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Dignità operaia

Dignità operaia

(9 Marzo 2012) Enzo Apicella
Oggi sciopero generale dei metalmeccanici convocato dalla Fiom e manifestazione nazionale a Roma

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(Per un sindacato di classe)

I comunisti e la questione sindacale

Proposta per un convegno

(19 Ottobre 2008)

Negli ultimi mesi, complici gli avvenimenti politici dalla crisi fino alla caduta del governo Prodi, si è tornati a parlare diffusamente dei “comunisti e la questione sindacale”. Dentro e fuori i due partiti comunisti ex-parlamentari (PRC e PdCI) questo nodo viene posto nuovamente come una delle questioni centrali per “recuperare” il consenso della classe operaia e di quegli ampi settori salariati che, in termini meramente elettorali, non sembrano più essere “base di riferimento” certa delle idee e dell’azione dei comunisti.
Va registrato che questo dibattito, ancora disorganico e confuso, sta portando diverse componenti politiche e sindacali a riporre con forza la questione dell’unità ma anche della necessità di un percorso verso la (ri)costruzione di un sindacato di classe.
Va detto anche che, dopo anni di abbandono di questo importante terreno d’intervento, spesso le formulazioni che emergono risultano ancora talvolta velleitarie e altre volte schematiche. Sarà, però, forse utile sfruttare l’occasione per tentare di rimettere al centro di questo dibattito alcune questioni di fondo che contribuiscano a una corretta impostazione del complesso problema della relazione tra l’azione dei comunisti e la questione sindacale oggi.
D’altronde, al di là degli innamoramenti “nuovisti” e post-moderni che hanno pervaso in particolare il PRC degli ultimi anni, i sindacati sembrano continuare ad essere tra i principali (anche se non esclusivi) “organi specifici di raccoglimento delle masse lavoratrici”, per usare la terminologia del Gramsci delle Tesi di Lione.
Già a quei tempi, l’azione nei sindacati era considerata come essenziale per il raggiungimento dei fini del Partito.
Per sgomberare il campo da confusioni e strumentalizzazioni, il tentativo dei comunisti di conquistarsi un’egemonia e una direzione nel lavoro sindacale non era visto allora né come mero tentativo di conquistare le “segreterie” né tantomeno come un serbatoio dove fare unicamente “proselitismo”.
Per la direzione gramsciana del PCdI “l’azione nei sindacati assume una particolare importanza perché consente di lavorare con intensità più grave e con risultati migliori a quella riorganizzazione del proletariato industriale e agricolo che deve ridargli una posizione di predominio nei confronti con le altre classi sociali. Il compito di unificare le forze del proletariato e di tutta la classe lavoratrice sopra un terreno di lotta”.
Per i comunisti l’unità della classe lavoratrice, anche attraverso l’azione dei sindacati, è sempre stato quindi un obiettivo concreto e prioritario per contrastare l’azione disgregante delle ristrutturazioni capitalistiche dovute a due fattori distinti e collegati: le necessità di “razionalizzazione” intime all’estensione del mercato capitalistico e il tentativo di indebolimento e atomizzazione della classe dei salariati per indebolirne le sue potenzialità di resistenza e, in prospettiva, rivoluzionarie.
Quindi, dovrebbe essere patrimonio comune il fatto che i comunisti “per raggiungere questo scopo soprattutto devono rendersi capaci di avvicinare gli operai di altri partiti e senza partito superando ostilità e incomprensioni fuori luogo, e presentandosi in ogni caso come i fautori dell'unità della classe nella lotta per la sua difesa e per la sua liberazione”.
In questa impostazione gramsciana (e leniniana), i comunisti non avevano una “ricetta” valida per sempre, ma adattavano questi principi generali alle condizioni date ed ai rapporti di forza.
Ad esempio, è interessante osservare il metodo con cui i comunisti affrontavano la frammentazione sindacale, un problema che anche allora affliggeva il movimento operaio italiano seppure in maniera quantitativamente e qualitativamente differente dall’oggi. L’indicazione di Partito era quella di essere presenti in ogni sindacato che permettesse di organizzare la lotta facendosi, all’interno, portatori principali dell’unità sindacale nell’azione e, qualora possibile, anche nell’organizzazione.
Non veniva proposto quindi di uscire da un sindacato e sceglierne uno più “combattivo”, ma di organizzare i comunisti presenti in tutti i sindacati secondo principi condivisi (vedi le “Tesi Sindacali” collegate alle “Tesi di Lione”, 1926).
D’altronde, per loro stessa natura, le organizzazioni sindacali non erano mai state considerate Lo strumento rivoluzionario del proletariato, in quanto sono sempre state espressione di moderazione all’interno della classe operaia, sia rispetto ai contenuti che agli obiettivi e alle forme di lotta. Solo chi conserva velleità da “sindacalismo rivoluzionario” può stupirsi di questa tendenza del sindacato. Oggetto della lotta sindacale non è il potere politico, ma più “modestamente” la contrattazione della vendita della forza-lavoro sul mercato, ossia il miglioramento parziale delle condizioni dei lavoratori.
Tranne che in alcune particolari contingenze pre-rivoluzionarie, in cui gli scioperi da un carattere meramente economico assumono quello direttamente politico, il quadro e l’orizzonte entro il quale il sindacato si muove è sempre quello dato e, all’interno di questo, opera per il miglioramento o l’“umanizzazione” della società capitalista.
Anzi, di questa ne è uno strumento, potremmo dire, tendenzialmente “istituzionale”.
La burocrazia che si forma attorno e nei sindacati tende a muoversi come un vero “partito” e a contrastare qualsiasi spinta porti al protagonismo diretto dei lavoratori e alla conquista da parte di questi di un’autonomia di classe conflittuale e confliggente col complesso del sistema economico-sociale vigente.
Infatti, mentre il ruolo delle burocrazie sindacali è quasi sempre quello di garantire questo quadro di compatibilità delle lotte del movimento operaio, un altro degli obiettivi principali del movimento comunista è che questo controllo e contenimento delle spinte autonome della classe “sfugga di mano”, fino a favorire in alcune fasi la costruzione di istituti proletari direttamente nelle mani dei lavoratori in lotta e embrioni di una futura “democrazia operaia” (ad es., i vecchi Consigli).
Non a caso è il sistema capitalistico stesso ad assicurare alle organizzazioni sindacali confederali un ruolo “preminente” garantito con una normativa di diritto comune che riconosce rilevanza generale agli accordi che essi stipulano ben al di là della loro reale rappresentatività nella classe.
Di più: in determinate condizioni, e quando la collaborazione con le istituzioni della borghesia è giunta ad un certo livello, paradossalmente, sempre più il “radicamento” del sindacato è visto come un ostacolo che rischia di far rientrare (in forme a volte imprevedibili) il protagonismo dei lavoratori dalla “finestra”, laddove era stato messo fuori dalla “porta”, con leggi ad hoc sulla rappresentanza, sul diritto di assemblea, sulla titolarità della contrattazione, trasformando sempre più le OOSS confederali in Sindacati di Stato e di Servizi e non di organizzazione del conflitto. Non a caso, nascono e si diffondono rappresentanze di base e conflittuali che incarnano (seppur contraddittoriamente) le spinte ineliminabili della classe lavoratrice alla conquista di una propria autonomia dalle compatibilità imposte dal mercato capitalistico nella lotta per la contrattazione di condizioni migliori (di sfruttamento) e nella difesa di quelle conquiste strappate nei decenni precedenti al padronato. Queste spinte trovarono espressione negli anni ‘60 e ‘70 nei CUB, nei Comitati di Lotta e negli stessi Consigli di Fabbrica – almeno quando questi nacquero e finché rimasero organismi con una autonomia marcata rispetto a CGIL-CISL-UIL. Oggi questi spazi storici o non esistono più o sono ridottissimi.
La deriva di molti anni ha portato il sindacalismo italiano – almeno quello storico – al punto probabilmente più basso della sua storia: la “concertazione” – assunta come valore assoluto e intangibile dalle tre centrali sindacali confederali – ha comportato l’abbandono di ogni autonomia nella rappresentanza effettiva degli interessi immediati della classe lavoratrice che sono stati subordinati completamente alle compatibilità e alla governabilità del sistema e, dunque, del tutto soverchiati dagli interessi del capitale. La situazione è giunta ad un tale stato di degrado e di distacco dalla massa dei lavoratori che da tutte le parti – con l’eccezione, naturalmente delle burocrazie sindacali e politiche interessate – si parla oggi della necessità del sindacato di classe. Anche in parti della CGIL e, perfino, della CISL quest’esigenza si fa confusamente strada, mentre dall’universo del sindacalismo di base ed extraconfederale, che da sempre in qualche modo lo vagheggiava, vengono oggi parziali e insoddisfacenti tentativi di superamento del settarismo e del minoritarismo radicale che lo ha in parte caratterizzato.

