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La scuola e le contraddizioni del capitalismo

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(8 Novembre 2008)

La scuola e le contraddizioni del capitalismo

In un capitalismo maturo come è l’Italia la borghesia deve porsi il problema della formazione della forza lavoro come principale forza produttiva e elemento decisivo nella competizione mondiale. Storicamente Gran Bretagna e Italia hanno privilegiato l’addestramento sul lavoro, la Germania una formazione professionale scuola-lavoro. Lo sviluppo tecnico e la produzione su larga scala ha reso da un lato più semplici le mansioni (vedi taylorismo) riducendo l’importanza dei “mestieri”, dall’altra le macchine soprattutto se molto complesse e costose non possono essere affidate a manodopera a bassa qualificazione. La scuola italiana è cresciuta a dismisura negli anni sessanta all’epoca della scolarizzazione di massa ed il tentativo di tutti i governi recenti, di destra e di sinistra è stato di ridurne l’incidenza, in assoluto e in percentuale sulla spessa pubblica. Ma essendo un bacino elettorale importante (più di un milione di addetti) il processo non è stato lineare. Una costante del sistema scolastico italiano è che non esiste un aiuto alle famiglie meno abbienti o finanziamenti agli studenti più dotati, per cui la scuola più che come “ascensore sociale” ha riprodotto le differenze sociali. Un terzo elemento riguarda la scuola come trasmissione delle ideologie dominanti (tratto particolarmente evidente quando il regime politico è autoritario, come col fascismo): siamo in presenza da un lato di pressioni confindustriali perché la scuola oltre alla generale trasmissione dei valori borghesi si adegui alle esigenze della fase liberista.
Dal punto di vista del proletariato se è vero che come classe non appoggia l’una o l’altra riforma della borghesia perché hanno lo scopo di adeguare meglio il sistema di istruzione alle esigenze del capitalismo, esso ha un interesse rivoluzionario alla diffusione al proprio interno delle conoscenze tecniche e scientifiche. A livello dell’intervento tattico va tenuto presente che i costi di formazione (= titoli di studio) determinano l’inserimento nelle categorie e nei livelli contrattuali e, in caso di licenziamento si ricolloca più facilmente se ha un titolo di studio elevato.

Scuola e mercato del lavoro

L’Italia è uno dei pochi paesi europei che nel secondo dopoguerra hanno conservato sostanzialmente inalterato il proprio sistema scolastico, nonostante i cambiamenti epocali subiti dalla propria struttura produttiva. Molti governi si sono cimentati in proposte di legge che modificassero la scuola ereditata dalla “fascistissima” riforma Gentile, ma i risultati si sono ridotti all’introduzione della scuola media unica del 1962 e alle varie riforme sperimentalidella maturità del 1969. Le riforme “complessive” come quella Berlinguer e quella Moratti per ora non hanno inciso a fondo.
Eppure da almeno un decennio Confindustria chiede di migliorare la scuola per “aumentare la produttività del lavoro e quindi la competitività del sistema paese” e il governatore di turno di Bankitalia ad ogni Relazione annuale, citando i rapporti OCSE, lamenta la carente formazione della forza lavoro. Sarebbe sbagliato prendere per oro colato queste lamentazioni. E’ assolutamente vero che soprattutto le vecchie generazioni della forza lavoro italiana hanno un basso livello di scolarizzazione, ma lo scarto delle giovani generazioni italiane rispetto al resto d’Europa è di soli 4-5 punti (66% di diplomati o con qualifica sotto i 24 anni contro una media europea del 70%). E’ vero che c’è uno scarto fra offerta e domanda di diplomati (ne servirebbero di più), è vero che ci sono troppi laureati in materie “umanistiche”, ma siamo anche l’unico paese capitalisticamente maturo che “esporta” laureati in materie scientifiche invece di “importarne”. Data per scontata la funzione di diffusione dell’ideologia borghese, assolta dalla scuola, che va denunciata e combattuta a tutto campo nell’intervento fra gli studenti, analizziamo l’evoluzione della scuola come formatrice della forza lavoro.

