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L'anticapitalismo nazional-ecologico e le sue contraddizioni

(1 Novembre 2008)

La crisi costituisce una piena conferma dell'analisi de “Il Capitale”, ma borghesi, intellettuali, politici di destra e di sinistra fanno a gara per dimostrare che il marxismo è fallito. Da più di un secolo, i “funerali” a Marx si sprecano, sono diventati un rito scaramantico di chi vorrebbe eternare il capitalismo, o di chi vorrebbe combatterlo, non con la lotta dei lavoratori, ma sulla base di una repulsione morale nei confronti dei disastri del capitale globalizzato.

Leggiamo una sentenza terribile e inappellabile: “... la storia, sia del marxismo che del capitalismo, applicata alle società reali ha dimostrato che le teorie non valgono nulla e che la variabile indipendente di maggior peso è il fattore umano con tutto il suo retaggio culturale di avidità, sete di potere, sprezzo delle regole e della parola data.(1) Si tratta di un articolo di Paolo De Gregorio che, nel giro di poche altre righe, giustizia anche cristianesimo e democrazia.

Prima considerazione: c’è una bella confusione tra teoria e ideologia. L’ideologia si basa su una falsa coscienza, perché l’ideologo non conosce le forze agenti che lo muovono, e si immagina delle forze illusorie, e le deduce dal proprio pensiero o da quello dei predecessori.

Senza teoria, invece, l’essere umano è cieco. E’ teoria la matematica, senza la quale non sarebbe possibile nessuna scienza; senza teoria non ci sarebbero né la fisica, né la chimica e neppure le altre scienze. Perché solo nel campo sociale si dovrebbe fare a meno di ogni teoria?

Quando dice che la Cina è un paese capitalista in feroce competizione con altri capitalisti, o che in Corea del Nord il potere si trasmette per vie dinastiche, la critica non colpisce il marxismo, ma una sua caricatura, non la teoria comunista, ma un'ideologia diffusa allo scopo di mascherare la vera natura di questi regimi, che con la rivoluzione non hanno più nulla a che fare.

Se De Gregorio non avesse questa avversione verso la teoria, potrebbe rendersi conto che la crisi economica è già implicita nella stessa circolazione delle merci. Vendita e compera sono strettamente legate fra loro, nessuno può vendere senza che un altro compri, però chi ha venduto non necessariamente impiega i soldi ottenuti per comperare subito qualcosa. C'è quindi una separazione nel tempo, che può essere violentemente superata mediante una crisi. Però qui c'è solo la possibilità della crisi, non il suo verificarsi reale, che si ha solo dopo il pieno sviluppo del credito.

Quando l'acquisto e il pagamento avvengono in periodi diversi, il venditore diventa creditore e il compratore debitore. Spesso i pagamenti si compensano, ma se ci sono da fare pagamenti reali, il denaro “si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta”. Durante la crisi monetaria, il denaro non è più sostituibile con merci, diventa l'unica ricchezza. Il credito non è più possibile: “Questa riconversione improvvisa dal sistema dal sistema di credito al sistema monetario sovrappone al panico pratico lo spavento teorico: e gli agenti della circolazione sono presi da raccapriccio davanti all'impenetrabile arcano dei loro propri rapporti”. Il ristabilimento delle condizioni di sviluppo si ha attraverso un'immane distruzione di forze produttive.

De Gregorio, dopo il crack, sogna un impossibile ritorno all'equilibrio: “L’Islanda, primo Stato a chiudere per bancarotta da globalizzazione, medita di tornare alla pesca e alle attività tradizionali. Spero proprio che questo passaggio avvenga in tutti quei paesi che saranno ridimensionati dalla crisi, dove ci si dovrà rimboccare le maniche e puntare sulla capacità di ogni nazione di essere autosufficiente come risorse alimentari ed energetiche, puntando immediatamente a installare il termodinamico e il fotovoltaico.”

Questo, nell'ipotesi poco credibile che i creditori li lascino fare. In realtà si attaccheranno alle prede come iene, e li lasceranno andare solo dopo averli derubati di tutto.