I comunisti non si possono limitare a constatare questa esigenza e ad unire semplicemente la propria voce al coro degli auspici e dei desideri. Sarebbe sciocco pretendere di far cominciare la storia da se stessi, e non basta prendersela con la “concertazione”: essa è l’effetto, la conseguenza coerente di scelte politiche più antiche e di ben più vasta portata. Non è sufficiente, allora, contrastare l’effetto e chiederne il superamento: è necessario individuarne le cause e combattere con decisione le scelte strategiche che l’hanno determinata.
La natura compromissoria dell’organizzazione sindacale è stato certamente il terreno di coltura in cui ha trovato alimento la mala pianta della collaborazione di classe e del neocorporativismo. È importante per i comunisti comprendere questo perché non esiste un vaccino immunizzante in senso assoluto dalla tendenza opportunista del sindacato: l’insidia è costantemente presente e soltanto la direzione politica e vigile dei comunisti può contrastarne in ogni momento la sua riproduzione. Questa verità, se attribuisce precise responsabilità storiche alla direzione del PCI e alla sciagurata scelta della “autonomia” tra direzione sindacale e quella politica, non assolve i gruppi dirigenti “comunisti” – di maggioranza come di “opposizione” – che hanno preteso di succedere al disciolto partito: essi si sono semplicemente disinteressati della questione. Ma è anche importante monito per quei compagni che si illudono ancora di poter dar vita ad una organizzazione sindacale “di classe” senza porsi – contemporaneamente – anche la questione della sua direzione politica: il partito. Lo stesso monito va anche a quei comunisti che straparlano di “ri-rifondazioni” o di unità dei comunisti trascurando di nuovo la questione sindacale. Questo errore fu già fatto da Cossutta, Garavini e soci ed è stato reiterato in questi anni da Bertinotti e Diliberto in pieno accordo con tutti i loro gruppi dirigenti. L’esito lo conosciamo.
In secondo luogo va chiarito che l’origine della deriva collaborazionista non ha inizio nel ‘93 con la nascita ufficiale della “concertazione”, ma è di molti anni antecedente. Di solito si tende a far risalire la politica di collaborazione di classe del sindacato alla cosiddetta “svolta dell’EUR”.
Datare in modo preciso un fenomeno della storia o della politica è sicuramente poco dialettico. Se si vuole indicare l’atto formale da cui discendono comportamenti e atti altrettanto formali, lo spartiacque è effettivamente quello: ma l’EUR fu l’atto conclusivo di una lunga sequenza di scelte e comportamenti volti a chiudere definitivamente il lungo ciclo di lotte operaie – molto forti e partecipate, culminate nelle grandi mobilitazioni del ‘69-‘70 – che avevano scosso il potere del Capitale, affermato l’autonomia politica e organizzativa della classe e gettato una preoccupante (per il capitale stesso) ipoteca sul futuro. Già all’indomani del cosiddetto “autunno caldo” ci furono il sabotaggio e la negazione dell’unità sindacale, il riassorbimento e lo smantellamento dei consigli di fabbrica – visti, giustamente, come pericolosi strumenti di rappresentanza diretta e di autonomia della classe – e la riconduzione della volontà e della rappresentanza operaia sotto il controllo delle burocrazie sindacali, la lenta e inesorabile vanificazione delle conquiste salariali e normative, il subdolo smembramento dell’unità realizzata sul campo.
Non si trattò di perfidia o di semplice tradimento dei dirigenti sindacali: fu anche la scelta di arrendersi opportunisticamente a esigenze oggettive lette e accettate dal punto di vista dell’avversario, percepite e assunte come inevitabili poiché da tempo si era già rinunziato alla propria autonomia critica.
La ristrutturazione era necessità indifferibile del capitale e richiedeva prezzi elevatissimi che la classe non avrebbe accettato di pagare. Occorreva minarne la combattività, strappandole parte del suo potenziale, dividendola, togliendole gli strumenti di decisione e di lotta, circuendola se possibile, reprimendola violentemente se necessario. Il “compromesso storico” e l’assunzione del PCI nell’area di governo fu fattore decisivo che ebbe pesanti e diretti riflessi sul scelte delle direzioni confederali e fornì improbabili ma ben orchestrate suggestioni alla massa dei lavoratori.
Sull’altro versante gli “anni di piombo” offrirono una opportunità ideale per provvedimenti e iniziative repressive e intimidatrici, ma anche per sussumere ideologicamente il mondo del lavoro nella “difesa dello Stato democratico”. Il PCI e il sindacato confederale si fecero coscientemente strumento di questa strategia, ad un tempo violenta e surrettizia, radicata nella visione di una socialdemocrazia subordinata e di accatto.
La “svolta dell’EUR” è, allora, soltanto il punto di approdo e di ripartenza di questa strategia che ha come posta il recupero integrale della “governabilità” e la totale subordinazione della classe operaia, che lascia mano libera al capitale in cambio di un simulacro di compartecipazione e di un inarrestabile scivolamento verso l’immiserimento e la sudditanza.
Da quella “svolta” diventa visibile una strategia a tutto campo che progressivamente e inesorabilmente disgrega, scompone e cambia la classe operaia e l’intero mondo del lavoro. Importantissimi sono i comportamenti e le connivenze dei gruppi dirigenti di sindacati e partiti, ma gli esiti devastanti sono conseguenza di fatti molto concreti come la ristrutturazione e la riorganizzazione capitalistica, lo smantellamento di gran parte del tessuto produttivo e la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, delocalizzazioni ed esportazione di capitali, spostamento di risorse verso piccole e marginali unità produttive, privatizzazioni e concentrazioni di enormi risorse nelle mani del capitale speculativo. Alla riappropriazione surrettizia della rappresentanza esclusiva da parte delle burocrazie sindacali corrispondono attacchi sempre più intensi alle conquiste storiche dei lavoratori ed una crescente precarizzazione del rapporto di lavoro, mentre la “difesa dell’economia nazionale” viene assunta dal sindacato confederale come valore primario in nome del quale vengono imposte la “moderazione salariale” e una interminabile sequenza di cedimenti e rinunce.
È contraddittorio e inutile porsi il problema del “sindacato di classe” senza porsi realisticamente da questo punto di osservazione e senza porsi molto concretamente e decisamente in contrapposizione ad esso.
Bisogna ripartire da una analisi rigorosa per un verso – sul piano oggettivo – dell’attuale modo di produzione capitalistico e, per altro verso – sul piano soggettivo – dell’attuale composizione della classe.
Occorre uscire dalla gabbia del gioco di rimessa, di semplice contrasto alle singole scelte del capitale, lanciare la sfida sulle scelte politiche generali, misurarsi sulla strategia. Qui sta il ruolo dei comunisti, qui sta l’esigenza del Partito: in discussione, nella nostra epoca storica, non è la condizione di vita e di lavoro della classe operaia, non è la lotta in difesa della propria esistenza, e neppure si pone più l’illusione di un lento e progressivo avvicinamento ad una forma di socialismo “democratico”; nell’epoca della crisi finale del capitale all’ordine del giorno è la questione del potere: o il proletariato riuscirà a strapparlo alla borghesia, o ci sarà “la comune rovina delle classi in lotta”.

