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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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sul 15 febbraio 2003: un contributo al dibattito

Comitato di Quartiere "Alberone","Corrispondenze Metropolitane","Vis - à - Vis"

(6 Marzo 2003)

Ben oltre 100 milioni di uomini e donne, attivatisi ed incontratisi nel più grande "appuntamento multi-metropolitano" su scala planetaria che la storia abbia mai registrato, hanno di fatto sancito la nascita, il primo manifestarsi, di quella comunità umana universale, di cui Monsieur le Capital ha oggettivamente creato le condizioni materiali di esistenza. Nella sua inesauribile quanto necrogena ansia di accumulazione/espansione, il capitale ha infine e suo malgrado imposto all’ordine del giorno di questo terzo millennio il traguardo di quel "villaggio globale" che, nei suoi intendimenti, avrebbe certo dovuto restare occultato/rimosso nell’astrattizzazione della forma-merce, dentro le dinamiche alienanti e atomizzanti di quel mercato, ormai affatto onnicomprensivo, su cui si veicola a livello mondiale il suo ciclo di produzione/valorizzazione.

Questa comunità umana già ben "concreta", sia pur appena "in abbozzo", ha fatto propria e potenziato esponenzialmente la carica di protesta e denuncia di quel "vento di Seattle" da cui in certo senso è stata evocata e in forza del quale si è materializzata. Il Re che già era stato costretto a mostrarsi nella sua orrenda "nudità", è stato ulteriormente incalzato: la sua logica di dominio e di guerra è stata definitivamente disvelata e rifiutata "senza se e senza ma"!

La morte della politica, intesa come estrema crisi di quella "rappresentanza democratica" borghese, che per un paio di secoli aveva saputo celare/normativizzare, nell’astratto della mediazione politico-istituzionale, l’ineliminabile contraddizione materiale di classe (intrinseca al ciclo di capitale, basato sullo sfruttamento/valorizzazione), ha di fatto creato le basi per un irrefrenabile moto di ri/attivizzazione diretta, "dal basso" di tutti quei soggetti ormai spogliati delle garanzie di una "cittadinanza" man mano destrutturata, in nome di un definitivo appiattimento della politica sull’economia, sulla logica mercantile di un imprenditoria fattasi definitivamente stato.

Di fronte ad un mercato che non "accoglie" più ma emargina ed espelle, di fronte ad uno stato che non "media" più ma discrimina e reprime, diventa quasi obbligata la scelta di tornare a ritrovarsi, spezzando l’atomizzazione, a mobilitarsi superando la passivizzazione, a criticare rifiutando la colonizzazione ... E tanto più tale reazione tende ad incrementarsi, davanti allo sfociare di quella morte della politica in una ormai dispiegata ed evidente politica della morte, totalmente coniugata nel lessico mortifero di una guerra continua e pervasiva.

Ora "Lor Signori" sanno dunque che dovranno fare i conti con questo "ospite" tanto temuto quanto mille e mille volte esorcizzato a colpi di repressioni preventive, in ogni angolo del globo: la stessa tuttora incombente guerra contro l’Iraq, fra le sue finalità comprende senz’altro anche quella di "legittimare" un ulteriore giro di vite nel disciplinamento più drastico del fronte interno, in tutti quei paesi comunque coinvolti in essa, anche se per ora, magari, su posizioni dilatorie e/o patrocinanti soluzioni di compromesso, alternative alla definitiva deflagrazione di un conflitto, peraltro mai davvero cessato, sin dai tempi della Guerra del Golfo.

Al di là di ciò, al di là del temporaneo riaggiustamento tattico estorto al vaccaro texano dall’impatto con quei milioni di soggetti che ne hanno denunciato l’arroganza feroce e dispotica, interponendosi di fatto fra le sue milizie e il popolo dell’Iraq, resta il fatto che assai probabilmente, fra poche settimane, una nuova tempesta di fuoco si abbatterà su quest’ultimo, e per la quarta volta in dodici anni le potenze occidentali si troveranno direttamente impegnate nel cimento bellico.

Come accennato - ed ormai comunque evidente -, la guerra non è più l’ultima ratio nella risoluzione delle "controversie internazionali", ma è divenuta un elemento strutturale dell’attuale fase capitalistica.

A rendere la guerra parte integrante del nostro presente, sia quando è realmente combattuta sia quando incombe come minaccia reale permanente, è la gravissima crisi di sovrapproduzione di capitali ormai giunta a consolidarsi, su scala planetaria, in forme sempre più difficilmente governabili. Nell’incapacità dell’economia capitalistica di mettere in moto una valorizzazione adeguata alle attuali capacità produttive, la recrudescenza bellica, con il suo inevitabile carico di distruzione di infrastrutture e merci (le vite umane ben poco contano per Monsieur le Capital!), sembra offrirsi come "soluzione finale" per creare un nuovo sbocco altrimenti irreperibile per capitali in cerca di profitti. D’altronde, in una sorta di paradossale circuito virtuoso per il capitale, la stessa gravità della sua crisi va innescando un numero sempre crescente di focolai di conflitto, per l’accaparramento di quelle risorse primarie (in primo luogo le fonti energetiche) dalle quali la sua accumulazione dipende, nonostante la finanziarizzazione e la presunta virtualizzazione di processi e prodotti che hanno segnato la fine del secolo passato.

