamo i valori percentuali assoluti osserviamo che su 100 operai 36 votano per il PdL, 29 per il PD, 13 per la Lega Nord, 5 per Di Pietro, 5 per l'UDC, 4 per la SA, 3 per Storace, ecc [83]… E si ricordi che la SA è formata da 4 partiti (il che vuol dire che per ogni singolo partito la situazione è ancora più drammatica).

Certo, l'IRES non è la Bibbia e tutti questi dati devono essere presi con estrema cautela; eppure, chi ha relazione concreta con il mondo del lavoro riconosce questa situazione come realistica, specialmente nel Nord. Ed infatti un partito concentrato regionalmente come la Lega, può avere il 13% di operai tra i suoi elettori su base nazionale solo se ne ha il doppio nel solo Nord.

Interrogandosi sull'esito del voto alle elezioni politiche del 2006 l'IRES scrive

“Come vedremo, non si tratta affatto di un quadro inedito, poiché la sinistra italiana, sin dalla nascita della Repubblica, non è mai stata maggioritaria - se non del tutto occasionalmente - fra gli operai, e fra quelli del nord in particolare. E tuttavia permane pienamente, a nostro avviso, la legittimità dello stupore e dell'interrogativo - teorico oltre che politico - sul perché tanti lavoratori industriali continuino a non votare per la sinistra, per il centrosinistra, vale a dire per quel cartello di forze che dal cattolicesimo democratico e sociale ai due partiti neo-comunisti, passando ovviamente per la maggiore formazione derivata dalla fine del Pci, i Democratici di Sinistra, più di altri si sforza di interpretare i bisogni e le aspettative di quest'importante segmento della società italiana” [84].

All'IRES CGIL si stupiscono dal fatto che gli operai irriconoscenti non votano per la “sinistra”; ma non sarà perché questa “sinistra” non fa, per i lavoratori, niente di più di quello che fa la destra (cioè nulla di buono)? Non sarà che il fatto che la “sinistra” più di altri”, si sforzi di “interpretare i bisogni e le aspettative di quest'importante segmento della società italiana è solo una chiacchiera che si raccontano tra loro quelli dell'IRES?

Del resto, non ci si stupirebbe se si ricordasse che mentre il PCI si vantava di essere il secondo partito cattolico italiano, la DC si vantava di essere il secondo partito operaio. Gli operai, spontaneamente, non diventano né “di sinistra”, né comunisti; e tanto meno lo diventano se coloro che si definiscono “di sinistra” o “comunisti” agiscono contro i lavoratori. Una ragione in più per non disperarsi della scomparsa parlamentare - sarebbe bello pensare definitiva, ma non si può sperare tanto - degli zerbini “comunisti” di Prodi, Fassino e Rutelli.

L'ASTINENZA DEGLI ITALIANI

Come in ogni tornata elettorale un elemento da analizzare è quello dell'affluenza al voto che in questa occasione è stata dell'80,512%: grosso modo, il 3% in meno rispetto al 2006 (83,62% [85]). Ad una prima lettura quantitativa si osserva che

“l'incremento di astensionismo che si è verificato il 13-14 aprile 2008 è stato uno dei maggiori, rispetto alle elezioni precedenti, di tutta la storia repubblicana: +3,1 punti percentuali, di poco inferiore all'incremento massimo di +3,2 punti percentuali delle elezioni del 1996” [86].

Questo picco di variazione ha portato l'astensione al suo valore storico massimo, 19,5%, un dato peraltro non particolarmente alto [87] in Europa.
Ma come ogni altro, anche questo dato deve essere letto nel suo contesto storico e politico, un contesto che potevano considerare caratterizzato dai seguenti elementi

- una campagna martellante contro la cosiddetta “casta” con una proliferazione straordinaria di pubblicazioni in merito (dal best seller La casta di Stella-Rizzo, ai libri di Travaglio sul malaffare politico, alle inchieste dei vari Report o Annozero…);

- il “fenomeno” Beppe Grillo che invitava a disertare le elezioni politiche (anche se molte liste civiche si sono presentate localmente con risultati piuttosto scadenti);

- un diffuso “senso comune” di disaffezione verso la politica che un po' tutti, politici compresi, segnalavano “con preoccupazione”;

- una campagna elettorale molto meno caratterizzata che non in passato dallo scontro verbale tra i poli e dal “pericolo Berlusconi” che il PD non poteva agitare più di tanto avendo scelto di andare senza la “sinistra radicale”; la SA stessa non poteva agitare il richiamo del “battere le destre” perché era chiaro che solo il PD era ipoteticamente in grado di vincere.

C'erano dunque le condizioni per un'astensione molto più significativa. Tanto più che l'astensione al voto nel 2006 era stata considerata da tutti gli osservatori molto bassa [88] (e quindi destinata fisiologicamente a risalire).

Prima conclusione politica: gli italiani, tutto sommato, votano e chi si rallegra per l'aumento dei non votanti (“siamo un partito del 20%...”) commette il solito errore di ascriverli arbitrariamente ad un unico “partito del dissenso”. Non c'è bisogno di ricordare che negli USA, con percentuali di partecipazione al voto molto più basse, il sistema di potere riesce a governare contraddizioni sociali molto più esplosive.

Prima conseguenza. La “casta” ha resistito bene, tenuto anche conto del fatto che l'astensione - di per sé stessa - è una forma passiva di dissenso che se non viene combinata con un critica attiva, cosciente e organizzata non conduce da nessuna parte (e tanto meno verso una critica anti-capitalista dell'esistente). Sarebbe meglio riflettere seriamente piuttosto che cantar vittoria perché non c'è quasi nulla per cui cantare.

In termini marxisti, la questione se si debba o meno partecipare al voto viene risolta valutando concretamente, di volta in volta, se ciò possa essere o meno utile (non alla propaganda di qualche mini-partito neo-riformista, ovviamente, ma agli interessi di classe dei lavoratori).

Il 13-14 aprile scorso bisognava cogliere, ad esempio, la differenza tra non votare ed investire politicamente sul non voto. Sembra una “questione di lana caprina” ma non lo è. Non si poteva votare perché nessuna lista rappresentava gli interessi dei lavoratori (le liste di sinistra con falce e martello rappresentavano a mala pena sé stesse e si presentavano solo per farsi propaganda attraverso programmi riformisti); non si poteva investire nel non voto perché i marxisti non hanno una posizione “astensionista di principio” e il capitale politico di una eventuale astensione di massa era già stato pre-egemonizzato dai vari Beppe Grillo e soci. Per gli interessi dei lavoratori la conclusione era la stessa.

Cercare di inserirsi “da sinistra” nella “propaganda anti-casta” (confidando sul fatto che il 13 e 14 aprile 2008 ci sarebbe stata un'altissima astensione dal voto come una lettura superficiale del “dibattito politico” poteva lasciar supporre) è stata la dimostrazione di non aver capito, innanzitutto, che ad alimentare la critica alla politica [89] non era la visione di un'altra politica, ma l'idea della non politica. Non a caso la fanfara “anti-politica” è stata sostenuta anche dal padronato che ha dato il suo contributo (innanzitutto pagando, stampando, pubblicizzando e distribuendo le pubblicazioni “anti” casta) per delegittimare ogni politica partendo dalla delegittimazione di questa politica, il tutto in nome di una tecnocrazia - il dominio della tecnica come lo avrebbe chiamato Gunther Anders e in particolare il dominio, presentato come “oggettivo” e “scientifico”delle leggi del mercato - del tutto funzionale al potere capitalistico in ogni sua versione.

I partiti che stanno in Parlamento “fanno schifo”? Sì, ma il punto è che a noi “fanno schifo” in quanto espressione più o meno diretta - di destra o di “sinistra” - del sistema capitalistico e ci farebbero “schifo” anche se non ci fosse corruzione e tutti rispettassero onestamente le leggi del capitale.

Noi non ci scandalizziamo nell'ascoltare Berlusconi che promuove qualche amichetta o si propone come ruffiano per acquistare qualche parlamentare; casomai ci appare degno di nota il fatto che il destino di un governo si giochi intorno al fatto che l'“amichetta” di un alleato di Bertinotti e Diliberto possa avere o meno qualche particina in RAI. Così come non ci siamo “scaldati” quando, nel 1992-1994 “mani pulite” cercava di dare una rassettata ad un sistema politico divenuto impresentabile. Per noi non è più - ma semmai altrettanto - grave che Berlusconi faccia il magnaccia o difenda i suoi interessi personali, di quanto lo sia la joint venture tra sindacati e imprese nello sfruttamento del TFR e dei fondi pensione dei lavoratori, oppure il connubio affaristico che lega i partiti della “sinistra” alle cooperative “rosse” alle grandi banche italiane ai centri di potere cattolici (come la Compagnia delle Opere, vedi agenzie di lavoro interinali). Sono aspetti diversi dello stesso sistema da abbattere con ogni mezzo possibile e necessario.

Noi non abbiamo mai abboccato alla favola del “capitalismo dal volto umano”; l'accumulazione di capitale, specialmente quella originaria, è sempre disumana e avviene attraverso espropriazioni, sopraffazioni, massacri; la condizione necessaria per l'esistenza stessa di un capitalismo è, oggi come sempre, la morte per fame, guerre, malattie … di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Un sistema sociale fondato sulla violenza, lo sfruttamento, l'umiliazione dell'umanità non può avere un “volto umano” e il fatto che funzioni con o senza la corruzione cambia poco per i proletari che non devono lasciarsi depistare dalla lotta per difendere i propri interessi di classe verso la lotta per difendere gli interessi di una frazione della classe avversa.
Non a caso i paladini della lotta contro il malaffare politico sono giornalisti [90] che guadagnano milioni di euro all'anno mettendo la propria penna al servizio di editori, giornali, televisioni controllati dal grande capitale che con i politici corrotti fa poi affari d'oro. Che i padroni si siano stancati di una “casta” intermedia che lucra sopra la difesa dei loro interessi lo possiamo capire. Ma l'immensa quantità di denaro dilapidata da politici corrotti dove finirebbe con l'eliminazione dei loro privilegi? Nelle tasche dei padroni, non certo nelle nostre.
Grillo, Travaglio, Di Pietro, Sabina Guzzanti, Camilleri e tutto il resto del “circo Barnum”… si scandalizzano per la corruzione o il clientelismo di Mastella (che viene eliminato dalla scena politica per mostrare al cittadino-pollo che un po' di pulizia si fa… colpirne uno per proteggerne cento) o per le leggi “ad personam” di Berlusconi (che guarda caso i partiti che loro hanno votato - PD, IdV, SA - non hanno minimamente toccato).

Grillo propone di escludere dalle liste elettorali i condannati[ [91]. Ma a noi, più che discutere dei rei interessa discutere dei reati.
“La proprietà privata è un furto”, diceva Proudhon e Marx gli faceva eco. Che ne direbbero, Travaglio, Di Pietro e Grillo, di creare una norma che impedisce di essere candidato alle elezioni chi possa anche solo lontanamente avere avuto a che fare, come imprenditore o politico, con lo sfruttamento salariato di qualcun altro o con la sua morte nel posto di lavoro o con il bombardamento di una popolazione o con la distruzione del “salario sociale” dei lavoratori o con la privatizzazione dei servizi sociali, ecc…?
Il problema non è se le leggi sono o meno rispettate, ma se le leggi sono o meno giuste; in un sistema capitalistico, le leggi sono giuste per i capitalisti e se non fossero buone per loro, semplicemente, non ci sarebbero. In regime capitalistico, la democrazia è sempre “democrazia per i ricchi, un inganno per i poveri”, anche quando si ammanta di pompose frasi “universalistiche”. Non mettere in discussione le leggi del capitale (sia quelle scritte nei codici, sia quelle non scritte) ed anzi prenderle a feticcio, è esattamente l'opposto della giustizia.
Ecco perché “cantare nel coro” giustizialista di Di Pietro e dei girotondari come hanno fatto alcuni gruppi al “no cav day” di Piazza Navona dell'8 luglio scorso, sventolando surreali bandierine “comuniste”, è un modo per legittimare l'idea di “democrazia” e di “giustizia” dell'ex magistrato ed ex poliziotto più ignorante d'Italia

“Il Partito comunista dei lavoratori sarà presente alla manifestazione anti-Berlusconi dell'8 luglio. ''La battaglia contro un governo che pretende l'impunità del suo capo mentre caccia gli immigrati e colpisce salari, scuola, sanità - afferma Marco Ferrando - è moralmente e politicamente doverosa per tutte le forze della sinistra. Le sinistre che non scendono in piazza l'8 luglio sono solo subalterne al Pd e al veltronismo''[92].

Addirittura. Chi non è andato a Piazza Navona è solo subalterno “al PD e al veltronismo”... Davvero non ci sono limiti al delirio di impotenza.
Come abbiamo già cercato di spiegare è proprio l'anti-berlusconismo l'espressione più plateale della subalternità al PD. Quando poi l'anti-berlusconismo si colloca in un contesto giustizialista e populista [93] come quello di Di Pietro, un partito che si definisce “comunista” e “dei lavoratori” dovrebbe scorgervi non - meschinamente - solo un'occasione per far riprendere dalla televisione le proprie bandierine e per mendicare una domanda da qualche giornalista, ma il rischio che i lavoratori, invece di preoccuparsi della difesa dei propri interessi di classe, continuino a preoccuparsi di aiutare Veltroni e Di Pietro (e naturalmente Calearo, Colaninno, De Benedetti, Benetton, Della Valle, Bazoli, Profumo, Scalari, ecc…) a battere Berlusconi.
Qualcuno potrebbe ricordare a Ferrando che Di Pietro è stato ministro di quel governo Prodi che ha massacrato i lavoratori e rifinanziato le missioni di guerra, si è presentato in appoggio a Veltroni il 13-14 aprile scorso riconoscendolo come candidato unico ed è tuttora alleato del PD dal quale lo distinguono dissensi secondari sul modo di fare l'anti-berlusconismo [94]?

Ed essere subalterni al PD è non andarci, a Piazza Navona?