La posta non è, dunque, soltanto, quella di ricostruire e disporre di un’organizzazione sindacale di classe, ma la possibilità di gettare anche questo strumento nella mischia dello scontro decisivo che si avvicina, per acuire le contraddizioni, per creare condizioni più favorevoli, per farne scuola di comunismo.
La partita si gioca, dunque, anche sul “modello di sviluppo”. Ad esso i comunisti non hanno prestato ultimamente la necessaria attenzione: hanno confuso la materialità dei problemi che lo sviluppo pone con la soggettività delle soluzioni possibili, hanno assunto come oggettivo e intangibile quelle proposte dal capitale senza contrapporvi una propria interpretazione dei contenuti, dei modi di realizzare la crescita e dei suoi obbiettivi, limitandosi, piuttosto, a prendere in esame e contrastarne singoli aspetti con grande disponibilità e possibilismo, senza sfuggire, dunque, alla visione generale e alle scelte strategiche del capitale.
La classe operaia è la classe “progressiva” per eccellenza, essa deve governare la futura comunità liberata e deve essere perciò favorevole ad ogni avanzamento della conoscenza e del modo di produzione che avvicina la crisi del capitale e la società socialista, crea le condizioni strutturali della società senza classi. I suoi interessi storici e politici debbono coincidere, dunque, con il perseguimento di orizzonti sempre più avanzati del sapere umano e – sul piano strutturale – dei modi di produzione che incorporino quantità sempre maggiori di conquiste scientifiche e tecnologiche.
Naturalmente il modo in cui queste conoscenze scientifiche e tecnologiche vengono utilizzate nel modo di produzione, le scelte merceologiche, le modalità dell’appropriazione della ricchezza, etc. sono altra cosa e sono esattamente l’oggetto della lotta di classe, è anche su di esse che si sviluppa il conflitto tra capitale e lavoro. La scienza, il sapere, sono prodotti sociali ma – sempre più nell’epoca del capitale – sono divenute funzioni produttive: più sapere, più scienza sono incorporate nella produzione, maggiore socialità c’è nella produzione della ricchezza e più stridente e contraddittoria ne è l’appropriazione privata.
Guai a equivocare su questo punto, guai a trascurare il contrasto consapevole e intransigente sulle scelte strategiche del capitale e, dunque, sul modello di sviluppo che esso intende perseguire; guai ad attardarsi, invece, sulle scelte specifiche che ne derivano: si finirebbe per assumere, di fatto, una posizione regressiva, neoluddista, impotente, destinata ad essere sconfitta poiché è forse possibile contrastare e ritardare il progresso, ma non è certo possibile arrestarlo o impedirlo e, intanto, si lascia mano libera al capitale sulle modalità di fondo e gli obbiettivi dello sviluppo. È quanto accaduto a partire dalla fine degli anni ‘70, e le conseguenze per la classe operaia sono state devastanti.
In altri paesi la borghesia ha probabilmente ben altro spessore di quella che governa l’Italia: essa riesce, dunque, ancora a controllare parzialmente le conseguenze della sua crisi strutturale e, rovesciandone le conseguenze sui popoli di tutto il mondo, è in grado di diluire maggiormente i tempi della crisi e di prefigurare parziali “boccate di ossigeno” con processi di massimizzazione dei profitti.
Il capitalismo italiano, storicamente meschino e miserabile e per questo pericoloso e avvezzo alle avventure totalitarie, pur iscrivendosi tra i primi sette o otto maggiori imperialismi del mondo, piuttosto che competere con i più forti preferisce trarre vantaggio dal reggere il sacco ai suoi competitori da cui mutua le linee strategiche – senza contribuire a determinarle, senza saperle o poterle applicare integralmente –, occupa gli spazi liberi che gli vengono lasciati, raccoglie i vantaggi che riesce a raccattare, naviga alla retroguardia dello “sviluppo” capitalistico perdendo fatalmente colpi nella gara con il capitalismo organicamente e coerentemente transnazionale, anche con quelli più indietro nella graduatoria dei predoni internazionali. Non è per caso che l’Italia ha il tasso di crescita più basso tra tutti i paesi imperialisti, ed è sempre più a rischio di perdere posizioni rispetto a paesi governati da un capitalismo ancora meno forte, ma più aggressivo e attento alle tendenze del capitalismo di questo tempo.
Nel momento in cui il gigantismo dell’industria meccanica – di cui il fordismo era stata l’espressione compiuta – attraverso una violentissima crisi si avviava al suo epilogo e cedeva il passo ad altre forme di organizzazione del lavoro basate su diverse e più moderne tecnologie, il capitalismo italiano si preoccupò soprattutto di sfruttare quella crisi per realizzare in ritardo e con modalità “improprie”, all’italiana, la concentrazione monopolistica di interi settori industriali o, anche, per appropriarsi – tramite le “privatizzazioni” – di comparti e di unità produttive, o, ancora, per dimettere frettolosamente del tutto attività di interesse strategico e con profitto differito.
Il suo modo di operare nella crisi fu il solito: arricchirsi di più e in poco tempo, con poca fatica e poco rischio, con il sostegno dello Stato piuttosto che con la spietata e selettiva concorrenza, senza troppi problemi di lungo periodo o complicate implicazioni. Certo, le novità tecnologiche e funzionali – i robot, il “toyotismo, etc. – furono introdotte, ma non si pensò minimamente a differenziare le scelte produttive e merceologiche, non si investì un centesimo nella ricerca né di base né applicata, si rinunziò, anzi, a posizioni preminenti in settori di avanguardia e strategici, si giunse a teorizzare ed enfatizzare la propria pochezza, le incapacità, i limiti, la grettezza finanziaria, la vocazione alla subordinazione e a razzolare nel cortile del capitalismo transnazionale.
“Piccolo è bello” fu proclamato a gran voce: mentre, nell’epoca della mondializzazione, il capitalismo prendeva a correre a tutta e a diverse velocità verso forme differenti, più articolate e più moderne di gigantismo, il capitalismo italiano pretendeva di “competere” e di reggere il confronto affidandosi ad un tessuto economico fondato in massima parte su imprese di dimensioni ridicole e confinandosi irrimediabilmente ai margini del mercato. E mentre il capitale transnazionale riorganizzava il suo modo di produzione disarticolandolo, delocalizzando e dislocando ciascun segmento del ciclo produttivo per sfruttare al meglio i diversi livelli e le differenti velocità con cui si presenta oggi il residuale sviluppo capitalistico, ottimizzando e coordinando ciascuna fase all’interno di una strategia e di un orizzonte globali, i capitalisti italiani si davano da fare quasi esclusivamente e semplicemente nel delocalizzare le proprie piccole imprese o nel crearne di nuove nei paesi che offrivano un costo molto basso della forza lavoro o incentivazioni fiscali.
Non solo, ma mentre gli altri concentravano intelligenze e risorse in settori fortemente innovativi, di avanguardia e, quindi, ad alto valore aggiunto – elettronica, informatica, energia, biotecnologie, etc. – i maggiori capitalisti italiani mettevano al riparo i loro denari nei settori protetti della fornitura dei servizi, garantiti da regimi tariffari imposti, o con l’appropriazione speculativa di pezzi importanti di proprietà pubblica. La tanto glorificata “piccola impresa”, intanto, con poche eccezioni marginali, si andava a cacciare nella strada senza uscita della concorrenza in settori produttivi a basso tasso tecnologico e il cui valore aggiunto è dato prevalentemente dallo sfruttamento intensivo della forza-lavoro, con altri paesi che in tali settori hanno condizioni di indiscusso vantaggio. Per di più si deve tener conto che per alcuni di questi paesi – specie in quelli a economia centralizzata, come la Cina – l’invasione dei mercati con merci di larghissimo consumo e a prezzi estremamente contenuti – in termini di vero e proprio “dumping” – è funzionale ad una ben precisa strategia che mira ad imporre la loro presenza sui mercati internazionali, a rastrellare risorse economiche e creare condizioni finanziarie e monetarie favorevoli al disegno strategico che vede acquisizione di know how e risorse da investire in settori avanzati tecnologicamente e ad alto valore aggiunto. In Italia, invece, l’anarchia tipica dell’economia capitalistica – aggravata dalla parcellizzazione dei capitali e delle imprese e mascherata dietro la fandonia del liberismo economico del “mercato” – lascia irrimediabilmente senza orizzonte e senza speranza il futuro dell’economia.