Persino le imprese degli Stati Uniti, del paese più potente del mondo, sono costrette a svendere le loro proprietà all'estero per saldare i debiti e procurasi liquidità. I capitali richiamati in patria fanno risalire il dollaro, anche se questo non è segno di salute.

Ci spiace per De Gregorio, e ancor più per i lavoratori islandesi, ma l'Islanda non potrà tornare pacificamente ai suoi pescherecci. Si è già rivolta al Fondo Monetario Internazionale, cioè all'internazionale degli usurai, che imporrà come al solito gravissimi tagli alle spese sociali, rincaro dei generi alimentari essenziali, massicci licenziamenti, aumento dell'orario di lavoro, compressione dei salari, ecc.

Non è possibile, poi, imprigionare le moderne strutture produttive nella gabbia degli stati nazionali. Il rimedio non è certo l'autosufficienza alimentare e neppure il termodinamico e il fotovoltaico. La tecnologia avanzata non aiuta quando ci si chiude nella soluzione illusoria dell'autarchia. Anche se si elevassero potenti barriere doganali, a parte il contrabbando, i capitali passerebbero con facilità i confini, e le multinazionali non tarderebbero a impadronirsi delle economie locali, a corrompere politici e giornalisti, a imporre le loro scelte in materia di risorse alimentari ed energetiche, creando nel paese monopoli nazionali assai più soffocanti di quelli internazionali.

La politica economica proposta da De Gregorio è possibile su base sperimentale in qualche città o in qualche piccolo paese, ma non è tollerata su vasta scala dal capitale. Qualunque seria riforma ormai richiede invece l'abbattimento del capitalismo e la conquista del potere da parte dei lavoratori.

Nella società auspicata da De Gregorio resterebbero l'economia mercantile, la forma salariale, il parlamento. Come si potrebbero impedire nuove avventure finanziarie, non l'ha spiegato. Il capitalismo non sceglie liberamente la via della speculazione finanziaria piuttosto che gli investimenti in agricoltura o nell'industria. Finché il saggio di profitto è alto, investe nella cosiddetta economia reale. Non appena questo scende, cerca altre soluzioni, dall'esportazione di capitale al commercio estero, dal taglio dei salari all'aumento dello sfruttamento del lavoro. Uno di questi “rimedi” è cercare guadagni nella speculazione finanziaria. Quando quest'ultima crolla, si torna alla produzione, ma il ciclo si ripete necessariamente. Si capisce perciò l'inutilità di tutti quei piagnistei che vogliono convincere i capitalisti a investire nei settori utili alla società, abbandonando la finanza. I capitalisti hanno una posizione privilegiata rispetto ai lavoratori e ai piccoli proprietari, ma neppure loro sono liberi di scegliere.

Questa crisi ha sorpreso molti , ma non noi marxisti. Problemi del genere li avevamo già trovati esposti ne “Il Capitale”. Abbiamo letto, ad esempio, della crisi del 1866, il cui scoppio fu contrassegnato dal “crollo di una gigantesca banca londinese, cui fece seguito immediato il tracollo di innumerevoli società di brogli finanziari”, e degli effetti spaventosi sull'economia reale. Hanno cercato di convincerci che erano situazioni ottocentesche, che, grazie alle ricette di liberisti o keynesiani, non si sarebbero mai ripetute.

“... la variabile indipendente di maggior peso è il fattore umano con tutto il suo retaggio culturale di avidità, sete di potere, sprezzo delle regole e della parola data.”, continuava De Gregori. Ma il fattore umano varia col variare del sistema economico-sociale e il livello delle forze produttive. Quando queste ultime sono troppo poco sviluppate, ad esempio, e il lavoro di un uomo è appena sufficiente a nutrire se stesso, non esistono neppure le condizioni per la schiavitù. Nel suo pieno sviluppo, un sistema economico sociale non può essere abbattuto, poi questa invincibilità viene meno, e si creano le condizioni per la dissoluzione. Al tempo di Spartaco, i proprietari di schiavi reagirono con terribile violenza alla ribellione, ma già Augusto dovette porre limiti all'emancipazione degli schiavi fatta da proprietari che non avevano più interesse a tenerli, e pochi secoli dopo la schiavitù era sostituita dalla servitù della gleba, e al carattere cosmopolita del mondo romano si sostituì il più ristretto localismo.