L’anomalia italiana

Perché l’Italia è uno dei pochi paesi europei in cui nel secondo dopoguerra non c’è stata una riforma complessiva della scuola? Sono stati grande industria e settori più internazionalizzati a premere in particolare per la formazione continua, cioè per un “insegnare ad apprendere” che consenta un rapido riaddestramento in vista dei rapidi mutamenti tecnologici. Ma negli ultimi vent’anni la grande industria italiana ha perso costantemente addetti e la maggior parte dei nuovi posti di lavoro negli anni ’80 sono stati creati dalla Pubblica amministrazione o nei servizi, settori tipicamente protetti rispetto alla concorrenza internazionale. La struttura produttiva italiana vede un prevalere della piccola impresa, con un basso tasso di innovazione tecnologica e una preferenza per una formazione professionale molto specifica. Il forte peso della piccola borghesia nella società italiana determina quindi una specificità italiana anche nella scuola.
Per questo in Italia la spinta ad adeguare la formazione a standard internazionali non è stata coerentemente condivisa dalle imprese né è recepita con forza dal mondo politico.
Se in Lombardia (indagine Assolombarda) la richiesta delle imprese manifatturiere per i nuovi assunti è del 14% con licenza media e il 23% con titolo professionale, 46% di diplomati e 7,5% con post diploma, nel resto d’Italia (Rapporto Isfol 2002) su 100 posti di lavoro offerti 9 erano per un qualificato, 37 per un diplomato, 7 per un laureato. Per il restante 47% basta la scuola dell’obbligo (e la retribuzione in proporzione più bassa diventa l’elemento determinante).
La piccola borghesia artigiana ha contribuito soprattutto in passato alla diffusione a livello sociale della ideologia del self made man, che non ha avuto bisogno di un titolo di studio per avere successo. La manodopera della piccola impresa ( ed è lampante la differenza con un modello come quello tedesco) si forma più sul lavoro che a scuola e per questo in Italia il tasso di occupazione dei giovani è il più basso rispetto agli altri paesi sviluppati (e più alto l’impiego di pensionati, in nero o contratto co.co.co). Nella fascia d’età 20-24 anni in Italia lavora il 38,4% dei giovani contro il 66% della Germania il 68% della Gran Bretagna e il 73% degli Usa. Contemporaneamente il tasso di prosecuzione degli studi è fra i più bassi (dati Ocse).
I giovani, e in particolare le donne, in Italia studiano se, dove e in quanto il lavoro non c’è.
Se il lavoro si trova, molti giovani, in particolare maschi, dopo la scuola media non proseguono gli studi (vedi i dati di Varese, Como o Brescia). Anche perché il mercato del lavoro italiano è fra quelli che premiano meno in termini salariali il titolo di studio rispetto al resto d’Europa (dati Ocse). Anzi secondo la relazione di Bankitalia 2000 rispetto a dieci anni prima si è ridotta la forbice salariale fra diploma e laurea e fra diploma superiore e diploma dell’obbligo.

Modesta incidenza di Formazione professionale e Apprendistato

Questa incoerenza fra dichiarazione di intenti e realtà della pratica sociale dell’intero mondo produttivo è evidente in particolare per formazione professionale, apprendistato e la formazione continua. Proprio per il tipo di struttura produttiva e del mercato del lavoro che prevale in Italia, l'apprendistato è una mera dichiarazione d'intenti e uno strumento per consentire un utilizzo a basso costo della manodopera giovane. Nel 2001 infatti solo 59 mila dei 648 mila apprendisti, cioè meno del 10%, hanno partecipato alle 120 ore (240 se minori di 16 anni) di formazione a scuola previste dalla legge ( e confermate dalla legge 30). Inoltre l’industria italiana investe lo 0,29% dei profitti in formazione contro il 3% dell’industria tedesca.
Una indagine Eurostat del '99 rivela che in Italia solo il 15% delle aziende investono in misura consistente nella formazione dei propri dipendenti (contro un dato medio europeo del 60%) perché le piccole medie imprese sono coinvolte solo in minima parte. Eppure le aziende sono autorizzate a impiegare il 30% dei contributi previdenziali per la formazione.
La tanto sbanderiata “formazione continua” in Italia è un fenomeno d’elite, riguarda in prevalenza laureati o diplomati, in ruolo dirigente, fra i 30 e i 50 anni, maschi, dipendenti di grandi imprese . Solo il 15,3% sono operai comuni e solo l’8% ha più di 50 anni, l’età in cui si concentra la disoccupazione di lunga durata (Rapporto Censis 2003).
Quindi la scuola non assolve al compito di adeguare la manodopera ai mutamenti tecnologici, particolarmente necessaria per le classi d’età che in passato non sono state scolarizzate, ma perché tutto sommato non c’è una pressione generalizzata. In realtà se ne discute solo quando è possibile accaparrarsi i sostanziosi contributi del FSE (Fondo Sociale Europeo) destinati alla Formazione Professionale e alla Formazione continua , 8720 milioni di Euro per il periodo 2000-2006. I “rubinetti europei” coprono il 70% delle spese di formazione non curriculare, sono equivalenti a un quarto delle spese dello Stato italiano per l’istruzione (35 miliardi di Euro) e costituiscono il 30% dell’aumento di spesa per l’istruzione in genere.