Certo questo non deve lasciar spazio all’idea errata dell’imperialismo italiano come “straccione” e magari “poco pericoloso”. Anzi, proprio a partire dalle sue debolezze strutturali l’Italia è diventata una potenza economica imperialista competitiva e con una sua aggressività anche militare (il terzo paese al mondo per numero di militari impegnati in missioni all’estero).
Il suo modello più aggressivo sui mercati internazionali è sicuramente rappresentato da una serie di imprese transnazionali che operano in quei settori legati soprattutto all’apparato militare-industriale come avviene comunemente anche in altre potenze mondiali (vedi imperialismo USA) in questo periodo di crisi strutturale del capitalismo. Con questo non si pensi solo alle aziende capitalistiche che producono armamenti e tecnologie di uso bellico (nei cui settori, con imprese tipo Beretta o le aziende del gruppo Finmeccanica, l’Italia è un paese all’avanguardia). Ma anche a tutto ciò che vi ruota attorno. Infatti, le imprese capitalistiche del Belpaese figurano ai vertici del mercato nelle Telecomunicazioni (Telecom), costruzioni (Italcementi), oltre al settore bancario, ecc…
Certo, chiarito questo, va tenuto in conto che – a parte alcuni segmenti importanti come elettrodomestici, auto e beni di lusso – il capitalismo italiano sconta, tuttavia, delle debolezze strutturali in alcuni settori importanti della produzione per i motivi precedentemente enunciati.
Soprattutto in alcuni settori in cui negli anni dell’avvio delle delocalizzazioni (a partire dalla metà-fine degli anni ‘70) il capitalismo italiano ha fatto scelte strategiche che collocano le aziende e aziendine più importanti in un punto della filiera internazionale che è quella dell’assemblaggio (nella meccanica e nei ricambi, in particolare).
Questo rende una parte importante del settore produttivo nostrano altamente “influenzabile” dagli andamenti di quei paesi (Germania in particolare) in cui si produce e vende sul mercato il manufatto finale, così come lo rende debole in alcuni settori che lavorano le materie prime (con l’eccezione, in parte, del settore chimico).
Inoltre, la “periferia” interna (il sud del paese) è stata aperta all’ampia penetrazione non solo del capitalismo familiare italiano, ma anche delle imprese multinazionali e transnazionali di altri paesi capitalistici avanzati (Francia, USA, Germania, Olanda e Svezia – nell’ordine – i principali). Questo impatta moltissimo poli industriali molto sviluppati come, ad esempio, quello laziale (in particolare nell’agro-pontino) perché il mezzo per “invogliare” e attirare questi investimenti è stato quello degli aiuti statali (la Cassa del Mezzogiorno arriva giusto alle porte di Roma).
Questo ovviamente rappresenta un altro elemento di debolezza del “modello italiano” perché, finito il periodo di “Bengodi” degli anni ’80, nel mezzogiorno queste multinazionali estere stanno sbaraccando e deindustrializzando la zona per spostare la produzione nell’est europeo. E senza neanche il ricatto possibile del sequestro di terreni, stabilimenti e macchinari perché non li hanno di fatto mai pagati!
Oggi sarebbero TUTTE le condizioni oggettive per un piccolo movimento operaio all’argentina con l’occupazione da parte dei lavoratori disoccupati delle fabbriche in dismissione e la loro messa in produzione autogestita “sotto controllo operaio” (anche fosse in cooperative che chiedono aiuto statale)… ma evidentemente anche qui non ci sono quelle soggettive nel movimento sindacale e operaio. Altro elemento imprescindibile per il ragionamento dell’intervento dei comunisti nella classe operaia moderna.
Ovviamente, questo modello ha un impatto sulla composizione della classe dei lavoratori salariati oggi. Non crediamo affatto, come altri, che oggi dentro questo tipo di ristrutturazione del modello capitalistico italiano, in atto da oltre trent’anni, vada a scomparire o a “perdere peso” la classe dei lavoratori produttivi. Al contrario, il fenomeno della “terziarizzazione” va letto all’esatto opposto. Il “nanismo” del modello produttivo italiano si caratterizza per la centralità assoluta delle grosse imprese transnazionali sul mercato. Queste hanno ridotto le proprie dimensioni (mantenendo in casa solo il cosiddetto Core Business), per abbattere il costo del lavoro e precarizzare i contratti di lavoro, ma hanno diffuso sul territorio parti della propria produzione verso una miriade di piccole e piccolissime aziende (con lavoratori sottopagati, ultraprecari e a bassa sindacalizzazione) attraverso politiche di esternalizzazioni, trasferimento di rami d’azienda e outsourcing. La stragrande maggioranza delle imprese che lavorano nel settore terziario o sono nella grande distribuzione oppure fanno servizi all’impresa. Il risultato è che la classe dei lavoratori produttivi oggi non è identificabile a partire dal colore della tuta e dal tipo di contratto, ad esempio metalmeccanico, poiché quello che prima si faceva in un unico impianto produttivo oggi si fa ancor di più in una filiera di decine di imprese con tutti i tipi di contratto (spesso quelli del terziario o della contrattazione cosiddetta “atipica”) fino al lavoro autonomo mascherato.
I comunisti, dunque, non possono non misurarsi con questi problemi e non possono non accettare la sfida che le scelte avanzate, di progresso e di crescita, comportano. Si tratta, certo, di un impegno straordinariamente difficile e complesso a cui, però, non ci si può sottrarre: essere per le scelte di innovazione e, ad un tempo, riuscire a contrastare il capitale nel merito e nelle modalità delle sue applicazioni e delle sue finalizzazioni, è impresa a cui i comunisti non sono avvezzi. E, tuttavia, non è compito rinunciabile sia perché oggi la partita finale e decisiva con il capitale si gioca esattamente su questo terreno, sia perché è questo il terreno su cui essi dovranno cimentarsi una volta rovesciato il potere del capitale. L’esperienza di questi ultimi decenni dimostra ampiamente che non aver neppure compreso questa esigenza elementare e aver evitato lo scontro su questo terreno rinchiudendo il proprio orizzonte e la propria iniziativa in una linea nel migliore dei casi ideologica e, comunque, rinunciataria, difensivista, sostanzialmente estranea a queste tematiche, ha lasciato campo libero all’avversario. Del resto, soltanto affrontando il merito di queste questioni sarà possibile trarre indicazioni politiche di merito e di metodo non soltanto ideologiche e generiche, né difensive e rinunciatarie. I comunisti debbono proporre – sempre – le proprie scelte, alternative a quelle del capitale, e motivarle politicamente, cioè concretamente.