Lasciamo perdere, poi, i deliri di Sinistra Critica sull'adesione politica alla piattaforma della manifestazione

“L'8 luglio Sinistra Critica sarà in piazza Navona a Roma alla manifestazione promossa dai nuovi “girotondi”. Ci sarà non solo sulla base della piattaforma di convocazione, incentrata sulle questioni giudiziarie e sul ruolo di Silvio Berlusconi, piattaforma che comunque giudichiamo positiva per quanto insufficiente” [95]

Ma dalle parti di SC pensano davvero che la piattaforma di Piazza Navona fosse “incentrata sulle questioni giudiziarie”? E i CPT? E il sovraffollamento? E i suicidi o i pestaggi in cella? E il 270 bis? E il 41bis per i reati di “terrorismo”? E le perquisizioni arbitrarie? E gli insabbiamenti delle stragi di stato? E le incarcerazioni facili di presunti “integralisti islamici”? E le “condanne” per Genova 2001? E le migliaia e migliaia di grandi e piccole ingiustizie per comunisti, anarchici, antimperialisti… e soprattutto per proletari italiani e immigrati da parte di una “Giustizia” al servizio delle classi dominanti? Non era, forse, solo una manifestazione anti-berlusconiana? Perché Di Pietro, quando stava al governo ed era determinante per la sua sopravvivenza non ha imposto - come da programma dell'Unione, direbbe SC - la revisione delle leggi “ad personam”? Forse perché altrimenti si sarebbe sgonfiata anche la sua principale arma di propaganda? E' solo “insufficiente” la piattaforma di Di Pietro sulla “Giustizia”? Non è, invece, il vero manifesto della concezione borghese della “Giustizia” (laddove invece Berlusconi rappresenta il manifesto della violazione da parte borghese di tale “Giustizia” borghese)?

Per favore, si vada pure a tutte le manifestazioni che si vuole, ma si lascino perdere gli interessi dei lavoratori e la lotta contro il capitalismo. Con Di Pietro non c'entrano proprio nulla.

FALCE E MARTELLO IN LISTA

Il risultato della presentazione delle due liste di sinistra[ [96] con falce e martello alle elezioni del 13-14 aprile scorso è stato il seguente: il PCL ha raccolto 208.394 voti, pari allo 0,571%; a Sinistra Critica, che contava di far meglio avendo avuto a disposizione per un anno e mezzo due parlamentari (Turigliatto e Cannavò) è andata persino peggio: 167.673, pari allo 0,459% (ed è molto probabile che a SC sia andata peggio proprio per come hanno agito i suoi parlamentari e soprattutto il “dissidente” Turigliatto che ha votato per ben 23 volte la fiducia al governo Prodi [97]).

Ovviamente, per analizzare una presentazione elettorale non basta valutare il numero dei voti raccolti perché ci sono molti altri fattori da considerare.

Iniziamo dalla raccolta delle firme. Come è noto, per ogni tornata elettorale, bisogna presentare, circoscrizione per circoscrizione, liste di candidati sottoscritte da un certo numero di elettori della circoscrizione. Per le politiche le circoscrizioni sono, grosso modo, regionali (eccetto che in alcune regioni più grandi che hanno più di una circoscrizione). Il numero di firme richieste varia da regione a regione e si dimezza in caso di elezioni anticipate (come nel caso delle politiche 2008). In questa tornata elettorale si era esonerati dalla raccolta delle firme se la lista era sottoscritta da 2 parlamentari uscenti. Sinistra Critica ha fatto sottoscrivere la propria lista da Turigliatto e Cannavò, i due parlamentari che Bertinotti aveva concesso a SC in cambio dell'appoggio alla linea di unità con il PD (l'Unione). Il PCL ha provato a raccogliere le firme (e si narra che in alcune regioni ci sia persino riuscito), ma in almeno metà del paese (stando alle dichiarazioni dello stesso PCL) ha potuto presentare liste solo grazie alla sottoscrizione di 2 gentili parlamentari - Giorgio Carta (PSDI) e Mauro Bulgarelli (Verdi) - appartenenti a quei “partiti borghesi” che avevano votato le missioni in Afghanistan e Libano e il massacro sociale dei lavoratori per servire Confindustria.

Il punto, ora, è il seguente: 1) alle prossime elezioni politiche sarà molto difficile trovare parlamentari che sottoscrivano le liste (a meno che PCL e SC non si rivolgano direttamente al PD, al PdL o ai “dipietristi”); 2) Berlusconi ha una maggioranza abbastanza ampia e se arrivasse a fine legislatura il numero di firme da raccogliere raddoppierebbe; 3) alle prossime elezioni politiche anche PRC, Verdi, SD e PdCI dovranno probabilmente raccogliere le firme essendo attualmente fuori dal parlamento (salvo nuovi regolamenti compiacenti). Il risultato di questo scenario è l'aumento vertiginoso delle difficoltà a raccogliere le firme necessarie per presentare alle prossime elezioni politiche nazionali liste di sinistra con falce e martello aldilà di PdCI e PRC. Dal che si deduce che il risultato di PCL e SC del 14 aprile scorso potrebbe non essere il punto di partenza, ma di arrivo di un processo. Questa è la nostra prima valutazione tecnica.

Il secondo elemento di analisi riguarda il quadro politico esistente al momento delle elezioni. Le liste PCL/SC puntavano a raccogliere il “voto simbolico” (cioè il voto al simbolo della “falce e martello” che la Sinistra Arcobaleno aveva deciso di non presentare); addirittura, Sinistra Critica, che in un primo momento aveva avanzato la proposta di lista anti-capitalista, ha fatto retromarcia dopo aver appreso della rinuncia della SA ed ha optato per una lista “con falce e martello” sperando, appunto, di intercettare parte del voto simbolico-identitario [98]; e questo, nonostante che nella prospettiva di SC non ci sia la costruzione di un partito comunista, ma piuttosto quella di un partito-movimento anticapitalista (a dimostrazione che le elezioni sono, per gruppi come questi, un fine in sé e non certo un mero strumento per far conoscere il proprio progetto politico)

Noi pensiamo a una sinistra anticapitalista, ecologista, comunista e femminista; non per assemblare indistintamente soggettività diverse ma per trovare insieme un quadro unitario di riferimento e un comune progetto di lavoro. Questa identità multipla non la si può però proclamare soltanto” [99].

Questa impostazione non si distingue granché dalla retorica bertinottiana di questi anni e neppure dalle dichiarazioni pre-elettorali sul comunismo “tendenza culturale” nel nuovo soggetto arcobaleno; infatti, quando si parla di comunisti, ecologisti, femministi, ecc… da inquadrare in un progetto comune non si intende, come si dovrebbe, “mi batto per la difesa dell'ambiente in quanto comunista” o “mi batto per i diritti delle donne in quanto comunista”; se così fosse non avrebbe senso la specificazione plurima. Ciò a cui si pensa è piuttosto un partito in cui l'identità comunista è solo una delle tante identità plurali (ecologiste, femministe, anticapitaliste, pacifiste, gay…), una organizzazione nella quale possano coesistere comunisti ed ecologisti non comunisti, comunisti e femministe non comuniste; dunque, una organizzazione non comunista al cui interno siano presenti anche dei comunisti [100].

In che cosa questo si differenzi dall'impostazione della SA è un mistero.

Come dicevamo, tutti i “voti al simbolo” sono affluiti a PCL/SC, ma se nelle future elezioni la falce e martello dovesse essere ri-presentata (e ormai è certo che PdCI e PRC lo faranno) questo voto identitario si sgonfierà ulteriormente, sempre che PCL/SC riescano a raccogliere le firme necessarie per la presentazione della lista.
Ma oltre alla questione del simbolo c'è anche un importante dato politico.

La SA è uscita con le ossa rotte dell'abbraccio mortale con Prodi e il suo governo confindustriale e questo ha creato un enorme vantaggio per le liste di sinistra con falce e martello. Negli anni prossimi è prevedibile un certo recupero di consensi da parte dei partiti della SA (specialmente per il fatto che il PD farà un'opposizione “di sua maestà” a Berlusconi se non addirittura qualche “inciucio” vero e proprio) e questo recupero toglierà ulteriore spazio politico e voti a PCL/SC.
Il vero voto a SC/PCL, cioè il voto di consenso effettivo, ripulito dalle situazioni contingenti e destinate a scomparire, è molto al di sotto di quello registrato il 13-14 aprile e di questo, una buona parte è il voto di elettori che hanno consumato una rottura con i vari partiti della SA, ma che continuano a voler votare a tutti i costi (è, quindi, a suo modo, un voto testardamente “elettoralistico”).

Infine, un ultimo ma decisivo elemento di valutazione di una presentazione elettorale è quello che riguarda il programma, ovvero quello che le liste di sinistra con falce e martello sono andate a raccontare agli elettori.
Innanzitutto una precisazione di metodo. Se un partito non si fa illusioni sull'iniziativa parlamentare, cioè se non è un partito parlamentarista ed elettoralista, allora usa le elezioni e le istituzioni solo come cassa di risonanza di una linea non parlamentarista e non elettoralista, con l'obbiettivo di strappare settori delle masse popolari all'egemonia culturale del riformismo (e quindi del capitalismo).

Non deve, invece, ingegnarsi per dimostrare che potrebbe governare il capitalismo meglio di quanto non facciano i riformisti o i capitalisti stessi perché questo, prima ancora che inutile e sbagliato, è falso.
Naturalmente, se invece un partito ritiene che si possono strappare conquiste a favore dei lavoratori ben operando nelle istituzioni (ad esempio non tradendo come invece ha fatto la “sinistra che tradisce”) allora deve anche spiegarci come pensa di riuscirci nella attuale fase storica e con gli attuali rapporti di forza. Il come è decisivo altrimenti ogni proposta diventa solo una chiacchiera inconcludente che ha il solo obbiettivo di abbacinare qualche lavoratore in buona fede.

Se il 13-14 aprile 2008, in Italia, qualcuno propone un aumento generalizzato di 300 euro per tutti i lavoratori e un salario minimo di 1300 euro sta parlando di un programma di transizione (dal capitalismo al socialismo)? Evidentemente no, sta parlando di un programma elettorale, “quello che faremmo se ci votate”; e, siamo certi che neppure il PCL o SC pensino davvero che votare il PCL e SC possa essere sufficiente per condurci al socialismo.
Anzi, persino Turigliatto deve ammettere indirettamente che la raccolta di firme per una Legge di Iniziativa Popolare contenente l'istituzione di un salario minimo di 1300 euro e di un salario sociale di 1000 euro per quando non si lavora, la restituzione del fiscal drag, il ripristino della “scala mobile”… che Sinistra Critica ha lanciato in queste settimane è solo propaganda

“Sappiamo i limiti delle leggi di iniziativa popolare e siamo consapevoli anche del fatto che non si risolvono i problemi del salario solo con una proposta di legge. Occorre una mobilitazione, per superare la trattativa a perdere che i sindacati confederali stanno facendo. La legge di iniziativa popolare vuole essere perciò un elemento di sensibilizzazione, uno strumento per fare capire a tutti che è possibile recuperare risorse per i salari, tenendo la barra ferma su una questione dirimente” [101].

In sostanza, Turigliatto dice: raccogliamo le firme per sensibilizzare tutti (anche agli industriali e ai finanzieri?) che è possibile prendere soldi ai profitti per darli ai salari attraverso

“…l'armonizzazione al 20% della tassazione sulle rendite finanziarie, come il programma di governo del centro-sinistra prevedeva, e con l'abolizione delle riduzioni fiscali che, sempre il governo Prodi, ha concesso a imprese, banche e assicurazione con l'operazione sul cuneo fiscale”

Forse può essere utile ricordare a Turigliatto tre cose elementari.
La prima è che il centro-sinistra avrà anche promesso agli elettori la tassazione delle rendite speculative ma non l'ha realizzata, mentre ha promesso la riduzione delle tasse alle imprese e, quella sì, l'ha realizzata (così come non ha avviato alcuna iniziativa anti-trust verso banche, assicurazioni e altri settori “di cartello”).
La seconda è che qualora Prodi avesse realizzato l'innalzamento al 20% delle imposte sulle speculazioni non lo avrebbe fatto certo per indirizzare risorse verso salari minimi o sociali, ma verso capitali, direttamente o indirettamente sotto forma di infrastrutture e altro.
La terza è che quando anche venisse introdotto - come è teoricamente possibile - un reddito per permettere (come disse una volta Fassino) ai precari di sopravvivere tra un contratto e l'altro questo sarebbe strettamente subordinato alla realizzazione del massimo livello di precarietà e non sarebbe certo generalizzato (come non è generalizzato l'attuale sussidio di disoccupazione - che altro non è che l'antesignano del “reddito di cittadinanza/sopravvivenza” di cui sopra).

Pensando alle proposte elettorali delle liste di sinistra con falce e martello viene spontaneo domandarsi: ma perché proprio 1300 euro? Perché non 1350 o 1400 o 1500? E perché l'aumento in busta paga e non, poniamo, la diminuzione dei prezzi? Quando in una piattaforma sindacale si indica una precisa entità di aumento salariale (poniamo, 100 euro al mese) ci si riferisce ad un obbiettivo da collocare nel tempo (un rinnovo contrattuale, ad esempio) e da rapportare alla forza che si è in grado di esprimere (se non ho la forza per strappare di più non continuo a scioperare come un pazzo per cercare un risultato che io stesso so di non poter raggiungere).
Ma PCL e SC - che su salario minimo e aumenti propongono non solo la stessa logica, ma persino le stesse cifre - non chiamano alla lotta (tanto nessuno li ascolterebbe), ma al voto, pur sapendo che non potrebbero realizzare oggi le proprie riforme neppure se avessero 50 volte i voti che hanno (e specialmente il PCL che non intende allearsi con i partiti borghesi). E se dobbiamo aspettare che il PCL o SC abbiano i voti sufficienti per realizzare da soli la riforma prospettata allora, in quel millennio, probabilmente 1300 euro saranno pochi; probabilmente guadagneremo già salari meno minimi. Ecco allora che la quantificazione netta degli obbiettivi diventa una proposta che potrebbe essere definita sindacalistica se non fosse prima di tutto impossibile: si tratta, purtroppo, di una classica proposta demagogica che punta a strumentalizzare elettoralmente il disagio economico che vivono oggi milioni di lavoratori.