Il condizionamento europeo

In quanto parte integrante del “blocco di mercato” europeo, l’Italia ne subisce la pressione per attrezzarsi alla concorrenza che questo blocco deve affrontare nei confronti di Usa e paesi asiatici .
Si sono mosse le Confindustrie europee nel luglio 2000. Il Consiglio europeo di Lisbona ( marzo 2000) ha avanzato proposte, raccolte in un documento presentato a Bruxelles il 14 febbraio 2001 da cui è scaturito un programma di lavoro varato nel marzo 2002 a Barcellona .
Questo spiega non solo i molti punti di contatto nelle proposte di riforma che circolano in Europa, ma anche una forte convergenza, al di là delle forzature propagandistiche, fra modello Berlinguer e modello Moratti.
Gli obiettivi UE entro il 2010 sono di garantire un diploma o una qualifica all’80% della popolazione in età lavorativa, concentrare le risorse sulla fascia del diploma tecnico e della formazione professionale, riducendo la frequenza universitaria e post-universitaria (semmai riorientando verso le facoltà scientifiche). L’età del diploma non deve superare i 18, perché “un ciclo scolastico più lungo non migliora in modo significativo la qualità del diplomato, ma rende più costoso per le imprese riaddestrarlo”. Infine far partecipare almeno il 15% della popolazione adulta attiva alla formazione continua.
L’invito è a concentrarsi su materie fondamentali come matematica, informatica, lingua madre, lingue moderne - in particolare inglese. Ultimo e non meno importante; occorre aumentare “la produttività” della scuola a tutti i livelli, quindi ridurre al 10% gli abbandoni scolastici (in particolare all’Università, riducendo gli accessi e migliorando invece il rapporto iscritti/laureati), ricollocare le risorse (più sugli strumenti e meno sul personale).

Scuola e spesa pubblica

La scuola, assieme alla sanità e all’esercito, è una delle voci più rilevanti della spesa pubblica (circa 42 MD di €). A partire dai nei primi anni ’90 anche se con fasi alterne legate all’uso elettoralistico degli aumenti contrattuali, la riduzione del deficit pubblico in Italia è passata in buona parte attraverso i tagli alla spesa per il personale. Lo ha tentato la riforma Moratti e quella Berlinguer., ma alla fine le più efficaci sono state le Finanziarie. E’ in atto una riduzione del tempo scuola per gli studenti (gli studenti italiani hanno un tempo di permanenza a scuola fra i più lunghi di Europa e per questo il rapporto studenti/docenti è più basso e in proporzione i costi di formazione più alti). La cosa ha riguardato da un lato gli istituti professionali, avviati a diventare la scuola di serie B che accoglie i drop out e gli stranieri, dall’altro il tempo pieno della scuola elementare (quest’ultimo interessa il 25% delle famiglie a livello nazionale, ma il 90% nelle aree metropolitane, in primis a Milano e incide sulla possibilità di lavoro delle donne) e infine le compresenze nella scuola dell’obbligo, con effetti sull’ inserimento dei ragazzi stranieri, degli handicappati, dei gap culturali o sociali in genere. I risparmi potrebbero permettere in futuro una differenziazione degli stipendi del personale, con l’intento di creare un gruppo di “fedeli servitori dello stato” meno dindipendenti di quanto siano attualmente.

La riforma della scuola superiore – Il doppio canale

Con il nuovo governo potrebbe essere ripreso a livello nazionale o attraverso miniriforme regionali il modello Moratti per la scuola superioe: rigida divisione fra sistema dei licei ( durata 5 anni e accesso all’Università) e sistema dell’istruzione professionale (4 anni, niente accesso all’Università, se non previa frequenza di corso integrativo, accesso a post diploma professionale). Inoltre il sistema della istruzione professionale e tecnica, che è frequentato dal 60% dei giovani studenti verrebbe delegato alle Regioni, cui già compete la formazione professionale.
E’ evidente il tentativo di scoraggiare la prosecuzione all’Università di giovani provenienti dalle scuole professionali o tecniche, che, si ritiene, non raggiungerebbero la laurea. Il doppio canale chiude definitivamente in Italia la fase di scolarizzazione allargata iniziata con la liberalizzazione nel ’69 degli accessi all’Università.
Difficile sostenere che la riforma introduca una selezione di classe, dal momento che essa è già implicita oggi nella frequenza di un liceo piuttosto che di un istituto tecnico o professionale. Lo stesso avviene nel resto dei paesi europei (dichiaratamente in Spagna o in Germania con la Hauptschule, in modo più ambiguo con le Filiéres del liceo francese). Più semplicemente il carattere di classe della scuola si esplicita. Evidente anche la volontà di creare, attraverso l‘estensione di un postdiploma professionalizzante, alternativo all’Università, un livello intermedio di figura professionale più adatta alle esigenze delle imprese, secondo gli intendimenti di Confindustria, un modo per aggirare il carattere troppo “accademico” della scuola italiana, aumentando però il numero di quelli che frequentano per almeno 12 anni.