Ma perché è soltanto a partire dal luglio del ’92 e del ’93 che la svolta concertativa si manifesta apertamente e massicciamente con tutta la sua forza devastante? La risposta è principalmente una: perché è allora che giungono a maturazione le contraddizioni sorte molti anni prima a livello nazionale e internazionale. È assolutamente emblematico che la politica di collaborazione con il padronato si manifesti scopertamente e in modo incalzante a ridosso di avvenimenti epocali come l’autoscioglimento del PCI, il “crollo del muro” di Berlino, il colpo di Stato eltziniano con la conseguente cancellazione dell’URSS e la disgregazione di quel grande paese. È inevitabile che – senza più alcun argine – i rapporti di forza a livello nazionale e internazionale volgessero rapidamente e completamente a favore del padronato e dell’imperialismo, contro il proletariato e i popoli.
I primi accordi concertativi provocarono da subito lo scontento e, anche, la reazione di tantissimi lavoratori e di molti loro rappresentanti. La cancellazione della scala mobile portò una vampata di ribellione contro i vertici confederali: da un lato da parte di chi era schierato su posizioni più radicali venne rivitalizzato e ulteriormente sviluppato il fenomeno del sindacalismo di base, autorganizzato o, comunque, autonomo dalle tre centrali sindacali; dall’altro da quello che restava dei consigli di fabbrica e da iscritti alla CGIL venne un ultimo bagliore di autonomia dalle burocrazie sindacali con il movimento degli autoconvocati.
Reazioni veementi, ma lasciate volutamente nella marginalità di uno sfogo privo di orizzonti e di sostegno. Un esempio per tutti: in un’assemblea nazionale a Roma di delegati autoconvocati Sergio Garavini – ex esponente di primo piano della CGIL e segretario della neonata Rifondazione – non si spinse oltre il saluto, il sostegno, l’auspicio, etc, etc.
Esaurito l’abbrivio di quella reazione si aprirono autostrade alla politica della concertazione, in un crescendo di accordi e di provvedimenti legislativi che hanno segnato il doloroso percorso della classe lavoratrice con le macerie di tutte le maggiori conquiste di anni e anni di lotte. Oltre all’abolizione della scala mobile, “uguale lavoro-meno salario”, regolamentazione e limitazione del diritto di sciopero, gabbie salariali, contratti d’area, “pacchetto Treu” (con il voto anche dei “comunisti”!), Legge 30, Protocollo sul Welfare, etc. etc.: la debole resistenza delle minoranze interne al sindacato confederale e del sindacalismo autorganizzato e di base non è riuscita in tanti anni ad arginare questo crescendo disastroso e neppure ad intercettare e organizzare in modo significativo il malumore e il distacco crescenti della massa dei lavoratori. E, tuttavia, essa ha testimoniato e tiene viva ancora oggi la speranza e la possibilità di una ripresa.