Ma c'è un problema ancora maggiore. Quando un partito si propone di realizzare obbiettivi di carattere economico fa sparire il ruolo del sindacato, ma in questo modo sparisce anche il ruolo specifico del partito stesso [102]. Due sparizioni in un programma solo. Avrebbe avuto più senso impostare la cosa in tutt'altro modo

Per fare due esempi [103] prendiamo la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e l'aumento del salario. Mentre la riduzione dell'orario di lavoro a 35 ore a parità di salario è un obbiettivo parziale, la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario è un obbiettivo generale. Così, mentre l'aumento di salario concretamente inserito in una piattaforma sindacale è un obbiettivo parziale, l'aumento del salario è un obbiettivo generale.
In sostanza, l'obbiettivo parziale è un obbiettivo di fase, un obbiettivo che cambia al cambiare dei rapporti di forza [104]. Dalla rivendicazione delle 40 ore si è passati a quella delle 35 ore; se si ottenessero le 35 ore si dovrebbe passare all'indicazione delle 30 ore (per fare un esempio) e così via. L'obbiettivo generale della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario rimane invece per tutto il tempo per cui rimane il salario, cioè fintanto che rimane il modo di produzione capitalistico e non sia instaurato il socialismo. La differenza tra obbiettivi parziali ed obbiettivi generali non è sofistica. Per un programma di lotte è necessario indicare anche obbiettivi parziali, credibili, sui quali sia possibile spendere le proprie energie. Nello stesso tempo la sola rivendicazione di obbiettivi parziali non è sufficiente e deve essere sempre legata alla rivendicazione di obbiettivi generali e gli stessi obbiettivi generali devono essere sempre legati agli obbiettivi strategici [105].

Da quanto fin qui detto risulta evidente che se noi ci trovassimo a prendere la parola in un contesto elettorale non ci verrebbe mai in mente di fare promesse di carattere riformista o indicare obbiettivi di carattere puramente economicistico (che dovrebbero, semmai, essere parte del programma di lotta di una organizzazione sindacale di classe).

Posto che il programma elettorale del PCL e di SC non è un programma di transizione al socialismo, proporre un salario minimo garantito a 1300 euro significa prospettare una riforma che si attuerebbe se si avesse la forza di attuarla.
Ecco perché diciamo che i programmi elettorali di PCL e SC sono programmi riformisti. Ma fin qui niente di male; la situazione sociale dei lavoratori è così drasticamente deteriorata che abbiamo bisogno anche della più piccola riforma: non si butta via nulla. Il punto è: come pensano, PCL e SC, di realizzare il proprio programma riformista?
Ovviamente, i promotori delle liste di sinistra con la falce e il martello non pensano di avanzare programmi riformisti (o forse lo pensano, ma lo dicono); forse pensano addirittura che proprio la irrealizzabilità pratica delle loro proposte le trasformi magicamente in proposte rivoluzionarie e sostengono che la loro presentazione elettorale era solo un modo per farsi conoscere, per avere visibilità. Questa logica che già suona un po' mercantile - “la pubblicità è l'anima del commercio” - è, in particolare, la logica con cui si vendono le merci scadenti che non potrebbero mai imporsi grazie alle loro (inesistenti) qualità.

Ma la scusa della “visibilità” non regge e per comprenderlo basta leggere qualche passaggio dei programmi elettorali. Quello di Ferrando, ad esempio, è basato su una premessa generale magari inconfessata e inconfessabile, ma abbastanza chiara: noi siamo la “sinistra che non tradisce”[ e quindi possiamo ottenere quei risultati che la “sinistra traditrice” non ha realizzato (in quanto, appunto, ha tradito).

Quando Ferrando e Turigliatto propongono la logica delle “due sinistre” (quella che “tradisce” e quella che “non tradisce” o “critica”) fanno un'operazione del tutto analoga a quella che fece a suo tempo Bertinotti proponendo le sue “due sinistre” (quella “radicale” e quella “moderata”). Ma il risultato è che tutte queste “sinistre” finiscono per appartenere ad una medesima “grande famiglia”: la sinistra, appunto.
PCL e SC sono padronissimi, naturalmente, di sentirsi parte della stessa famiglia politica di Vendola, Diliberto, Pecoraro, Mussi, Fassino, D'Alema… ma allora lo dicano. Noi le cose le vediamo in modo diverso

“Noi non ci definiamo semplicemente “di sinistra” e non siamo interessati a sviluppare alcun impegno unitario con le forze politiche che oggi si definiscono “di sinistra” perché questo impegno non potrebbe che avere carattere puramente elettorale, in contrapposizione alla destra” [106].

L'impostazione elettorale del PCL confligge poi con l'affermazione che Ferrando ha fatto in diverse occasioni circa l'esaurimento di spazi di riformismo come base strutturale della “crisi della socialdemocrazia”.
Ora, sappiamo bene quanto sia difficile presentarsi agli elettori e dire loro: cari lavoratori, grandi spazi di miglioramento delle vostre condizioni non ce ne sono ed è proprio perché nel capitalismo non potete avere ciò di cui avete bisogno che dovete lottare contro il capitalismo e per il comunismo. E' molto più semplice dire: votate per noi che aumenteremo i salari, rimetteremo la scala mobile, aboliremo la precarietà, nazionalizzeremo le industrie… Tutte cose, beninteso, teoricamente possibili in un sistema capitalistico e che in alcune fasi sono anche state realizzate [107]. Il punto è: in quale contesto storico e politico? Dove sta l'analisi concreta della situazione concreta?

Il programma elettorale del PCL esordisce con la premessa che

“…non c'è via d'uscita “progressiva” per l'umanità dentro il modo di produzione capitalista. Solo una prospettiva socialista su scala internazionale può liberare il mondo dalla regressione storica che l'attraversa” [108].

Indiscutibilmente giusto. Ma qual è la conseguenza che ne trae Ferrando? Che siccome non c'è progresso possibile per i lavoratori nel capitalismo bisogna avanzare un programma progressista!

Qualche riga sotto, infatti, inizia la “lista della spesa” delle misure che un “programma socialista per un governo dei lavoratori” [109] dovrebbe attuare: aumento dei salari, abolizione della precarietà, abolizione delle contro-riforme pensionistiche, salario garantito, massici investimenti di risorse per scuola, sanità, trasporti, case popolari, ecologia…

E i soldi?

“A chi afferma che non vi sono risorse per finanziare queste richieste, rispondiamo che le risorse non solo esistono ma sono immense. Basta prenderle là dove sono”.

Evidentemente, un comunista è convinto che i soldi ci siano non solo per il riformismo, ma anche per il comunismo. Ma la differenza tra il riformista e il comunista è che il primo è convinto di poter sviluppare politiche a favore dei lavoratori compatibilmente con le esigenze del profitto capitalistico, mentre il secondo sa che questo non è possibile, soprattutto in un'epoca come questa.
Come al solito, c'è una certa confusione tra programma minimo e programma di transizione. Le misure indicate dal programma del PCL sono infatti ben poca cosa per un programma della fase socialista o anche solo per un programma di transizione al socialismo - un programma di un governo rivoluzionario “dei lavoratori” - e un po' troppo per un programma minimo di fase in una fase non rivoluzionaria come l'attuale, in cui l'obbiettivo non può essere il “governo dei lavoratori”, ma anzitutto la ricostruzione di un vero (e non finto) partito comunista (ecco a cosa porta auto-proclamarsi il partito). Noi, molto più modestamente, ci accontentiamo di obbiettivi apparentemente meno “rivoluzionari”

“Per questa ragione riteniamo che la definizione del programma debba assumere un carattere aperto, cioè che diverse forze soggettive possano/debbano partecipare alla sua elaborazione. Il programma non può essere un eclettico “elenco della spesa”, un insieme di rivendicazioni più o meno giuste, bensì un'analisi accurata delle possibilità di sviluppo di terreni di lotta nell'ottica dell'accumulo delle forze rivoluzionarie. In questo senso il programma è anche indicazione dei riferimenti di classe e degli strumenti di lotta[110].

Insomma, individuare obbiettivi praticabili su cui costruire lotte reali e non solo propaganda; comprendere che per noi l'obbiettivo principale deve essere la crescita della coscienza e dell'organizzazione anticapitalista e, più ancora, comunista (accumulo di forze rivoluzionarie), indicare chi sono i nostri interlocutori nelle lotte e gli strumenti attraverso i quali condurle in modo efficace

“Noi riteniamo che le attività principali da condurre nei prossimi anni potranno essere principalmente due: 1) accumulare e formare forze potenzialmente rivoluzionarie non opportuniste e non residuali e 2) radicare nel tessuto sociale e territoriale idee e percorsi di lotta anticapitalisti.

Questi sono, a nostro avviso, il lavoro di avanguardia e il lavoro di massa che concretamente sono in grado di sviluppare “forze soggettive comuniste” come quelle attualmente esistenti. Altri obbiettivi più “alti” possono forse soddisfare l'immaginario astratto di trasformazione dell'esistente, ma non possono aprire dinamiche di rottura effettiva degli equilibri politici vigenti. Come abbiamo detto in altre occasioni, quello di cui abbiamo bisogno è un programma di fase per una fase non rivoluzionaria e non di progetti velleitari del tutto avulsi dalla realtà storica, politica e sociale” [111].

Anche per Sinistra Critica i soldi per politiche riformiste son lì che aspettano di essere presi

“Le risorse del resto ci sono. Basta cercarle.” [112]

Semplice no ? Poi, però, Sinistra Critica cerca di essere più “realista”

“Un tale programma non si realizza semplicemente con un bel risultato elettorale ma ha bisogno di almeno due condizioni: una partecipazione e un protagonismo di massa, la possibilità di decidere e di determinare le grandi scelte”.

Un “tale” programma non si realizza “semplicemente” con un bel risultato elettorale; figuriamoci quando il risultato elettorale è “semplicemente” non bel
Ovviamente, nessuno capisce cosa significhino concretamente queste parole. Si capisce solo che sono uguali a quelle di Bertinotti e Vendola.

Notare poi il basta di entrambi i programmi. Il PCL è da appena due anni fuori dal PRC, Sinistra Critica ha appoggiato Prodi per un anno e mezzo e ora, oplà, basta cercare/prendere i soldi dove sono e il gioco è fatto… Ma se era così facile cosa aspettavano per dircelo?

***

Un inciso sulla “condizione” che oggi va per la maggiore per dimostrare la propria rivoluzionarietà: “non si fanno accordi con il PD”. Fintanto che l'accordo non si pone tutti fanno a gara a chi la spara più grossa

“Lo sappiamo che tutto il gruppo dirigente ha sbagliato, però Ferrero ha proposto di rompere col passato. Vedremo se lo saprà fare. Di sicuro, mai più bisognerà dialogare con il Pd” [113]

Sarebbe bello pensare che queste non siano solo parole e che il PRC intendesse applicare una linea di questo tipo a partire, ad esempio, dalle realtà locali dove il tema dell'unità con il PD si pone, già oggi, concretamente.

Il “nessun accordo con il PD” sembrerebbe una cosa scontata in bocca a gente che si auto-definisce anti-capitalista o comunista. In effetti così non è, se è vero che micro-partiti come il P-CARC (o addirittura il “clandestino nPCI [114]) e la stessa Sinistra Critica hanno dato indicazione di voto per i candidati del PD nei ballottaggi post 13-14 aprile (Rutelli a Roma, tanto per fare un esempio). Turigliatto, poi, ha dato la fiducia a Prodi per un anno e mezzo e questa “tattica” non assomiglia neppure un po' a “non si fanno accordi con il PD”. O no?

PRIME CONCLUSIONI PROVVISORIE

Nelle pagine precedenti abbiamo provato ad inquadrare il contesto storico-sociale e quello politico in cui sono avvenute le elezioni del 2008 ed abbiamo provato a farlo cercando di individuare alcuni elementi strutturali. Non volevamo, infatti, un'analisi politicista, congiunturale, diciamo sovra-strutturale; volevamo provare a sviluppare un'analisi storico-materialistica delle circonvoluzioni della cosiddetta sinistra in Italia.

Ad esempio, certe spiegazioni basate sul tradimento da parte di capi “burocrati” nei confronti di basi “rivoluzionarie”, ecc… non spiegano granché (anche se di dirigenti corrotti, incapaci e traditori non ne sono mai mancati). Se effettivamente le masse fossero spontaneamente più avanzate dei loro “rappresentanti” (come lascia intendere la teoria moralistica del “tradimento dei capi”) non si capirebbe come mai queste masse perseverino nel riconoscere questi capi e nel lasciarsi sistematicamente tradire senza offrire resistenza. Resterebbe poi da fornire la spiegazione (antropologica ?) del perché i capi prima o poi finiscono più o meno tutti per tradire (salvo quelli che ciascuno di noi si è scelto come propri riferimenti ideologici), così come resterebbe senza risposta la questione di come evitare ai capi di tradire e alle masse di essere tradite.

E infine, ancora più importante: masse che si lasciano tradire sistematicamente possono davvero essere pensate come soggetto di una trasformazione rivoluzionaria dell'esistente? Che tipo di società nuova si può pensare di costruire con basi che neppure sanno scegliersi i propri capi?

E' evidente che la teoria del tradimento è solo una spiegazione idealistica e auto-consolatoria (le masse sono sempre rivoluzionarie, sono i capi che tradiscono) che non solo non spiega nulla ma è, anzi, pericolosamente fuorviante.

Il “ciclo alto” del riformismo italiano del secondo dopoguerra (“alto” dal punto di vista cronologico, come ci si riferisce all'Alto Medioevo) si fondava sull'idea che fosse possibile realizzare un'egemonia delle forze “progressiste” (PCI e CGIL soprattutto) costruita sulla capacità di mantenere alcune delle promesse che queste forze avanzavano: questo, grazie a 2 fattori concomitanti: 1) un quadro internazionale di sostanziale crescita dal punto di vista economico e di potenza geo-politica del campo cosiddetto “socialista”; 2) un quadro nazionale caratterizzato da una forza sindacale reale e da una effettiva egemonia culturale su ampi settori sociali.

Tra la fine degli anni '60 e la seconda metà degli anni '70 si realizza la massima capacità egemonica (ed elettorale) del PCI che alla metà degli anni '70 avvia una nuova fase. Viene abbandonata l'idea di costruire l'alternativa di governo attraverso una serie di lotte riformiste perché diventa sempre più chiaro che si sta entrando in una nuova fase in cui le lotte pagheranno molto meno; inizia la costruzione organica di un “patto sociale” tra partiti-sindacati della sinistra e capitale che avrà il suo battesimo con la “svolta dell'EUR”.

