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Governance e pubblica amministrazione

(5 Ottobre 2008)

L’espressione governance è ormai entrata nel lessico comune da svariati anni. Con essa si definiscono approcci differenti, in svariati ambiti, alla risoluzione di problemi. Il concetto di governance, pur potendosi spiegare in termini generalizzati, assume caratteristiche peculiari nei vari ambiti di riferimento: economico, sociale, politico, amministrativo, finanziario.

Al governement verticale, si è sostituita l’orizzontalità, implicante processi negoziali, che necessitano la presenza di diversi attori, onde concludere decisioni condivise. I processi di governance investono diversi ambiti strategici che riguardano il lavoro, la salute, l’ambiente, tramite l’implementazione di patti, contratti programmatici, progetti, a cui partecipano soggetti istituzionali e privati, con la rara presenza di organismi sociali locali, il tutto, nell’ambito di un peculiare contesto: quello del libero mercato. La sua “utilità” è evidente: tenere insieme interessi contrapposti e gestire sul piano economico-sociale i conflitti sociali che ne derivano.

Lo Stato, quale organismo decisore, viene sostituito da “entità” che devono concertare od essere partecipi a “comuni” obiettivi. Di fatto, predomina la logica di mercato, tanto, che la rete creata nelle politiche di governance è composta da nodi il più delle volte espressione della società liberista ed in quanto tali, con scelte funzionali al proprio ruolo. Questa rete, deve costruire consenso “attraverso meccanismi differenziati di inclusione funzionale degli interessi”, mentre “la soluzione equa e negoziata è già data in partenza, e la consensualità e la cooperazione costituiscono in realtà strumenti di attuazione di politiche fortemente territorializzate e statalizzate….Delocalizzando e frantumando i fuochi conflittuali per mezzo di reti diffuse di negoziazione…la governance svolge una funzione di stabilizzazione e di conservazione nei rapporti tra poteri politici ed economici sui livelli locale, nazionale e sovranazionale. Questo perché, per sua stessa natura, la governance non può che vivere all’ombra dello Stato come del mercato, non disponendo né delle capacità di esercizio di un’autorità coercitiva legittima, né delle possibilità di stabilire i principi necessari ad orientare la propria azione…..” ( A. Arienzo )

Da qualche anno assistiamo ad una sostanziale diversificazione dei livelli di governement: una sovra nazionalizzazione, che trova la sua manifestazione nel passaggio di competenze dagli stati-nazione all’Europa; ed una sub- nazionalizzazione con devoluzione di poteri e competenze verso il basso, agli enti locali. Ma l’ipocrita retorica della compartecipazione si contraddice, nel momento in cui si pone in risalto come decisioni complesse e prioritarie vengano assunte in ambiti che nulla hanno di rappresentativo: un esempio ne sono le progettualità derivate dal fondo sociale europeo. Priorità, programmazione, beneficiari e suddivisione dei fondi vengono pre-determinati in ambiti lontani da quelli che dovranno coinvolgere i destinatari: “i manager della governance sono più bravi nel piegarla al proprio progetto attraverso un mix di consenso, plebiscitarismo e capacità di confondere priorità sociali e percezione degli stessi”.

Come accennato, la governance, può interessare diversi attori, compresa la Pubblica Amministrazione. E’qui che reificano gli effetti più deleteri della “governance istituzionale”: il radicarsi di un apparato/sistema politico/sindacale burocratico e tecnocratico, coagente secondo regole concertative e corporative. Se, da una parte, la politica orienta l’attività del Pubblico, dall’altra, le “cinghie di trasmissione” di taluni apparati sindacali, forti del potere di controllo loro accordato, divengono, a tutti gli effetti, parte integrante del sistema stesso e svolgono, perciò, funzioni di freno e di controllo.

Contestualizzando quanto affermato, dobbiamo chiederci perché al sindacato vengano sempre più richieste prestazioni clientelari e meno di lotta, perché i lavoratori sono alla costante ricerca individualizzata di percorsi di “sopravvivenza”, per quale motivo si è persa la fiducia nella possibilità di modificare i rapporti di forza fra lavoratori e l’amministrazione pubblica, come mai si interiorizzata la percezione del sindacalista come un professionista a cui delegare le proprie esigenze, piuttosto che essere partecipi di un processo collettivo solidale, che possa anche essere connesso a momenti di lotta sociali.

Di fronte all’attuale processo di trasformazione del modello sociale, la governance nella P.A. ( ma non solo ) ha determinato un modello di relazioni sociali fondato sullo scambio, ha causato l’atomizzazione individualistica dei lavoratori, ha attivato accordi ( anche sottobanco ) e contratti, che scambiano reddito e diritti dei lavoratori con garanzie per le istituzioni, quale che sia la loro veste, ha attivato una rete di “bilateralismi” che imbrigliano il conflitto, inibiscono le rivendicazioni, assicurano la coesistenza pacifica utile a future esternalizzazioni, privatizzazioni e, di fatto, a medio termine, la consegna della P.A. al mercato. Nell’immediato, il trionfo della cogestione: da una parte l’innocuo erogatore di servizi per iscritti ( non si sa quanto volontari e sinceri ), dall’altro, l’apparato pubblico e privato la cui attività deriverà da norme statali e fittizie contrattazioni.

Ritengo, che il sindacalismo di base, consapevole della lotta al sistema di cose presente ( quindi, “movimento” che abolisce ), dovrebbe porsi l’obiettivo di restituire scelte ed azione sindacale ai lavoratori-cittadini, direttamente ( senza “intercessione” di mediatori di professione ), dove a decidere dei destini, della condivisione di alcuni valori generali, sulla solidarietà, dovremmo-( dovranno ) essere i lavoratori-( cittadini ) e non gli altri. Un comune agire, finalizzato ad una possibile “città futura”.

Luciano Di Gregorio
RdB CUB P.I.

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