Ed è da questa realtà che i comunisti debbono ripartire per ricostruire il sindacato di classe in Italia. Una realtà con due gambe, ma che può e deve riconoscersi in un’unica anima.
Da un lato sono i compagni e i lavoratori ostinatamente legati alla storia e alle migliori tradizioni del sindacalismo italiano e che, fino ad oggi, non hanno voluto vedere come quel glorioso sindacato – la CGIL – abbia da tempo abbandonato il terreno di classe e sia andata molto, troppo, avanti nella sua mutazione genetica, e si collochi sicuramente ormai agli antipodi della sua tradizione storica: neppure la CGL di D’Aragona (che, pure, aveva contrastato il movimento gramsciano dei consigli contribuendo non poco alla sua sconfitta) era mai giunta così lontano. Oggi perfino le semplici funzioni – tipiche del sindacato – vertenziale e contrattuale vengono tralasciate o ferreamente subordinate alle compatibilità, alla stabilità, alla governabilità assunte come riferimenti aprioristici e intangibili: la conflittualità è accuratamente evitata, gli spazi di agibilità sono sempre più apparenti e condizionati dal moderatismo e dalla legittimazione delle direzioni, lo sciopero è sempre più mera finzione rituale e di facciata. Gli apparati dirigenti sono ormai svincolati dalla massa dei lavoratori, anche di quelli iscritti, che non hanno più validi strumenti, se non per partecipare democraticamente ai processi decisionali, almeno per esercitare pressione e condizionamento sui vertici: il sindacato che si è fatto funzione dello Stato trae ormai da esso e non dai lavoratori la sua legittimazione e le fonti stesse della sua sopravvivenza. Già un sindacato che vede tanta parte dei suoi iscritti tra i pensionati è un sindacato debole, che non ha forza contrattuale verso i datori di lavoro perché non può incidere, non può colpire la controparte nei suoi interessi che sono legati alla produzione e al profitto. E, poi, un sindacato che gestisce direttamente servizi o cogestisce con controparte e Stato enti e istituti contrattuali ha altrove il baricentro della sua attività, del suo potere, dei suoi interessi. Infine, se da queste attività di gestione e partecipazione trae importanti fonti di finanziamento, il sindacato è svicolato dalla sua base anche per le risorse economiche che non vengono più esclusivamente o maggioritariamente dal tesseramento. Il ruolo che sistematicamente giocano da sempre – con l’eccezione di qualche frangia non significativa – la CISL e la UIL (utilizzando in modo ricattatorio il simulacro dell’“unità sindacale” o andando perfino a realizzare accordi separati) fa il resto.
Si spiega, allora, perché in tutti questi anni, via via che la mutazione procedeva, i comunisti hanno trovato crescenti difficoltà a tentare, se non di contrastare, almeno di “influenzare” o condizionare i gruppi dirigenti: privi del loro partito (dunque, senza una strategia né uno straccio di orientamento politico complessivo), prigionieri delle organizzazioni politiche in cui intanto militavano, condizionati pesantemente dalla propria formazione, dalla storia, dalla fiducia sconfinata, spesso da fattori emotivi o esistenziali a cui, talvolta, non era estranea una dose di opportunismo, questi comunisti son passati da un insuccesso ad un altro, hanno inanellato un numero incredibile di illusioni e di delusioni. Oggi queste illusioni rischiano di rigenerarsi all’infinito e trovano nuovo alimento sia nella crisi interna al PD sia nel radicalismo formale - ancora intriso di mero ecumenismo in quanto a indicazioni concrete - proclamato nelle conclusioni dei congressi di PRC e PdCI.
Di nuovo, quindi, la partita si gioca sul piano politico, non su quello rivendicativo o organizzativo. Ancor di più oggi che i vertici della CGIL hanno, una volta di più, fatto una chiara scelta di campo sposando integralmente e acriticamente la strategia e la linea social-liberiste del PD, accettando di pagare il prezzo altissimo di un distacco ormai palese con la massa dei lavoratori, abbandonando – di fatto – al suo destino l’universo enorme e variegato del precariato e rischiando il rapporto con la categoria storicamente più avanzata e che si organizza nella FIOM.
Proprio dalla crisi tra CGIL e FIOM e di fronte al precipitare dei più recenti avvenimenti alcuni compagni hanno immaginato che la strada della ricostruzione del sindacato di classe possa passare per l’unica strada – più semplice, ma inconcludente – che i comunisti italiani sembrano conoscere: l’ennesima separazione. A problemi difficili non esistono soluzioni facili. E, invece di scegliere scorciatoie già tentate mille volte con magri risultati, occorre impegnarsi – all’opposto – per unire la classe e sconfiggere politicamente l’opportunismo e il neocorporativismo sul terreno politico, sui contenuti, nel confronto serrato e intransigente.