In epoca di crisi economica internazionale l'unica possibilità che il PCI vede per accedere al governo è quella del patto con chi, di quel potere, detiene le leve economiche (ciò che a livello istituzionale si riflette nella politica della “solidarietà nazionale”, abbandonata nella fase successiva più per le resistenze della DC che non per un ripensamento effettivo del PCI).

Nel 1991-92 il PCI si scioglie e nasce il PRC. E' la chiusura formale (quella sostanziale era già stata avviata da oltre un decennio) del “ciclo alto” della “sinistra” italiana, quello in cui il riformismo, qualche riforma, era riuscito a strapparla. E' ormai iniziata l'epoca della violenta ristrutturazione capitalistica nella quale il sindacato e la “sinistra” sono chiamati a tenere sotto controllo le tensioni che la ristrutturazione è destinata a provocare tra i lavoratori. In cambio ci sarà il via libera per il governo [115].

Il 13-14 aprile 2008 si chiude simbolicamente anche il “ciclo basso”.

I partiti e gli esponenti della Sinistra Arcobaleno possono cercare disperatamente di ritagliarsi qualche spazio elettorale, ma è chiaro che il loro ruolo di accompagnamento della transizione politica associata al processo di ristrutturazione capitalistica è quasi terminato. Non nel senso che la ristrutturazione sia finita (l'unico limite che i capitalisti sono costretti ad accettare nell'arretramento delle condizioni di vita e di lavoro che possono imporre ai lavoratori è quello della sopravivenza fisica dei lavoratori stessi) ma nel senso che è ormai arrivata a compimento la parte più importante del lavoro, ovvero l'inversione di tendenza e l'azzeramento - culturale oltre che materiale - di alcuni decenni di lotte. Per dirla con von Clausevitz: un nemico non è vinto quanto è completamente schiacciato, cosa che avviene raramente, ma quando viene privato anche della voglia di combattere.

A questo punto, i partiti della SA possono conservare qualche consenso tra chi è rimasto imprigionato nel “limbo” che sta tra capitalismo e anti-capitalismo. Ma si tratta di una rendita elettorale instabile, esposta a qualunque evoluzione, che non risolverà ma farà anzi crescere le contraddizioni tra radicalizzazione verbale del messaggio politico e disponibilità sostanziale al compromesso.

La linea di sviluppo del quadro politico italiano è, in questo momento, abbastanza chiara: un unico polo capitalistico rappresentato alternativamente da due 2 grandi blocchi istituzionali raccolti intorno a PD e PdL che tenderanno ad eliminare o a cooptare ogni frazione residua. I partiti della SA non possono continuare ad essere semplicemente la “stampella sinistra” di questo quadro perché questo li conduce all'estinzione; ma non possono neppure collocarsi fuori dal bipolarismo perché, ove anche guadagnassero qualche voto, non avrebbero alcun potere istituzionale. E partiti puramente di opinione che non hanno alcun progetto strategico (come sono tutti i partiti della SA), senza un approdo istituzionale di potere, semplicemente, non esistono. Che altri nano-gruppi pensino di andare ad insidiare lo spazio elettorale della SA con un'agitazione ultra-massimalista di tipo “neo-demoproletario” è il colmo… ma del ridicolo.

Il 13 e il 14 aprile è arrivato al capolinea un intero ciclo politico, il ciclo del riformismo senza riforme, il ciclo dell'enunciazione formale di battaglie in realtà mai condotte, il ciclo di chi si dichiara per la “non-violenza assoluta” e poi appoggia un Governo che vara l'aumento del 20% in 2 anni delle spese militari, il ciclo di chi si dichiara “ambientalista” e poi siede in governi che bombardano la Jugoslavia con l'uranio impoverito radioattivo o sostiene giunte regionali che riempiono il territorio di “monnezza” con il beneplacito della camorra, il ciclo di chi si dichiara dalla parte dei lavoratori e poi li massacra con il Pacchetto Treu, con la precarietà, con l'attacco al diritto di sciopero, con lo scippo del TFR e la truffa del silenzio-assenso, con i protocolli del luglio 2007, di chi spergiura di sostenere gli immigrati, ma vara leggi razziste come la Turco-Napolitano e la creazione dei CPT, di chi si dichiara gay in solidarietà con i gay e favorevole alle unioni civili, ma poi non fa nulla contro l'affossamento dei DICO in ossequio ai diktat del Vaticano (DICO che peraltro sono molto al di sotto dei PACS francesi e dei matrimoni omosessuali spagnoli o statunitensi), il ciclo di chi vuol difendere il “pubblico” (come se poi statale significasse “socialista”), ma non riesce neppure a frenare la privatizzazione della scuola, della sanità, della previdenza e di mille altri servizi essenziali…

L'esaurimento degli spazi economici per politiche riformiste, ovviamente, non è un dato assoluto. E' chiaro però, data l'attuale situazione sociale e gli attuali rapporti di forza tra le classi, che nessuno spazio, anche minimo, di miglioramento delle condizioni sociali e culturali dei lavoratori può essere conquistato per via istituzionale. Quello che si può fare è solo patteggiare il ritmo di smantellamento delle conquiste che il movimento operaio aveva realizzato nei decenni precedenti cioè cercare di frenare questo smantellamento. I partiti della SA non hanno fatto nemmeno questo; anzi, a parte le chiacchiere sulla globalizzazione e sul neo-liberismo, hanno solo criticato blandamente e appoggiato concretamente la ristrutturazione capitalistica realizzata attraverso la gestione neo-corporativa di padronato e sindacato di regime.

Chi in questi anni si è proposto come espressione istituzionale della difesa degli interessi dei lavoratori, della lotta contro la guerra, dell'argine alla deriva culturale a tutti i livelli… non può dire semplicemente di essere stato sconfitto (Bertinotti) o di “essersi sbagliato” (Ferrero) perché non ha neppure provato ad opporre la benché minima resistenza e ha scelto di appoggiare sempre e comunque la strategia del grande capitale italiano in cambio di una legittimazione che poi non è venuta. Pagati i servizi resi con qualche ministero e qualche presidenza con campanellino, i partiti della SA sono stati scaricati, come era inevitabile che fosse.

Per i lavoratori, la scomparsa parlamentare di questa “sinistra” cambia poco; checché se ne pensi, ancor meno cambia per i comunisti che in questi anni hanno costruito molecolarmente un nuovo tipo di radicamento, ancora largamente insufficiente, ma significativo, specialmente in prospettiva. Il punto è se questi comunisti - e non quelli finti che in questi anni hanno imperversato in televisione e in Parlamento - saranno in grado di costruire una proposta alternativa efficace e credibile.

Si impone, a questo punto, la riflessione sulla situazione e sulle prospettive del movimento comunista italiano di cui salta agli occhi lo stato di disgregazione, di divisione, di rivalità puerile, di auto-referenzialità…

Tutti auspicano l'unità e da qualche mese si moltiplicano proposte in questo senso. Ma l'unità non è un processo che si stabilisce; è un processo che si costruisce. E come tutti i processi dialettici è fatto di contraddizioni. Del resto, se l'unità fosse un obbiettivo facile da raggiungere lo si sarebbe già raggiunto da un pezzo.

Noi rifuggiamo da 2 tendenze che sembrano prevalere oggi nel panorama politico del movimento comunista.

1) La prima tendenza è quella a costituirsi come soggetto politico “in 4 e 4 8” sulla base di documenti politico-propagandistici di mezza pagina in cui c'è scritto che i padroni sono cattivi, che i lavoratori guadagnano poco, che vogliamo più ferie, che c'è bisogno di unità... Questi programmi sembrano molto “democratici” perché “possono essere capiti anche dalle masse”, ma non servono a nulla se non a raggranellare velocemente un po' di simpatizzanti. E partiti bisognosi di “fare massa” rapidamente e in tutti i modi finiscono inevitabilmente nell'elettoralismo (unico terreno su cui poter spendere una “non-forza” di questo tipo perché su qualsiasi altro terreno questa si sgretolerebbe) o nel leaderismo (piccoli o piccolissimi partiti che vivono all'ombra di un santone indiscutibile dagli adepti perché questi sono complessivamente incapaci di sviluppare qualsiasi visione critica e vengono rigorosamente mantenuti in questa condizione attraverso l'incessante mobilitazione sul fare e mai sul pensare).

Oggi, i partiti composti in base a generici appelli di mezza pagina che non finiscono nell'elettoralismo o nel leaderismo finiscono in genere nel nulla o in tutt'e due.

Questi modelli sono destinati ad interventi politici che consistono solo nel partecipare ad un'elezione dopo l'altra, nel fare “spezzoni” alle manifestazioni con striscioni giganteschi e con due bandiere per militante, ad apporre la propria firma in calce a qualsiasi cosa e con chiunque, a condurre un'attività di pura propaganda in ogni situazione di movimento senza in nulla contribuire, né allo sviluppo pratico di tale movimento né, tanto meno, al suo sviluppo politico.

2) La seconda tendenza è complementare alla prima; si tratta della ben nota tendenza ideologica a “spaccare il capello in 4” su Stalin, Bordiga, Trotskij, Henver Hoxa, Mao Tze Tung, Kim Il Sung… senza mai neppure tentare di ragionare in termini materialistici sulla storia del movimento comunista novecentesco.

Alle classi vengono sostituiti i leaders; alla lotta di classe, la lotta tra le idee dei leaders. In altre sedi è stata approfondita la questione in modo senz'altro più esauriente e quindi a quelle sedi [116] rimandiamo per l'approfondimento. Ci basti qui riassumere il concetto: per noi si tratta di prendere il “buono” che c'è in ogni tradizione e in ogni esperienza del ‘900, a partire dalla Rivoluzione d'Ottobre che consideriamo uno spartiacque nella storia moderna e nel movimento comunista; rigettare quello che non è buono, senza doversi prendere tutto - il buono e il non buono - per partito preso. Marx e Lenin (per schematizzare) costituiscono già uno straordinario (e unitario) patrimonio per definire il quadro teorico dentro il quale avviare e sviluppare il lavoro di necessario aggiornamento del marxismo e di ricomposizione del movimento comunista rivoluzionario. Il resto è importante, ma non dirimente.

E' chiaro che abbiamo usato i termini “buono” e “non buono” per schematizzare. Dal momento che “buono” e “non buono” sono giudizi di valore è necessario indicare quale sia il riferimento rispetto al quale vengono assunti tali valori. E' normale che ciò che è buono per noi possa non esserlo per altri. Il che non significa, visto che respingiamo il relativismo, che non esista una verità oggettiva, ma che ciascuno attribuisce un proprio valore di verità (anche dove, magari, questa verità non esiste). E' dal confronto dialettico - teorico e pratico - che emerge un livello di maggiore verità. Dove non c'è confronto dialettico non c'è evoluzione della conoscenza. Marx non avrebbe elaborato la propria critica dell'economia politica borghese se non fosse partito anche dalle acquisizioni dell'economia politica borghese.

L'esperienza storica (purtroppo fallimentare) dei tentativi novecenteschi di transizione dal capitalismo al socialismo è densa di moltissimi insegnamenti, anche empirici, che non potevano essere pre-supposti da Marx e neppure da Lenin. La storia del ‘900, con le sue rivoluzioni incomplete, con i suoi movimenti di liberazione, con le sue lotte politiche e sociali, con le sue elaborazioni intellettuali e materiali… non può essere ricondotta ad una sola testa, fosse pure la testa di un grande dirigente rivoluzionario. E fenomeni che hanno coinvolto centinaia di milioni di persone non meritano di essere liquidati con la sicumera che alcuni mostrano nelle loro strampalate ricostruzioni ideologiche.

L'analisi dell'esperienza storica del comunismo novecentesco è ancora in larga parte da svolgere e comincerà ad essere svolta sul serio solo quando si verificheranno due condizioni preliminari: l'abbandono delle “lenti ideologiche” e lo sviluppo di un nuovo processo rivoluzionario. Fino ad allora ogni nostra analisi sarà solo parziale.

***

Le due tendenze - i partiti delle “mezze pagine” e i partiti ideologici - non sono così dicotomiche come si potrebbe pensare. Si scivola facilmente da un campo all'altro.

Il PCL si ritiene un partito comunista rivoluzionario sulla base di un programma in 4 punti di mezza pagina [117], sufficientemente aperto (o vago) affinché un compagno del PRC che si sente tradito da Bertinotti possa tranquillamente aderire alla “sinistra che non tradisce” e, più o meno consapevolmente, anche alla prospettiva di (ri)fondazione di una nuova Internazionale Comunista il cui nucleo originario è, per il PCL, lo sviluppo dell'attuale Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale (CRQI) [118] a cui il PCL ha aderito sin dalla sua nascita. La cosa che sfugge al militante tradito da Bertinotti è che l'adesione al “CRQI” (che viene presentata come semplice risposta all'esigenza di una Internazionale “come quella di Lenin” perché “ormai le questioni sono globali”, ecc…) “nasconde” tre assunzioni molto particolari: la prima assunzione è quella che la Quarta Internazionale fondata da Trotzky debba essere riconosciuta come punto di partenza della prossima; ciò significa che al partito può iscriversi chiunque a patto che consideri Bertinotti un traditore e questo semplice atto - iscriversi al PCL - trasforma questo qualcuno, ipso facto, in trotzkista. La seconda assunzione, ancora più stretta, è quella che riguarda la proposta di “rifondazione” che implica una valutazione negativa sull'esito della QI (che va rifondata appunto perché nel frattempo è fallita) e della sua più recente espressione residuale, il Segretariato Unificato per la QI (area che in Italia era rappresentata dalla Lega Comunista Rivoluzionaria (LCR) di Livio Maitan - oggi Sinistra Critica - di cui peraltro Ferrando ha fatto parte per lungo tempo). La terza assunzione è quella della condivisione di una posizione all'interno del CRQI che non è condivisa neppure dal Partido Obrero argentino, l'organizzazione più corposa del coordinamento, che ha criticato apertamente nella sua rivista teorica [119] l'impostazione del PCL sulle questioni internazionali (che come si sa, in ambito trotzkista rivestono un' enorme rilevanza).