Riguardo ad avidità, sete di potere, ecc, sentiamo Engels: “Si crede di dire una cosa grande – dice Hegel – quando si afferma che l'uomo è per natura buono: ma si dimentica che si dice una cosa molto più grande quando si afferma che l'uomo è per natura cattivo”. Per Hegel il male è la forma in cui si manifesta la forza motrice dell'evoluzione storica. E questo in un doppio senso: da un lato nel senso che ogni nuovo progresso si presenta necessariamente come un atto sacrilego contro qualcosa di sacro, come una rivolta contro il vecchio stato di cose che sta morendo, ma è santificato dall'abitudine; dall'altro nel senso che, a partire dal momento in cui appaiono i contrasti di classe, sono precisamente le cattive passioni degli uomini, l'avidità e la brama di dominio, che diventano le leve dell'evoluzione storica, cosa di cui, per esempio, la storia del feudalesimo e della borghesia è una unica continua prova”.

Il capitalismo ha potuto svilupparsi grazie allo sfruttamento spietato del mondo coloniale, della manodopera salariata, grazie alle truffe metodiche del sistema bancario e delle borse. Questi “cattivi sentimenti” non nascono da una generica natura umana, ma sono frutto della situazione concreta determinata dal sistema sociale. Altre società favoriscono lo sviluppo di sentimenti completamente opposti: tra gli eschimesi di un tempo, spesso gli anziani ormai inabili al lavoro, per non pesare sui figli, sceglievano di allontanarsi dal villaggio e andare a morire tra le nevi. L'amore parentale portato fino al limite del sacrificio della vita. Si può spiegare la spietatezza degli attuali guerrafondai e l'altruismo dei vecchi esquimesi esclusivamente sulla base della natura umana, o bisogna fare una profonda analisi della struttura economico- sociale delle diverse società che li hanno formati? E non si può eludere questa domanda con la solita frase che “l'uomo è mezzo angelo e mezzo bestia.

Se il fattore umano è definito da De Gregorio “la variabile indipendente di maggior peso”, come può in seguito parlare di “dittatura completa dell'economia su tutta la società?” In realtà economia e fattore umano non sono entità isolate l'una dall'altro. L'economia è un fatto umano: “Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale”. Nelle società di classe, nel capitalismo in particolare, “i caratteri sociali del loro proprio lavoro sono trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi rispecchiano anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti, avente esistenza al di fuori dei prodotti stessi” Quindi, eliminare il carattere alienato dell'economia, perché gli uomini possano guidare l'economia, e non esserne le vittime, occorre superare la forma mercantile, il rapporto salariale, per introdurre un'economia in cui gli uomini possano adeguare la produzione alle loro esigenze reali, piuttosto che agire da apprendisti stregoni affidandosi alla roulette russa del mercato.

Per finire, si può aggiungere che è assolutamente illusorio il rimedio proposto da De Gregorio per impedire il formarsi di oligarchie e politici di professione: chiedere “nella vita del Parlamento e in quella dei partiti la non rieleggibilità assoluta dopo due mandati”. I veri detentori del potere, i capitalisti e i proprietari terrieri, non hanno difficoltà a sfornare, ogni due legislature, legioni di lacchè e galoppini, pronti a votare come automi tutto quello che la voce del padrone ordina.

30 ottobre 2008

Note

1) Paolo De Gregorio, “Le parole, le teorie e i fatti”, in Come DonChisciotte, 11/10/08.

Le altre citazioni sono prese dalle seguenti opere: Karl Marx, “Il Capitale”, vol. I, cap.3,”Il denaro ossia la circolazione delle merci”, par. 2 “Mezzo di circolazione”, par.3, “Denaro”. Cap. 23, “La legge generale dell'accumulazione capitalistica”. Friedrich Engels, “Ludovico Feuerbach e il punto d'approdo della filosofia classica tedesca”, parte 3. Marx- Engels, “L'ideologia tedesca”, Feuerbach.

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