La regionalizzazione

Sulla riforma delle superiori si incrociano esigenze del mondo produttivo ma anche spinte elettorali dei partiti. La proposta di regionalizzare l’Istruzione professionale non è solo una cambiale da pagare alla Lega, ma corrisponde alle esigenze della piccola e media industria, e in particolare dei distretti industriali che non sono in grado di incidere sulle scelte fatte a Roma, ma potrebbe incidere sul livello politico regionale. Lo dimostra la corenza con cui, col tacito appoggio del PD Formigoni ha varato la sua riforma lombarda. La media grande impresa teme però uno scadimento del funzionamento di questi istituti, vista la non brillante prova che le Regioni hanno dato nella Formazione Professionale. Significativamente Confindustria è scesa in campo per ottenere che gli Istituti Tecnici (“perla del sistema scolastico”, “argenteria di famiglia”) restino allo Stato, perché sono centrali per garantire un certo tipo di diplomato (rappresentano il 70% delle richieste di manodopera delle imprese con oltre 250 addetti), mentre accetta il passaggio alle Regioni degli Istituti professionali. Una sorta di equa spartizione delle competenze fra diversi livelli di concentrazione produttiva. Le grandi imprese vogliono poter attingere alla forza lavoro qualificata da tutto il territorio nazionale
A parte l’ovvia opposizione del personale della scuola, cui si prospetta un taglio di quadi 250 mila addetti in tre anni, questa riforma non raccoglie le adesioni di tutte le famiglie, che stanno spostando significativamente le iscrizioni da i professionali e tecnici ai licei. Inoltre, in un'epoca di forte circolazione della manodopera, se si conserva valore legale al titolo, il capitalismo ha l'esigenza di garantire degli standard minimi qualitativi a livello nazionale (evitando il rischio presente nella scuola professionale tedesca tarata sulle esigenze specifiche dell’industria regionale), anzi è forte l'esigenza di stabilire un'equipollenza a livello europeo.
Le Regioni da un lato invocano un chiarimento su quale fetta dei 12 miliardi di euro che annualmente si spendono per la scuola superiore toccherebbe loro. Emilia Romagna e Lombardia , che hanno più forza finanziaria e subiscono una forte pressione del tessuto produttivo, rivendicano per sé l’intera gestione del personale della scuola . Tutte le Regioni hanno proposto soluzioni autonome per una gestione più o meno coerente e coordinata di Formazione professionale e Istruzione tecnica e professionale, proponendosi perciò a Confindustria e imprese locali come il vero interlocutore sul problema dell’istruzione. Lo hanno già fatto in molti casi introducendo il buono scuola per le famiglie che iscrivono i figli alle scuole private. Non si è trattato soltanto di un regalo alle scuole confessionali, (che continuano a dibattersi nei loro problemi economici man mano che il personale laico sostituisce quello religioso), ma di un premio oltre che all’elettorato di questo governo, anche a iniziative che riducono oggettivamente i costi per lo Stato, sia direttamente (il costo dell’alunno della scuola statale oscilla dai 5700 $ all’anno alle elementari ai 7200 della scuola superiore) sia indirettamente (spese per edifici, ecc).

Conclusioni

La scuola è perciò un esempio tipico dei limiti e delle contraddizioni di ogni linea riformista borghese. E’ un elemento di agitazione e di caratterizzazione degli schieramenti borghesi. Lo scopo è comunque sempre di fornire al capitale una forza lavoro più produttiva (e quindi più sfruttata nel senso marxista del termine) più flessibile e riadattabile (senza che questo garantisca più stabilità e retribuzione alla forza lavoro).
Fornire ai giovani elementi che consentano di inquadrare la scuola nel contesto sociale e storico del momento significa attrezzare meglio le future generazioni per la difesa dei loro diritti come lavoratori e sottrarle alle ideologie dominanti, siano esse veicolate dalla destra o dalla sinistra parlamentare.

COMBAT contro la scuola dei padroni!

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