Risultato: per stare nel PCL non basta essere trotzkisti, ma bisogna essere un certo tipo di trotzkisti: non solo quel tipo che si contrappone al Segretariato Unificato (e naturalmente anche alle altre “quarte internazionali” come la LIT, a cui in Italia ha aderito il PdAC [120], o a quella di “Falce e Martello” - ultimo gruppo trotzkista organizzato rimasto nel PRC, oggi “alla guida” del partito assieme agli “autocritici” Ferrero-Mantovani-Russo Spena e ai nostalgici del PCI dell'Ernesto e di Essere Comunisti…), ma quel tipo che assume le posizioni internazionali del PCL in contrasto con quelle del resto del CRQI. Speriamo che non si arrivi al “movimento per la rifondazione del coordinamento per la rifondazione della quarta internazionale”. Noi abbiamo già il mal di testa.

Niente male per un partito che si propone di rivolgersi alle più diverse tradizioni, senza settarismi ideologici, in nome dell'unità sul programma… riformista.

Oppure c'è la “carovana dell'nPCI” - come viene definita da chi ne fa parte [121] - che è approdata, dopo 30 anni, alla fondazione di ben 2 partiti [122]. Uno dei due, quello “di avanguardia”, pone come pregiudiziale per l'adesione al partito, tra le altre cose, il maoismo (“terza superiore tappa”, ecc…), la teoria - considerata, non si sa perché, universale [123] - della Guerra Rivoluzionaria Popolare di Lunga Durata, il riconoscimento di una “situazione rivoluzionaria in sviluppo” (dove lo vedranno - da 30 anni - lo sviluppo di una situazione rivoluzionaria è un mistero…), la clandestinità del partito per non essere repressi dallo Stato... L'altro partito, quello “di massa senza masse”, nel frattempo, fa appelli al voto per il PD [124] ovvero per il partito più organico ai settori dirigenti della borghesia imperialista italiana attualmente esistente sulla scena politica. Va bene che per Mao quando c'è “confusione sotto il cielo” la situazione è ottima, ma qui, con la “confusione”, si esagera…

Abbiamo preso come esempio partiti come il PCL, Sinistra Critica e, in misura molto minore, il P-CARC perché hanno scelto di presentarsi e di intervenire con una linea nazionale alle recenti elezioni e questa è una riflessione sulla situazione politica nazionale a partire dal risultato elettorale del 13-14 aprile.

Su Sinistra Critica avremmo anche potuto spendere meno parole perché un gruppo che accetta di votare 23 volte la fiducia ad un governo come quello Prodi merita di stare, più che nel novero di forze comuniste o anti-capitaliste, nella Sinistra Arcobaleno. Per P-CARC e PCL valgono considerazioni un po' diverse (anche se le indicazioni di voto del P-CARC per il PD nei ballottaggi non fanno ben sperare per future scelte dalla parte dei lavoratori nel caso che questo partito vincesse al superenalotto eleggendo un qualche suo rappresentante in Parlamento).

Non ce ne vogliano i compagni e le compagne di SC, PCL e CARC, ma quando si sceglie la strada delle proclamazioni auto-referenziali (“venite con noi” o “fatevi dirigere da noi” non sono propriamente quelle che noi definiremmo “proposte unitarie”), poi non ci si può non attendere di essere analizzati con più attenzione, specialmente se ci si presenta alle elezioni “per avere visibilità”: se uno si fa vedere, gli altri lo vedono.

L'ORGANIZZAZIONE DI TRANSIZIONE

Dopo aver passato in rassegna, seppure in modo parziale, quello che non ci convince delle proposte esistenti vogliamo dire qualcosa su quello che vediamo noi come possibile e auspicabile.

Intanto, noi vediamo auspicabile, ma non possibile - almeno in questa fase - la fondazione di un autentico partito comunista.

Se per descrivere la situazione attuale ci chiedessero di fare un parallelo storico ci verrebbe sicuramente in mente quella che Lenin chiamava la “fase dei circoli” marxisti in Russia, prima della fondazione del POSDR [125] nel 1898. Per oltre un decennio si svilupparono in Russia decine e decine di circoli marxisti che venivano frequentemente dissolti dalla repressione zarista ma che, nello stesso tempo, svolgevano un prezioso lavoro di diffusione del marxismo. Per tutto il decennio fu posto ripetutamente il tema dell'unità, ma il processo unitario cominciò a “marciare” concretamente solo nel biennio 1895-96, contestualmente allo sviluppo delle prime grandi lotte operaie e alla conseguente assunzione di responsabilità a cui queste lotte obbligarono i marxisti [126].

Il POSDR fu, tra il primo e il secondo congresso (1898-1903), un partito di tipo sostanzialmente confederativo [127] e per alcuni aspetti lo fu anche successivamente, visto che ancora anni dopo la sua fondazione ammetteva vere e proprie componenti interne (bolscevichi, menscevichi, Bund) che indivano proprie conferenze di organizzazione, avevano propri canali di finanziamento, mantenevano proprie strutture politiche, organizzative, pubblicistiche e, naturalmente, proprie strategie politiche [128]). Il punto è che malgrado le inconciliabili differenze tra le varie componenti interne ciascuna di esse voleva essere parte del POSDR perché quello era il partito marxista e rivoluzionario per le masse russe (anche per quelle, ovviamente, che il partito non dirigeva).

Non abbiamo certo la pretesa di sancire impossibili equivalenze storiche [129], ma un “piccolo” insegnamento ci sentiamo di generalizzarlo, anche sulla base dell'esperienza pratica attuale: non si passa staticamente da un “epoca di circoli” al partito senza un cambiamento profondo della situazione sociale e politica generale. Quale sarà il segnale di questo “cambiamento profondo” per un paese come l'Italia oggi non siamo in grado di prevederlo. Quello che è certo è che tra partito e classe esiste un rapporto dialettico (e quindi anche una contraddizione). Non c'è bisogno di dire che per fondare un gruppo (che poi decida di chiamarsi auto-illusoriamente “partito” non cambia nulla) non c'è bisogno - in prima istanza - di nessun grande “rapporto dialettico” con la classe e dunque ogni situazione vale, grosso modo, quanto una qualsiasi altra.

In questo c'è del buono e del non buono. Il buono sta nel fatto che i circoli sono espressioni politico-organizzative embrionali che consentono quell'iniziativa politica che sta da un lato (soggettivo) del rapporto dialettico tra partito e classe. Ciò significa che, malgrado gli enormi limiti ed entro una certa misura, anche i “circoli” sono in grado di stimolare la crescita parziale della coscienza e dell'organizzazione di classe. Il non buono sta nel fatto che spesso i gruppi (e questo indipendentemente dalla loro dimensione) sedimentano una mentalità chiusa che diventa nel tempo il più potente ostacolo all'evoluzione verso esperienze politico-organizzative più avanzate; da questo punto di vista il partito non è un gruppo più grande ma, innanzi tutto, una organizzazione che ha superato la “mentalità da gruppo”.

Quella in cui interveniamo oggi è, per il movimento comunista, sostanzialmente un'epoca di circoli [130], un'epoca gruppuscolare in cui la coscienza di classe non si esprime a livello di settori di avanguardia, ma solo poco più che a livello di singoli. In questo contesto ogni fondazione di un partito comunista non può essere che la fondazione di una caricatura di partito, auto-referenziale e di propaganda, che finisce per essere più di ostacolo che di stimolo alla ricostruzione di una effettiva organizzazione comunista rivoluzionaria.

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Se pensiamo che oggi non sia possibile la fondazione di un partito comunista, nondimeno pensiamo che sia non solo possibile, ma anzi auspicabile - di più, indispensabile - l'avvio di un confronto aperto tra comunisti, organizzati [131] e non.

Questo confronto, ovviamente, non può essere basato solo su periodici convegni di studio, su assemblee di discussione o sulla comune partecipazione ai “movimenti”. I convegni e le assemblee sono spesso utili; nei movimenti è importante esserci (semmai la questione che si pone è del come esserci [132]), ma senza una sintesi più avanzata, collocata in un ben preciso contesto politico-organizzativo, il confronto non può che condurre in nessun luogo.

Noi vediamo come contesto possibile una forma di confederazione strutturata su 2 livelli: un primo livello basato sull'adesione individuale ad organismi territoriali della confederazione e un secondo livello (una sorta di consulta) basato sul confronto tra organismi politici territoriali e inter-territoriali. Certo, ancora molto meno di un partito, ma molto di più della situazione attuale e della pratica tanto diffusa degli “intergruppi mobili”, ovvero delle alleanze variabili su singole tematiche tra micro-gruppi in concorrenza gli uni con gli altri su tutto il resto (e spesso anche sulla “singola tematica”).

Una confederazione permetterebbe di passare dalla fase dei circoli ad una fase transitoria entro la quale sarebbe possibile mantenere una duplice identità (di confederazione, ma anche di componente organizzata); sarebbe inoltre possibile cominciare a costruire un gruppo dirigente e una impostazione politico-organizzativa riconosciuti da tutta l'organizzazione, sviluppare un dibattito capace di diventare linea politica condivisa, disinnescare le lotte di frazione nascoste. La confederazione, dunque, come organizzazione di transizione, capace di creare le condizioni favorevoli per un reale processo di costruzione del partito.

Come detto all'inizio di questo documento non intendiamo avanzare alcun appello. Quindi non ci mettiamo neppure a stilare liste di possibili interlocutori o di “punti irrinunciabili” su cui un accordo politico-organizzativo potrebbe essere possibile dal nostro punto di vista. Diciamo solo che esistono documenti ed esperienze con cui il confronto è possibile e con cui anche questo contributo ha inteso dialogare, seppur indirettamente. Contribuire a questo confronto in modo scientificamente aperto e al tempo stesso rigoroso è oggi l'unico modo per gettare le fondamenta di qualsiasi ipotesi più avanzata.

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Infine, una sola ultima considerazione che può apparire generica, ma che invece non lo è affatto. A questo punto è chiaro che per noi le riflessioni sul superamento del partito comunista come intellettuale e organizzatore collettivo della prospettiva di trasformazione rivoluzionaria dell'esistente sono solo chiacchiere; tra l'altro, né nuove, né interessanti. Ben venga, quindi, un confronto sul partito comunista.

Ma dire partito non significa ancora dire quale partito. Qui la cosa si farebbe complessa e non vogliamo aprire anche questo capitolo che merita una riflessione specifica. Diciamo solo che ci pare poco seria l'adesione ad una organizzazione comunista o ad un processo costituente via Internet o riempiendo un modulo ad una qualche iniziativa pubblica o in generale senza una collaborazione pregressa solida e duratura. Partiti che ammettono adesioni di questo tipo non sono che partiti-massa (tra l'altro, senza masse) e il partito-massa è l'espressione organizzativa di una linea riformista; non a caso Togliatti lanciò contestualmente le parole d'ordine della “democrazia progressiva” e del “partito nuovo” (anche se persino nel PCI riformista, per una lunga fase, il percorso politico-organizzativo per accedere al partito era molto, ma molto meno immediato di quanto non lo sia per gli attuali “partiti” “comunisti” o addirittura “rivoluzionari”).

Ovviamente, non pensiamo ad un partito “di élite”, una sorta di casta intellettuale, sacerdotale e/o guerriera: pensiamo ad un partito di quadri e di militanti selezionati dal rapporto pratico e teorico con l'organizzazione e con il movimento reale di lotta e di resistenza politica, sociale, culturale.

Un partito che sappia costruire attorno a sé il più articolato movimento di simpatizzanti e sostenitori, ma che sia composto, non da generici lavoratori o generiche persone “di sinistra”, bensì, anzitutto, da rivoluzionari.

Un partito non è rivoluzionario perché i suoi militanti si dichiarano tali, ma perché questi militanti hanno la capacità di crescere e di far crescere, sanno mettersi in discussione anti-dogmaticamente riconoscendo e correggendo gli errori, hanno sempre di fronte a sé, in ogni battaglia sociale o politica, gli interessi generali del movimento di classe e non gli obbiettivi particolari della lotta, possiedono quella disciplina che proviene dal saper agire collettivamente e dall'essere educati alla dura “scuola del capitale”, soffrono ogni ingiustizia che viene compiuta ovunque come se venisse compiuta contro di loro, si sentono parte del processo universale di emancipazione dell'umanità dal “regno della necessità” verso il regno della libertà

Solo uomini e donne di questo tipo possono possedere quella straordinaria potenza creativa capace di trasformare in prassi l'aspirazione latente, sotterranea, soffocata, dell'uomo a realizzare la prospettiva della propria reale liberazione, la prospettiva del comunismo.

NOTE

1] Seminare per raccogliere. Contributo al dibattito per la ricostruzione del partito comunista, agosto 2000; I nostri compiti nell'immediato… ma non troppo, 2004-2005. La pace nell'urna in Controvento n.8-9, 2004-2005; Riflessioni sul movimento altermondialista in Controvento n.10, maggio 2005; ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell'attacco all'Iraq, gennaio 2003; Introduzione a La volante rossa, 2002; Bello e possibile. Riflessioni su comunismo e utopia, 2006. Tutti i testi sono scaricabili da www.antiper.org.

2] Per approfondimenti sulle crisi cfr. Seminare per raccogliere, II. L'analisi della fase, Autoproduzioni, 2000.

3] Riforme di struttura erano chiamate le riforme che, secondo il PCI, avrebbero permesso di inserire “elementi di socialismo” all'interno del capitalismo italiano, tanto da prefigurare il suo superamento in una forma di stato socialista. A dicembre [1956] si tiene l'VIII Congresso del PCI, che indica la via italiana al socialismo con l'obiettivo della trasformazione socialista del Paese, alla quale è possibile pervenire attraverso obiettivi transitori, riforme di struttura e riforme politiche, in nome delle quali è necessario costituire un vasto e differenziato blocco di forze sociali e politiche, secondo la tematica gramsciana delle alleanze”, in Il Partito Comunista Italiano. Cronologia: dal PCI ai DS, www.storiaXXIsecolo.it.

4] Massimo Bontempelli - Marino Badiale, Prima che sia troppo tardi, Pisa-Genova, maggio 2008.

5] Come i sindaci pd-ini e leghisti della Val di Susa? O come i cittadini che non vogliono gli inceneritori sotto casa propria (perché temono la riduzione del suo valore commerciale), ma accettano di buon grado l'inceneritore sotto la casa di qualcun altro?

6] Perché riteniamo (diversamente da quanto fanno ad esempio gli estremisti anarco-primitivisti della decrescita) che anche con il capitalismo gli uomini abbiano costruito, oltre alle miriadi di opere inutili e dannose, anche cose utili da preservare.