Dall’altro lato i lavoratori e i compagni che, in momenti diversi, hanno reciso i legami politici e organizzativi con il sindacalismo confederale dando vita o aderendo a numerose organizzazioni che si sono contrapposte e hanno tentato in questi anni di costituire l’alternativa “di classe” alla deriva concertativa della CGIL. Un piccolo universo molto variegato, in cui è sempre molto visibile una sorta di revanscismo anticonfederale, composto di organismi di media grandezza e di altri molto piccoli e, talvolta, su basi soltanto locali.
C’è di tutto: da posizioni residuali dell’“autonomia operaia”, all’anarcosindacalismo e al pansindacalismo, ma anche sinceri sforzi di mantenere la barra delle lotte economiche su una rotta politica comunista, ma che, però, debbono pagare un prezzo molto elevato – nella linea e nel seguito – alla mancanza del partito. Tutti si caratterizzano – in forte e dichiarata polemica con il sindacalismo tradizionale – per la radicalità delle rivendicazioni e per una urlata democrazia interna (qualcuno è giunto a teorizzare il “sindacato senza sindacalisti”!). Le sue origini sono lontane nel tempo e le sue vicende hanno risentito delle condizioni diverse dello scontro di classe nelle varie fasi. Ma, al di là di qualche eco di questi differenti trascorsi, le attuali organizzazioni sindacali autorganizzate o “di base” sono indissolubilmente legate proprio alla deriva apertamente concertativa di CGIL-CISL-UIL che si palesa agli inizi degli anni ‘90.
In esse si raccolgono solo in parte il malumore e, in parte ancora minore, le spinte autonome della classe. Raccolgono adesioni – a volte significative, ma quasi mai decisive – nel pubblico impiego o – sicuramente minoritarie e marginali (con qualche eccezione, naturalmente) – in singole unità manifatturiere. Più in generale – e può essere significativo – i maggiori consensi vengono generalmente o da categorie e unità lavorative con un livello relativamente basso di sindacalizzazione, oppure là dove il sindacato confederale lascia paurosi spazi, come nell’universo del lavoro precario.
Una buona parte del loro mancato “sfondamento” è dovuta all’immagine di sé che proiettano tra i lavoratori: troppi e spesso troppo simili tra loro; eppure troppo litigiosi e divisi; non di rado aprioristicamente alternativi, “separati” dal sindacato confederale (e non soltanto dai suoi vertici). I lavoratori, nel loro straordinario senso della concretezza, hanno ben radicato e chiarissimo il concetto di unità, della sua irrinunciabile e primaria esigenza, unico mezzo per mettere in discussione e rovesciare il rapporto di forze con il padronato. È del tutto logico, allora, che non vedano di buon occhio e, anzi, diffidino di chi si pone da un punto di vista minoritario e saccente predicando le proprie certezze, per quanto accattivanti esse siano. Il radicalismo rivendicativo non è tutto, specie quando manca di realismo, e le requisitorie contro i metodi antidemocratici non scalfiscono l’esigenza di unità e di concretezza. Le rare volte che l’invettiva infuocata ha ceduto il posto alla sfida ragionata sui contenuti e sulle modalità della lotta – con posta dichiarata l’unità –, quando i dirigenti confederali sono stati stanati e incalzati davanti alla loro stessa base su precise proposte unitarie, son dovuti arretrare e i risultati sono stati certamente apprezzabili.
Anni di esperienza hanno reso evidenti questi limiti che hanno impedito al sindacalismo extraconfederale di crescere ulteriormente e scalzare l’egemonia inerziale di CGIL-CISL-UIL. Recentemente da alcune di queste organizzazioni è venuto qualche timido e contraddittorio segnale volto a superare in parte la frammentazione. È senz’altro un primo positivo sintomo di inversione di tendenza. E, tuttavia, bisognerebbe che ci si liberasse delle persistenti tentazioni egemoniche e del tentativo di escludere da questo processo una parte delle esperienze extraconfederali; che si procedesse – da parte di tutti – ad una profonda e spietata lettura autocritica delle diverse esperienze; che si evitassero nuove suggestioni e scorciatoie organizzativistiche decise da ristretti gruppi dirigenti; che si partisse dai contenuti su cui costruire il processo unitario; che si facesse un’apertura decisa a quanti nella CGIL e negli altri sindacati confederali vivono con profondo disagio questa loro appartenenza senza riuscire ad avere un ruolo; che si delineassero modalità e forme della rappresentanza, dirette e capaci di coinvolgere nei processi decisionali e nei percorsi di lotta l’intera classe; che si delineasse chiaramente quale tipo di sindacato è necessario e possibile nell’epoca della mondializzazione, evitando di ricostruire modelli politici e organizzativi ormai superati.