7] Nel senso indicato da Lenin nel suo Sul romanticismo economico.

8] Il qualunquismo fu un movimento politico sorto attorno alla rivista L'uomo qualunque fondata nel 1944 da Guglielmo Giannini che si caratterizzò per posizioni come “la lotta al comunismo, la lotta al capitalismo della grande industria, la propugnazione del liberismo economico individuale, la limitazione del prelievo fiscale, la negazione della presenza dello Stato nella vita sociale del paese” (cit. da Wikipedia) e che successivamente confluì in buona parte nel nascente MSI.

9] Intervento di Fausto Bertinotti al VII Congresso del PRC, Chianciano, 27 luglio 2008.

10] Basti solo ricordare un esempio tra tutti, la tassa per Maastricht. Di certo non la più onerosa, ma di sicuro la più paradigmatica della natura euro-tecnocratica del governo Prodi che mentre massacrava i lavoratori italiani con il Pacchetto Treu, li tassava per costringerli ad aderire alla costruzione di un polo imperialista europeo anti-popolare a anti-operaio.

11] Cfr Paolo Feltrin, Le elezioni politiche 2008. Le basi sociali del voto. 17 giugno 2008, IRES. Tavola 26: voto per professione (composizione)

12] Karl Marx, Manifesto del partito comunista, I. Borghesi e proletari.

13] Il passaggio dalla lotta del singolo gruppo di operai contro il singolo padrone alla lotta di tutti gli operai contro tutti i padroni.

14] In questo senso appare evidente come l'attuale proposta di riforma del modello della contrattazione, accelerata dall'approvazione da parte delle segreterie di CGIL-CISL-UIL, il 7 maggio 2008, di un documento che prevede lo spostamento di baricentro dal primo livello (contrattazione nazionale) al secondo (contrattazione decentrata) sia, tra le tante altre pessime cose, anche un modo ulteriore per parcellizzare le lotte sindacali e quindi per ridurre il riconoscimento reciproco dei lavoratori in classe.

15] In politichese, i pompieri sono quelli che vengono inviati a spegnere gli incendi sociali e politici affinché non si espandano.

16] Peraltro già in atto, tanto che i recenti congressi di PdCI e PRC sono finiti con la sconfitta delle frazioni più apertamente governiste (Belillo e Vendola).

17] Il Piano Marshall fu un piano di aiuti economici degli USA all'Europa che in 5 anni (1948-1952) permise ad alcuni paesi alleati di riconvertirsi rapidamente dall'industria bellica a quella civile. Alla fine del piano, per il quale gli USA erogarono circa 13,2 miliardi di dollari, la produzione dell'Europa occidentale aveva recuperato e addirittura superato del 30% la produzione del periodo pre-bellico. Il Piano Marshall fu un modo per vincolare la sorte economica dei paesi europei alla supremazia nord-americana “coerentemente” con l'assetto geo-politico emerso dagli accordi di Yalta.

18] PSI-UP 20,7%, PCI 18,9%

19] Infatti le brigate partigiane di gran lunga più numerose si chiamavano Brigate d'assalto Garibaldi secondo la scelta di caratterizzare in senso marcatamente neo-risorgimentale la Resistenza (definita spesso, non a caso, “secondo risorgimento”).

20] Nelle elezioni del 15 maggio 1921 il Partito Nazionale Fascista aveva raccolto lo 0,5% e 2 seggi, ma altri fascisti erano stati eletti nelle liste dei Blocchi Nazionali anti-socialisti. I fascisti in Parlamento sono comunque, dopo le elezioni del 1921, solo 35 (di cui ben 10 provenienti dall'Istria). Da osservare che alle elezioni del 1921 presero parte 6.701.496 elettori corrispondenti al 58.4% degli aventi diritto.

21] Infatti nelle successive elezioni del 1953 il PCI avrà il 22.6% e il PSI il 12.7%.

22] Biografia di Togliatti in una pagina, “Fedele all'Italia e all'Urss, nel 1956 (VIII congresso) fu vivace fautore della “destalinizzazione” e lanciò la linea della “via italiana al socialismo”: “un regime di democrazia progressiva che attuasse un complesso di riforme della struttura economica e sociale, facendo accedere alla direzione del paese tutte le forze delle masse lavoratrici”” [www.palmirotogliatti.it].

23] R. Gualtieri, La politica economica del centrismo, cit., p. 102. in Roberto Gualtieri, Giorgio Amendola dirigente del Pci.

24] 18,9% (1948), 22,6% (1953), 22,7% (1958), 25,3% (1963), 26,9% (1968), 27,1% (1972), 34,4% (1976) [elezioni politiche].

25] Componente del PCI (animata da Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Lucio Magri) espulsa dal partito nel 1969.

26] Cfr. Karl Marx, Prefazione del '59 a Per la critica dell'economia politica.

27] Un inciso sul tema dello “sviluppo delle forze produttive”. Quando parliamo di “forze produttive che non riescono a svilupparsi” non ci si deve riferire solo allo sviluppo della produzione o della tecnologia (in parte anche a questo), secondo una lettura di stampo economicistico. Pensiamo alla scienza e in particolare alla medicina. Lo sviluppo della medicina è favorito dalla natura capitalistica dei rapporti sociali? In certa misura sì, evidentemente; ma questo sviluppo è completo, arriva fin dove potrebbe arrivare? Evidentemente no, perché l'investimento che i paesi capitalistici fanno nella ricerca scientifica e medica è limitato dalla necessità di destinare risorse ad altri settori capitalistici (come quello militare) che non avrebbero ragione di esistere in una società comunista. Non è forse ipotizzabile che l'aumento delle spese in armamenti a discapito di quelle sociali generi una contraddizione derivante dalla natura del modo di produzione capitalistico? E non è lecito pensare - diciamo pure anche verificare storicamente - che ad un certo livello di sviluppo questa contraddizione esplode in forma di rivoluzione sociale? La rivoluzione russa non è le perfetta esemplificazione tanto della contraddizione di cui sopra (i Soviet che sostengono i bolscevichi e abbandonano i partiti social-democratici perché questi proseguono la guerra imperialista, non distribuiscono la terra ai contadini, affamano il popolo), quanto del fatto che la rivoluzione diventa credibile a livello di massa quando la prospettiva indicata dalle forze riformiste si rivela fallimentare?

28] Il 9 maggio 1980 la FIAT annuncia la cassa integrazione per 78.000 operai e successivamente la richiesta di licenziamento per 24.000. Inizia una lotta sindacale che durerà per 5 mesi e culminerà con 35 giorni di occupazione. Alla fine i “colletti bianchi” della Fiat, organizzati dall'allora Responsabile del personale Callieri, si mobilitano contro i lavoratori in lotta convocando un'assemblea pubblica, il 14 ottobre 1980, al teatro Nuovo di Torino e un corteo successivo che passerà alla storia come la “marcia dei 40.000”. Si disse che quel corteo fosse il segnale che la città di Torino aveva abbandonato gli operai, ma il PCI poteva rispondere facendo sfilare nella città centinaia di migliaia di lavoratori a sostengo dell'occupazione alla FIAT.

29] «Compagni, anni di lotte quotidiane su tutti i problemi della nostra vita produttiva e sociale, danno finalmente un primo e rilevante risultato: lo stato dell'ordine e della strage è sconvolto da contraddizioni non risolvibili e la crisi di regime è ormai prossima al punto di tracollo. Ministri, Generali, Ricchi industriali, Parassiti e Benpensanti sentono con angoscia che il tempo sta cambiando, che si avvicina la primavera di una forte resistenza; di una profonda rivoluzione sociale» (Nuova resistenza, aprile 1971, cit. in Soccorso Rosso, Brigate rosse. Che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, pag. 90). Da osservare che questa impostazione fu successivamente rettificata, ma le prime azioni delle BR furono simili ad una sorta di "sindacalismo armato" (si pensi al sequestro di Amerio e alla richiesta - accolta - di ritiro delle CIG all'Alfa). Diciamo che, in generale, tutta la fase della "propaganda armata" così come l'esperienza della Colonna “Walter Alasia” è caratterizzata di un'impostazione di carattere rivendicativo da realizzarsi attraverso la LA.

30] cfr Antiper, Schede per la critica dell'economia politica. 1. PIL mondiale 1950-2001, www.antiper.org e Angus Maddison, The World Economy. Historical statistics, Development Centre Studies, OECD, 2003. Cfr. anche, ad esempio, Paolo Giussani, Il Prodotto Mondiale Lordo (PML) nel Dopoguerra [http://www.countdownnet.info]: “Quali che siano le fonti dei dati e il metodo usato per convertire le divise nazionali in una divisa unica, il PML mostra una tendenza declinante a partire dagli anni '70”. Quella del PML è solo una delle tante analisi che si potrebbero e dovrebbero considerare, ma ha il pregio della semplicità e di prendere a riferimento un indice globale (la somma dei PIL nazionali).

31] Qui è impossibile (e andrà fatto in altra occasione), ma sarebbe importante approfondire il tema dell'incapacità del modo di produzione dell'epoca di transizione in URSS (oggetto per molto tempo di analisi e scontro teorico - socialismo, stato operaio degenerato, capitalismo di stato, capitalismo “tout court”…) di riprodurre sé stesso in quanto modo di produzione.

32] Il movimento no global: nessun movimento nella storia dell'umanità ha prodotto così tante parole e così nessun risultato pratico. La vescica più gonfia che si sia mai vista

33] Bello e possibile. Riflessioni su comunismo e utopia. www.antiper.org.

34] Ed infatti dal massimo storico del 1976 (34,4%) il PCI passerà successivamente ai risultati: 30,4% (1979), 29,9% (1983), 26,6% (1987) con, tra l'altro, un effetto freno dovuto alla morte di Berlinguer nel 1984 (che infatti aveva riportato il PCI al 34% nelle Europee di quell'anno).

35] Già sperimentata con risultati elettorali non brillanti all'indomani della Liberazione.

36] Qualcuno potrebbe dire che già l'alleanza interclassista nei CLN della Resistenza può essere considerata il prodromo di future alleanze: questa sarebbe la ragione per cui gli operai difendevano le fabbriche durante la ritirata dei tedeschi. Al contrario, la difesa delle fabbriche è l'espressione della convinzione che domani, dopo la vittoria, saranno i comunisti alla guida del paese e quindi avranno bisogno delle fabbriche per dirigerle e per distribuirne i frutti al popolo.

37] Al Palazzo dei Congressi dell'EUR a Roma, il 13 febbraio 1978, si apre la Conferenza Nazionale dei consigli generali e dei quadri della federazione unitaria di CGIL, CISL e UIL in cui viene assunta una linea sindacale alla cui base c'è la disponibilità a contenere le richieste salariali “per superare la crisi economica”. E' l'avvio della “politica dei sacrifici” nel quadro della “solidarietà nazionale” che avrebbe dovuto condurre i comunisti al governo.

38] Che non a caso si rifacevano alla tradizione amendoliana del PCI, quella che al “patto dei produttori” aveva già guardato in anni precedenti.

39] “La dittatura proletaria può incarnarsi in un tipo di organizzazione che sia specifico dell'attività propria dei produttori e non dei salariati, schiavi del capitale. Il Consiglio di fabbrica è la cellula prima di questa organizzazione”, Antonio Gramsci, Sindacati e Consigli in L'Ordine Nuovo, 11 ottobre 1919.

40] Un salto di qualità del “patto dei produttori” sarebbe stato successivamente quello di ampliare l'alleanza dagli industriali alla finanza; con la privatizzazioni negli anni '90 delle banche che erano ancora sotto il controllo dello Stato il centro-sinistra ha cercato di costruire un proprio potere finanziario indiretto (riuscendoci benissimo, come dimostra il fatto che Passera e Profumo si sono persino messi in coda ai gazebo nelle primarie dell'Unione) e diretto (riuscendoci meno bene, come dimostra la vicenda Unipol-BNL-Fazio). Vale la pena sottolineare l'enorme gravità dal punto di vista culturale della scelta di chiamare operai, precari, studenti, proletari a mettersi in fila assieme a Bazoli, Profumo, Moratti… operata dal PRC e dai disobbedienti-“senza volto” che presentavano propri candidati alla leadership dell'Unione, la “grande famiglia”, appunto unita.

41] Dopo la forma da parte di CGIL-CISL-UIL, il 31 luglio 1992, ultimo giorno prima della chiusura delle fabbriche per le ferie, dell'accordo per la definitiva abolizione della “scala mobile” ovvero del meccanismo per l'adeguamento automatico dei salari in base alla crescita dei prezzi e del “costo della vita” i dirigenti delle organizzazioni sindacali furono duramente contestati anche dai loro stessi iscritti e presi a bullonate o a uova marce in alcuni comizi a cui si erano presentati dietro protezioni di plexiglas.

42] I “comunisti unitari” - residuato bellico del vecchio PdUP (Partito di Unità Proletaria), il cui camaleontismo andrebbe studiato come caso clinico, più che politico - si scindono dal PRC nel 1995 e confluiscono quasi tutti nei DS (insieme al PDS e a vecchi arnesi ex-socialisti e ex-democristiani). A tal proposito vale la pena osservare che costringere gran parte del vecchio gruppo dirigente del PRC a sloggiare senza portarsi dietro nessun seguito fu una straordinaria dimostrazione di abilità di Cossutta che usò proprio Bertinotti per dare una bella ripulita al partito.

43] Da un vecchio articolo on line de La Repubblica: “Eletto deputato nel 1996, è iscritto al Gruppo parlamentare Comunista. Ha lavorato come dirigente alla Rai dal 1950 al 1958 per diventare poi responsabile dei servizi finanziari dell'Olivetti sino al 1970. Presidente della Banca Nazionale del Lavoro dal 1978 al 1989 quando si dimise in seguito allo scandalo della filiale di Atlanta della Bnl. Allora ministro del Tesoro, azionista della Bnl, era Guido Carli e il governo era guidato da Giulio Andreotti”. Insomma, un “compagno”…

44] Il CAF era l'acronimo giornalistico con cui veniva chiamato l'accordo (CAF sta per Craxi-Andreotti-Forlani) per dirigere il “pentapartito” ovvero l'alleanza parlamentare che governava l'Italia degli anni '80 (DC-PSI-PSDI-PRI-PLI).

45] Così detti perché creati ad hoc per i lavoratori dei vari settori: Cometa per i metalmecanici, Arco per gli edili, Fonchim per i chimici, ecc….

46] E' la scandalosa truffa del silenzio-assenso.

47] Del governo precedente, Prodi confermò anche Tiziano Treu che in qualità di Ministro del Lavoro del governo Dini aveva proposto la riforma pensionistica del ‘95. Quel Tiziano Treu sarà anche lo stesso che in qualità di Ministro del Lavoro del nuovo governo Prodi sottoscriverà il “patto per il lavoro” nel settembre 1996 con imprese e sindacati e il pacchetto di decreti attuativi che prenderà il suo nome (“Pacchetto Treu”), nei quali è contenuta la vera, grande, operazione di destrutturazione del mercato del lavoro (di cui la “Legge Biagi” non sarà che un'estensione). Il PRC, intanto, continua a desistere.

48] Gli accordi separati verranno firmati - come il Patto per l'Italia - ma non avranno attuazione pratica. Portare avanti politiche di massacro sociale senza l'accordo con la CGIL significa infatti consegnarle su un “piatto d'argento” tutto il dissenso che tali politiche suscitano tra i lavoratori; significa quindi rafforzarla, non indebolirla.

49] Il termine rappresaglia è inappropriato per due ragioni: la prima ragione è tecnica: non è stato l'Afghanistan ad attaccare gli USA; la seconda ragione è politica: certo, cercare immediatamente un capro espiatorio verso cui orientare la rabbia e lo smarrimento degli americani compattandoli contro un nuovo nemico (Osama Bin Laden) era sicuramente uno degli obbiettivi principali; ma un altro obbiettivo fondamentale era quello di trasformare l'Afghanistan in base di appoggio militare americana da cui tenere sotto controllo sia la Russia che l'Iran (nonché le vie dell'energia).

50] Per un'analisi del movimento pacifista cfr. ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra alla vigilia dell'aggressione all'Iraq. Per un'analisi del movimento “un altro mondo è possibile” cfr. Riflessioni sul movimento altermondialista in Controvento n.10. Per un'analisi sulle lotte del movimento dei lavoratori 2003-2008 cfr. i vari numeri di Primomaggio. Foglio per il collegamento tra lavoratori, precari, disoccupati [http://xoomer.virgilio.it/pmweb].

51] E questo dimostra che in buona misura i cosiddetti “movimenti” erano “drogati” dall'interesse che in essi avevano i partiti istituzionali della cosiddetta “sinistra”. Drogati dal punto di vista numerico e, inevitabilmente, anche dal punto di vista politico.

52] Un'intesa con la borghesia per un'economia più equa? Buona idea. Ma la borghesia di oggi è una classe tutt'affatto diversa dagli imprenditori di una volta. Ha a che fare con la finanza globale e coincide in gran parte con un nuovo ceto di manager». E' scettico Luciano Gallino, 79 anni, torinese, ordinario emerito di Sociologia, sulla possibilità di contare su «borghesi buoni» e calvinisti - tipo quelli indicati daBertinotti - per realizzare un nuovo «patto tra i produttori» (Marchionne, Draghi, etc)”, in «La borghesia oggi? Impero dei manager», di Bruno Gravagnuolo, l'Unità del 31/07/2006.

53] Edmondo Berselli, Quel gran pezzo di Emilia.

54] Costanzo Preve, Da Antonio Gramsci a Piero Fassino. Note introduttive per farsi una ragione e capirci qualcosa in ciò che è successo nel comunismo italiano, V parte.

55] In certe zone il PCI è praticamente l'unico partito a far parte del CLN locale e fa passare suoi membri come esponenti di altri partiti antifascisti per accreditare l'idea del fronte antifascista. Cfr. LM, Mostra sulla Resistenza.

56] Giorgio Cremaschi, Bertinotti ripropone il patto sociale. Non sono d'accordo , Liberazione, 3 agosto 2006

57] Le posizioni emerse nel dibattito congressuale del PRC hanno evidenziato ancora più chiaramente la linea di tendenza che avevamo analizzato dopo il Convegno di Venezia del 2003 in La pace nell'urna; oggi la differenza è che mentre Vendola porta avanti quella linea oltre il PRC, i “ferreriani” sognano di tornare ai bei tempi in cui il PRC poteva permettersi il lusso di presentarsi con il proprio simbolo alle elezioni perché capace di superare il quorum o perché alleato nel centro-sinistra. Ma siamo certi che torneranno davvero questi bei tempi andati?

58] E del resto, di comunista, nelle scelte politiche di partiti come il PRC o il PdCI cosa altro c'era, oltre il simbolo?)

59] Quantitativamente/qualitativamente e temporalmente.

60] A parte la confusione politico-cromatica: verdi o arcobaleno?

61] “…Alle elezioni comunali del prossimo 28 maggio ci sarà una nuova lista, la Lista Arcobaleno, che unisce un arcipelago di movimenti, organizzazioni, associazioni della società civile e singole persone che vogliono cambiare il volto della città, contrastare l'influenza dei poteri finanziari e immobiliari ed imprimere una marcia in più - a sinistra - all'amministrazione Veltroni. Democrazia partecipativa, diritti sociali, salvaguardia del territorio, difesa dei beni comuni sono i temi privilegiati perché queste sono state le questioni al centro dell'azione dei movimenti in questi anni. La Lista Arcobaleno sarà una lista fortemente radicata dentro i quartieri, fatta per lo più di giovani, di donne e di persone impegnate nell'agire democratico della città. Nasce non per dividere, ma per unire e per questo il primo passo del Comitato Promotore è quello di scrivere alle segreterie dei partiti della sinistra romana, i Verdi, il Pdci e Rifondazione, per incontrarli e proporgli di unire le forze in una lista comune che sia rispettosa dell' autonomia dei movimenti e delle aggregazioni della società civile. Il Comitato Promotore, contemporaneamente, chiederà un incontro anche al Sindaco Veltroni per avviare il confronto sul programma della prossima consiliatura. Il Comitato Promotore è costituito dai primi firmatari dell'appello ‘Un arcobaleno in Comune' e rimane aperto a nuove adesioni. Giuseppe Allegri, Marco Bascetta, Claudio Canestrari, Mauro Casadio, Armando Cipriani, Giuseppe De Marzo, Nunzio D'Erme, Nella Ginatempo, Augusto Illuminati, Guido Lutrario, Silvia Macchi - Maria Marchetti - Luisa Di Gaetano (Donne in nero), Rossella Marchini, Marina Minicuci, Franco Ottaviano, Simona Panzino, Franco Piperno, Francesco Raparelli, Vittorio Sartogo, Antonello Sotgia, Rosa Mordenti - Giuliano Santoro - Emiliano Viccaro (redazione di Carta), Angelo Zola Casa delle Culture, Rete dei Movimenti, Associazione Circolo degli Attori, Action- Agenzia Comunitaria Diritti - Associazione RossoVerde, Associazione A-Sud, Esc atelier occupato, Centri sociali Corto Circuito, Intifada, Spartaco, La Strada, Astra19, Villaggio Globale, Onda Rossa 32, Associazione Radici, Riot Generation Video, LUM - libera università metropolitana - Casa della Pace.

62] A tal proposito merita sempre ricordare le aberranti dichiarazioni del Presidente Non Violento Assoluto e Pacifista della Camera Fausto Bertinotti in visita ai parà della Folgore in Libano: “I militari italiani impegnati nella missione UNIFIL in Libano sono “la vetrina migliore del paese”. E il paese “deve mettersi all'altezza di questa vetrina”. Lo ha detto il presidente della Camera, Fausto Bertinotti, durante la visita ai soldati italiani impegnati nel sud del paese dei Cedri. “E' importante ascoltare come questi militari siano capaci di parlare di pace e comprendere la situazione””, Rai International Online, 6 maggio 2007. La vetrina “migliore”… nientemeno. E il paese che deve mettersi alla loro altezza? Cosa non si farebbe per un campanellino e una giacca di cachemire.

63] Cfr. Laboratorio Marxista, ANSWER is not the answer. Riflessioni su pacifismo, antimperialismo e guerra, 2003

64] Gruppo parlamentare nato dalla scissione dei DS dopo il congresso che ha dato il via libera alla fusione con la Margherita e alla nascita del PD

65] Ma forse il termine post-comunista è inadeguato. Bertinotti è stato, lo si voglia o meno, il principale picconatore della storia comunista del '900 alla quale non ha sostituito una nuova concezione comunista più avanzata ma una versione semi-liberale particolarmente moderata della tradizione socialista lombardiana da cui proviene.

66] I 110 di PRC, PdCI e Verdi più quelli della Sinistra Democratica (17 deputati + 10 senatori di cui 1 ministro e 2 sottosegretari).

67] Oliviero Diliberto, Intervento al Congresso del PdCI, Ci batteremo per l'unità dei comunisti, luglio 2008, “La Rinascita” on line.

68] Transumato appositamente insieme a Mastella e una truppa di parlamentari del centro-destra tutti benedetti da Confindustria e Washington.

69] Ma anche qui fino ad un certo punto: “Con questo PD niente alleanze, non col PD in generale”, Intervista a Paolo Ferrero Il riformista, 31 luglio 2008.

70] Intervista a Claudio Grassi (Essere Comunisti), Liberazione, 1 agosto 2008.

71] Da Contropiano.

72] Cosa in cui Bertinotti si è adattato benissimo, come si è visto nelle primarie dell'Unione e nella insulsa campagna dei “post-it”.

73] Massimo Giannini, Il miraggio di Sherwood, La repubblica, 9 luglio 2008.

74] La Tobin Tax è la proposta di tassare le speculazioni finanziarie internazionali per ricavarne risorse da impiegare in attività sociali. In sostanza, tassiamo i ricchi speculatori finanziari (non i ricchi industriali, ovviamente, che sono “produttivi”) e ci paghiamo gli aiuti ai poveri. E poi dicono che il capitalismo non ci fa sognare…

75] Alessandro Robecchi, Sherwood all'italiana, Il Manifesto, 27 luglio 2008.

76] Ed infatti sono già iniziate le “grandi manovre” in questo senso: “D'Alema e altri, fra cui io, hanno posto il problema di non dare valore strategico alla scelta di andare al voto senza l'alleanza con il Prc. Scelta giusta e inevitabile, ma revocabile”. Intervista a Nicola Latorre, Il Manifesto, 26 luglio 2008.

77] Insieme con l'Unione

78] 5,9% se si prendono a riferimento i Comuni capoluogo di Provincia.

79] A questo si potrebbe aggiungere, per ridondanza, il dato delle elezioni Europee del 12-13 giugno 2004 quando la SA ottenne il seguente risultato: PRC (6,1%) + PdCI (2,4%) + Verdi (2,5%) = SA (11%).

80] Sia da parte del PD, per dimostrare il suo potere attrattivo, sia da parte della stessa SA, che può così concluderne che la critica politica alle scelte di questi anni è limitata mentre il grosso del deflusso di consenso è andato “per battere Berlusconi”.

81] Vedi ipotesi di flusso di SWG.

82] Paolo Feltrin, Le elezioni politiche 2008. Le basi sociali del voto. 17 giugno 2008, IRES. Tavola 26: voto per professione (composizione).

83] Paolo Feltrin, Ibidem,. Tavola 25: voto per professione (percentuale di riga).

84] Salvo Leonardi, Il voto operaio in Italia: declino o continuità?, IRES nazionale, Quad. Rass. Sind., n. 4/2006

85] Del 2006 abbiamo anche il dato “scomposto”: voti validi 38.153.343; votanti 39.298.497; percentuale di votanti 83,62%; voti validi su aventi diritto” di circa 81,18332%).

86] Fondazione di ricerca Istituto Carlo Cattaneo, Elezioni politiche 2008. La maggior crescita di astensionismo elettorale del dopoguerra, assieme a quella del 1996.

87] Spagna 2008 76,0, Austria 2006 74,2, Grecia 2007 74,1, Portogallo 2005 64,3, Polonia 2007 53,7, Svizzera 2007 48,3, Belgio 2007 91,1, Francia 2007 84,0, Svezia 2006 82,0, Italia 2008 80,5, Olanda 2006 80,4, Germania 2005 77,7, Norvegia 2005 77,4.

88] 16,4% ovvero -2,2% rispetto alle precedenti elezioni (2001). Da osservare due cose importanti: la prima, che una variazione negativa dell'astensione, ovvero un aumento del numero di votanti, si era realizzata l'ultima volta nel lontano 1976 (anno della “grande avanzata” del PCI); la seconda, è che le elezioni del 2006 si sono verificate dopo il “quinquennio berlusconiano” caratterizzato da numerosi movimenti soprattutto di opinione ma in ogni caso di massa: no global/social forum, guerra Iraq, girotondi, difesa/estensione articolo 18.

89] Non ha colpito proprio nessuno il fatto che “anti-politica” fosse il termine usato per descrivere quel fenomeno di disaffezione - che sarebbe stato molto più opportuno chiamare “anti-partitocrazia” o meglio ancora “anti-spreco” e “anti-corruzione” - diffuso effettivamente in alcuni settori minoritari della società italiana, alcuni dei quali peraltro legati ad un'idea giustizialistica della politica non a caso di stampo populistico - Lega, Di Pietro, Travaglio… -?

90] Costanzo Preve li definirebbe la nuova casta sacerdotale, il nuovo clero.

91] Come se, tra l'altro, uno che viene giudicato colpevole (in base alle loro stesse leggi) per aver fumato uno spinello o per la difesa di un centro sociale o per un blocco operaio contro i licenziamenti o per l'occupazione di una casa potesse essere equiparato ad uno condannato per corruzione o connivenza con la mafia, tanto per restare a reati di ambito “politico”.

92] PCL, Manifestazione 8 luglio: Ferrando (PCL), saremo in piazza, 2 luglio 2008.

93] Almeno il “justicialismo” e populismo di Peron, per fare un esempio, poté affermarsi grazie ad un “patto sociale” interclassista che in una prima fase di vacche grasse riuscì a dare ai lavoratori argentini miglioramenti sociali effettivi. Cfr Rolo Diez, Vencer o morir. Lotta armata e terrorismo di stato in Argentina, Il saggiatore, 2004, pag. 23. In Italia, come abbiamo visto nelle pagine precedenti, il “patto sociale” sostenuto (anche) da Veltroni e Di Pietro è servito per spostare ricchezza dai lavoratori verso i profitti. Già, ma forse quello per PCL/SC non è un problema di “Giustizia”…

94] Tanto è vero che la manifestazione di Piazza Navona è stata promossa da MicroMega il cui direttore, Paolo Flores D'Arcais, è grande elettore PD e hanno aderito “moralmente” - guarda caso lo stesso termine usato da Ferrando - personaggi come l'ex ministro della Difesa Arturo Parisi.