Il processo di ricostruzione di un sindacato di classe in Italia non può fare a meno di nessuna energia positiva, deve marciare su due gambe: di chi ancora soffre la sua militanza nel sindacato confederale e su chi ha pensato di liberare questa militanza organizzandosi all’esterno. Deve avere come il bene più prezioso e come bussola per orientarsi l’unità della classe da conquistare sui contenuti concreti e nella sfida ravvicinata con le posizioni opportuniste e neocorporative. Deve liberare la forza e la creatività che sono imprigionate nella classe per definire e costruire il tipo di organizzazione corrispondente alle esigenze del nostro tempo.
È su questo terreno che i comunisti debbono operare all’interno della questione sindacale, non certamente partecipare alla zuffa di chi sia il più bravo, il più radicale, il più anticoncertativo e il più “democratico”.
La mancanza del partito dei comunisti complica maledettamente la questione. Ma è il dato reale da cui lucidamente partire. Sarebbe opportunista e perdente rinunciare per questo motivo, e sarebbe sciocco e colpevole baloccarsi con le priorità. Non si tratta di risolvere lo stupido indovinello se sia meglio l’uovo o la gallina: in gioco c’è la riorganizzazione del movimento operaio e i suoi destini storici, la capacità di contrastare e rovesciare il capitale, c’è la prospettiva del potere e del socialismo. Senza avvilirsi per rinunciare, senza semplificare per scegliere soluzioni a portata di mano, bisogna farsi carico di entrambi i problemi che, del resto sono dialetticamente legati e che, dunque, possono essere affrontati e avviati a soluzioni solo in modo dialettico.
Per i comunisti, allora, costituente comunista e costituente sindacale sono due parti dello stesso processo che ha per oggetto e posta la riorganizzazione della classe e, quindi, sotto la sua direzione, la creazione di un vasto blocco sociale anticapitalista.
I comunisti debbono essere punto di riferimento, avanguardie e rappresentanti dei lavoratori e degli operai in tutti i luoghi di lavoro, lavorando alla radicalizzazione delle lotte, delle rivendicazioni e del conflitto di classe proprio a partire dall’elaborazione di una comune strategia di intervento e mobilitazione permanente articolata intorno a piattaforme unificanti e condivise, al di là della attuale collocazione sindacale di ciascuno, da far vivere in e da quel conflitto.
Ma, allora, bisogna costruire un sindacato dei comunisti o di comunisti? Assolutamente no.
Il tema dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, dell’organizzazione delle loro avanguardie sindacali si pone su basi diverse da quello della costruzione della loro avanguardia politica. Il terreno sindacale è il primo terreno su cui un lavoratore sente il bisogno di organizzarsi e, dunque, il sindacato non può funzionare su base ideologica e i comunisti possono e debbono dirigerlo soltanto sulla base delle scelte e delle proposte che essi elaborano e che propongono agli iscritti del sindacato e alla massa dei lavoratori e su quelle – soltanto su quelle – ne conquistano e ne conservano la fiducia.
La questione sindacale è forse il primo punto di programma per una vera costituente comunista, al di là delle forme concrete che questa costituente va assumendo. Non ci sono altre scorciatoie per affrontare il tema dell’insediamento sociale dei comunisti.
Nei prossimi anni, dunque, le principali sfide per la sinistra di classe italiana saranno due: la costituente comunista e la costituente sindacale. Non c’è partito rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria, ma una teoria rivoluzionaria è nulla se non serve a meglio organizzare l’avanguardia della classe che è il reale soggetto rivoluzionario e di cui il partito e il sindacato rappresentano i pilastri fondamentali.
Con il ‘900 sono finiti i bizantinismi intellettuali del post ‘89. Fortunatamente il muro di Berlino ha esaurito le sue pietre e non cadono più in testa alla sinistra occidentale quei mattoni che sono stati forse la ragione materiale che l’ha rincretinita per tutti gli anni ‘90.

1) Andrea Fioretti, Assemblea dei lavoratori autoconvocati/Comunisti Uniti Lazio (ROMA);
2) Francesco Fumarola, Assemblea dei lavoratori autoconvocati/Comunisti Uniti Lazio (ROMA);
3) Riccardo De Angelis, RSU Telecom/Comunisti Uniti Lazio (ROMA);
4) Renato Caputo, coordinamento insegnanti/Comunisti Uniti Lazio (ROMA);
5) Francesco Cori, coordinamento insegnanti precari/Comunisti Uniti Lazio (Roma);
6) Alberto Pantaloni, Assemblea dei lavoratori autoconvocati/Comitato comunista "Teresa Noce" (TORIN O);
7) Vincenzo Graziano, collettivo dei lavoratori Comdata/Comitato comunista "Teresa Noce" (TORINO);
8) Giacomo Verrani, assemblea dei lavoratori autoconvocati/comitato comunista Teresa Noce (Novara);
9) Massimiliano Murgo, RSU Marcegaglia Building/Comitato comunista "Teresa Noce" (Sesto S. Giovanni - MI);
10) Sergio Manes, Centro Culturale “La Città del Sole” (NAPOLI).

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