95] L'8 luglio saremo in piazza! Ma per il salario e i diritti dei migranti, Dichiarazione di Flavia D'Angeli, portavoce Sinistra Critica.

96] Critica, “che non tradisce”. ma solo a noi sembra che ci siano più liste di “sinistra” - radicale, arcobaleno, critica, “che non tradisce” - che elettori?

97] Anche dopo essere stato espulso dal PRC per aver votato contro la relazione di D'Alema sulla politica estera.

98] In quanto legato alla tradizione cui il simbolo rimanda e non alla consapevolezza critica di ciò che fanno coloro che di questo simbolo si fanno portatori.

99] Sinistra Critica, 11 punti per una nuova sinistra. di classe e anticapitalista.

100] Se si va sul sito Internet di Sinistra Critica e si accede alla pagina dei cosiddetti “weighted tags” ovvero quelle parole chiave variamente evidenziate in termini di grandezza e colore della font per richiamare l'attenzione del navigatore; si osserva che ci sono proprio tutte le possibili parole chiave - oltre 300 - da “frocessione” a repressione, meno una: comunismo.

101] Il manifesto, Intervista a Turigliatto, La proposta di legge di iniziativa popolare di Sinistra critica. Parla Franco Turigliatto, 17 luglio 2008.

102] Rimandiamo per un approfondimento sul rapporto tra lotta politica e lotta economica nonché tra tradeunionismo e politica rivoluzionaria al Che fare? di Lenin ancora oggi, purtroppo, molto attuale.

103] “Sono due esempi di carattere “rivendicativo”, ma il programma non dovrà - ovviamente - avere carattere puramente rivendicativo” (Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere…).

104] “Tra parentesi, dati i rapporti di forza attuali, sarebbe già un successo se riuscissimo a mantenere le 40 ore a parità di salario, visto che l'aumento salariale non corrisponde minimamente all'aumento del costo della vita e, tanto meno, all'aumento di intensità della giornata di lavoro” (Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere…).

105] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere. Contributo al dibattito per la ricostruzione del partito comunista. Cap. IV. Il ruolo delle forze soggettive nella ricostruzione del partito comunista. § Per il programma minimo di fase, Autoproduzioni, 2000.

106] Seminare per raccogliere, IV. Il ruolo delle forze soggettive nella ricostruzione del partito comunista.

107] In Francia, ad esempio, le nazionalizzazioni le faceva De Gaulle e in Italia “scala mobile” e maggiori diritti dei lavoratori c'erano

108] PCL, Il programma elettorale del PCL.

109] Ad ulteriore verifica di quanto detto in precedenza so osservi che stiamo parlando di un programma socialista per il governo dei lavoratori e non di un programma socialista di un governo dei lavoratori (ovvero di un programma di transizione).

110] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere. Contributo al dibattito per la ricostruzione del partito comunista. Cap. IV. Il ruolo delle forze soggettive nella ricostruzione del partito comunista. § Per il programma minimo di fase, Autoproduzioni, 2000.

111] Cfr. per maggiori approfondimenti: Laboratorio Marxista - Compagne a compagni veneti per un'organizzazione politica marxista, I nostri compiti nell'immediato… ma non troppo, Autoproduzioni, 2005.

112] Sinistra Critica, Il programma elettorale.

113] Cremaschi:«Rottura anche nel sindacato. La Cgil molli Cisl e Uil». Il segretario FIOM: «Mai più col PD» di Marcella Cocchi, Il Resto del Carlino, del 29 luglio 2008.

114] Due parole a parte le merita la linea “strategica” inviataci “urbi et orbi” (dalla clandestinità) dall'nPCI che da due anni dichiara di essere il partito comunista italiano ricostruito. In verità, negli ultimi 2 o 3 anni il medesimo nucleo originario (che si autodefinisce “carovana dell'nPCI”) ha ispirato la nascita di 2 partiti: l'nPCI, partito comunista rivoluzionario di avanguardia, e il “partito CARC” la cui mission è “irrompere nel teatrino della politica borghese” per “spostare a sinistra” l'asse politico (come suggerito dal bilancio della presentazione elettorale alle Comunali di Roccasecca dei Volsci (sic) in provincia di Latina) (cfr. Avanzare sul sentiero tracciato, sviluppare l'esperienza. Tesi approvate dal Primo congresso del Partito dei CARC - Viareggio 19 e 20 maggio 2007, II. Bilancio e prospettive del lavoro del nostro partito, 25. Lo spostamento a sinistra).
Il partito CARC si presenta alle elezioni ogni volta che può, indipendentemente da qualsiasi valutazione di opportunità ed anzi sono anni che cerca di promuovere in ogni modo cartelli elettorali. Alle elezioni politiche del 2006 ha provato (senza riuscirci) a raccogliere le firme per presentarsi; nel 2008 non ci ha neppure provato e si è limitato a proporre 3 o 4 liste locali alle amministrative. Tra queste Massa (provinciali e comunali). Alle elezioni di Massa i CARC hanno raccolto un risultato contenuto ma non irrilevante (almeno alle provinciali, con 2056 voti, pari all'1,633%, mentre alle comunali hanno avuto 422 voti, pari allo 0,895%) che hanno investito dichiarando il proprio appoggio al candidato del PD arrivato al ballottaggio, Angeli, il quale peraltro in campagna elettorale ha anche contribuito finanziariamente alla campagna contro la persecuzione della “carovana” con ben 200 euro (come riportato dall'ultimo numero de La Voce dell'nPCI dove un certo Fabio L. scrive anche che “Intervenire al ballottaggio” - dando indicazione di voto per il PD - “nei fatti è stato considerato un atto di serietà rivoluzionaria dalla parte più avanzata delle masse popolari” e che “tutte le forze politiche che non hanno preso posizione per il ballottaggio” - a favore del PD - “si sono screditate agli occhi della parte più avanzata delle masse popolari”. Ora, uno può votare per chi vuole, ma pontificare a nome della “parte più avanzata delle masse popolari” non è un po' troppo anche per chi mostra preoccupanti sintomi di delirio di onnipotenza? O non sarebbe forse meglio definirlo delirio di impotenza?).
Nella sua “risoluzione elettorale” l'nPCI da un'indicazione di questo tipo: dove ci sono i CARC votate per i CARC, dove non ci sono i CARC votate PCL, SC o altri, dove non ci sono questi votate SA, dove non c'è la SA votate PD… Non si capisce per quale settaria ragione l'nPCI, andato in clandestinità per costruirsi come partito rivoluzionario fuori dal controllo dello Stato (che peraltro è l'unico a sapere dove risiedano i suoi militanti come si è visto nella vicenda dell'arresto in Francia del leader Giuseppe Maj), non abbia aggiunto di votare UDC quando non ci fosse stato il PD. Evidentemente dalla clandestinità si vedono delle gran differenze tra Dario Franceschini e Pierferdinando Casini. Pensiamo di non dire una cosa sbagliata se affermiamo che non c'è bisogno di andare in clandestinità per fare appelli al voto per Veltroni. Si può farlo anche da casa.

115] Pur di rispettare l'accordo con il sindacato e la “sinistra” una “vocina” suggerì ad Umberto Bossi, nel 1994, di rompere la coalizione uscita vincente dalle elezioni e di sostenere la nascita del governo Dini (appoggiato appunto da Lega, PDS e altri) e, nel 1996, di non fare l'accordo con Berlusconi (affinché Prodi avesse il via libera per il primo governo partecipato da ex-“comunisti” e sostenuto esternamente dai neo-“comunisti” del PRC); sempre la stessa “vocina” suggerirà, nel 1998, di spaccare l'opposizione per far arrivare i parlamentari cossighiani e mastelliani) necessari a dare vita al governo D'Alema in cui due neo-“comunisti” (Diliberto e Belillo) saranno addirittura ministri…

116] Laboratorio Marxista, Seminare per raccogliere. Contributo al dibattito per la ricostruzione del partito comunista, Autoproduzioni, 2000; Laboratorio Marxista - Compagne e compagni veneti per un'organizzazine politica marxista (ex Associazione Primo Maggio), I nostri compiti nell'immediato.. ma non troppo, Autoproduzioni, 2004-5.

117] Ma poi al Congresso fondativo di gennaio approva un documento sulle questioni internazionali che su En defensa del marxismo occupa ben 22 pagine.

118] Evoluzione del precedente “movimento” per la RQI. Evidentemente il passaggio da “movimento per” a “coordinamento” segna un preciso passaggio politico-organizzativo.

119] En defensa del marxismo, n.35, gennaio 2008, “Notas críticas al documento internacional del Congreso de fundación del Partito Comunista dei Lavoratori”.

120] Partito nato dalla scissione dell'Associazione Marxista Rivoluzionaria “Progetto Comunista”, componente del PRC e poi a sua volta scissa dal PRC nel 2006 per dar vita al Movimento per il PCL.

121] “Da più di venti anni le Autorità Italiane conducono procedimenti giudiziari contro un gruppo (e contro chi è stato ritenuto ne facesse parte) che con determinazione lavora alla ricostruzione del partito comunista e che nel seguito chiameremo «carovana del (nuovo)Partito comunista italiano»: il gruppo politico, cioè, che è sorto alla fine degli anni '70 e ha promosso prima il Coordinamento Nazionale dei Comitati contro la Repressione (con la rivista Il Bollettino) e poi la rivista Rapporti Sociali e la omonima casa editrice di Milano, e che quindi, dal 1992, ha dato vita all'organizzazione nazionale Comitati di Appoggio alla Resistenza - per il Comunismo (CARC), da cui, nel 1999, si è staccata la Commissione Preparatoria (CP) del congresso di fondazione del (n)PCI, gruppo politico la cui continuità è impersonata dal più noto dei suoi esponenti, Giuseppe Maj, che ha subito da oltre 25 anni una continua ed estenuante persecuzione”. Dossier sulla persecuzione del (nuovo)Partito comunista italiano e appello alla mobilitazione, a cura del Comitato di Aiuto ai Prigionieri politici del (n)PCI - Parigi.

122] La tendenza alla fondazione di “partiti” comunisti a due alla volta non riguarda solo la “carovana”, ma anche altri. Pensiamo al binomio Proletari Comunisti - PC(maoista) o anche la proposta di “Costituente dei comunisti rivoluzionari” avanzata dal PdAC (anche se quella di fondare prima il partito e poi la costituente dovrebbe essere una novità storica mondiale).

123] “Passo dopo passo la strategia della guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata (GPRdiLD) va imponendosi nel movimento comunista come strategia universale della rivoluzione proletaria. La situazione rivoluzionaria in sviluppo spinge tutti i comunisti ad adottare una strategia e la GPRdiLD è la strategia indicata dall'esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria mondiale”, Guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata, lotta armata di OCC e altro, in La voce dell'nPCI, n.25, aprile 2007.

124] E non solo nei recenti ballottaggi. Lo stesso nPCI aveva dichiarato il suo appoggio a qualunque partito di centro-sinistra nelle elezioni politiche del 2006 e al PRC nelle amministrative successive. Evidentemente, nessuno è insensibile alla teoria del “meno peggio”.

125] Il Partito Operaio Social-Democratico Russo (POSDR) fu il partito marxista da cui successivamente sarebbero nati anche i bolscevichi.

126] La prima grande unificazione avvenne a Pietroburgo - non a caso epicentro della lotta operaia - dove una ventina di circoli si unirono per dar vita all'Unione di lotta per l'emancipazione della classe operaia.

127] Ancora al secondo congresso del POSDR i delegati venivano indicati dalle organizzazioni politiche di appartenenza (Bund, Unioni di lotta, Yuzny Raboci, Raboceie Dielo…) e calcolati in base alla consistenza di tali organizzazioni. Cfr Lenin, Un passo avanti e due indietro.

128] Si pensi, tanto per fare un esempio, agli anni successivi alla Rivoluzione democratica del 1905 e alla doppia battaglia contro l'otzovismo e il liquidatorismo nella quale vi furono alleanze trasversali tra menscevichi e bolscevichi per la difesa del partito contro la liquidazione del suo apparato illegale ed anche altri momenti unitari, magari un po' meno belli, come quelli relativi all'espulsione dal POSDR di Bogdanov, ispiratore della componente otzovista, per una fase maggioritaria nella frazione bolscevica.

129] Sarebbe ovviamente assurdo se pensassimo di trasportare ai giorni nostri esperienze collocate in un contesto storico totalmente diverso. Ma sarebbe assurdo anche pensare che la storia non possa offrirci alcun insegnamento (a positivo e a negativo, beninteso). Imparare a valutare tali insegnamenti, senza scivolare in approcci idealistici, è uno dei compiti fondamentali che abbiamo di fronte.

130] Dal momento che il parallelo storico è solo una scusa per sviluppare un ragionamento politico non ha senso qui specificare le enormi differenze politiche e sociali che legano l'epoca dei circoli russa alla nostra. Nella Russia di fine ‘800 la fase dei circoli è la fase dell'infanzia del marxismo russo, ma anche del movimento operaio russo che ha cominciato a svilupparsi massicciamente solo da pochi anni e che rappresenta ancora una quota molto piccola della popolazione.

131] Esclusi, evidentemente, quelli che si sono già auto-proclamati partito.

132] Senza approfondire, ci limitiamo ad osservare la limitatezza dell'approccio propagandistico-gruppettaro (sto dovunque e non contribuisco a nulla, l'importante è far conoscere il gruppo), dell'approccio esistenzialistico-movimentista (quello che conta è “fare movimento”, “esserci”; gli obbiettivi più avanzati verranno da sé o, forse, non esistono obbiettivi), dell'approccio opportunistico-entrista (l'importante è “avere voce in capitolo” a tutti i costi e per ottenere questo sono disposto a camuffarmi e ad assecondare, con la scusa della tattica, anche i limiti più evidenti della situazione in cui mi inserisco).

ANTIPER
Critica rivoluzionaria dell’esistente
Teoria e prassi del non ancora esistente

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