Da tutto ciò non può che conseguire l’intensificarsi dello scontro tra la potenza tuttora egemonica (gli Usa) e quelle potenze (la Cina, l’asse franco-tedesco, in parte la Russia) che ambiscono a mettere in discussione la leadership statunitense.

E’ ovvio che appropriarsi delle riserve petrolifere irachene serve a ridurre le quote di greggio che vengono da un partner sempre meno affidabile per gli States, come l’Arabia Saudita (alla cui dinastia regnante, per ben "strano paradosso", è legato lo stesso Osama Bin Laden). Inoltre, tale passaggio si colloca nell’ambito di una strategia generale, volta anche all’indebolimento dell’Opec nel suo complesso: non è casuale, infatti, che gli Usa stiano pesantemente intervenendo nelle dinamiche interne del Venezuela, nonché premendo per la fuoriuscita da quel cartello della Nigeria, entrambe importanti produttrici di petrolio (per non parlare della perdurante occupazione manu militari dell’Afghanistan, evidentemente mirata al controllo delle "vie dell’oro nero", trasversali al continente euro-asiatico).

Ma ciò non toglie che sia individuabile anche un ulteriore significato di questa nuova insorgenza guerresca, indirizzata con furbesco quanto strumentale pretesto contro la pur certo fetida figura di Saddam: tale guerra, infatti, è diretta in buona sostanza anche contro l’Europa, nel momento in cui si determinano le condizioni per cui - in prospettiva - il Medio Oriente si potrebbe configurare come una regione interna all’area valutaria della Unione Europea.

La guerra preventiva del solito vaccaro texano, pertanto, non agisce solo contro l'emergere di potenze regionali, ma anche al fine di evitare che altri soggetti giungano a competere alla pari con gli USA sullo scenario mondiale.

Se dunque, nella regolazione delle relazioni economiche internazionali, stiamo di fatto assistendo a un nuovo protagonismo degli stati, quali depositari dell’uso della forza, il problema non può essere quello di "ritornare alla politica", in quanto strumento di regolazione dei conflitti. Tanto più se tale istanza si va a configurare come sostegno all’opera di mediazione di organismi sovranazionali, come la tanto invocata Onu, o alla attività di qualche tribunale internazionale per i diritti umani. Gli organismi sovranazionali, infatti, sempre più si palesano per quello che sono: il luogo dove le diplomazie dei diversi poli economici (statuali o regionali) affilano le armi per avere l’avallo alle proprie politiche o per negarlo a quelle degli altri. Una sorta di camera di compensazione insomma, certamente poco interessata a gettare le basi per l’avvento di una civiltà planetaria legata alla garanzia dei diritti umani ed al rispetto per tutti delle regole della convivenza fra stati (e pensare che c’è stato un tempo, sino a non molti mesi fa, in cui una parte cospicua della sinistra "critica" - e non - trovava chic dar credito a quei buontemponi che amano parlare di Impero!?!). Una camera di compensazione sempre più inefficace, soprattutto dopo il venir meno del bipolarismo e dell’equilibrio del terrore (in specie nucleare), che nel dopoguerra avevano consentito un ruolo di mediazione dell’Onu.

La crisi economica generalizzata, d’altra parte, ostacola fortemente ogni forma di compromesso. Ormai c’è ben poco da spartirsi: il gioco a somma positiva, caratteristico della concorrenza capitalistica nel ciclo accumulativo ascendente del dopoguerra, è diventato un gioco a somma zero (se non negativa) nella fase attuale.

L’Onu rischia dunque di diventare definitivamente un ferro vecchio; anche perché, nella logica della politica di potenza statuale, i compromessi sono necessari solo quando si dà un qualche bilanciamento fra le forze in campo, ma non trovano spazio in una situazione come quella attuale, dove lo squilibrio politico-militare, a favore della potenza egemonica, risulta pesantissimo.

Ciò nonostante, a tale strapotere non corrisponde un equivalente predominio sul piano economico degli Usa, che, in realtà, sono un colosso con vistose crepe: essi, infatti, stanno cercando, per dirla con Tacito, di "fare un deserto per chiamarlo pace", al fine di garantire uno sbocco ai propri capitali, mentre, sul piano dell'egemonia finanziaria a livello planetario, l'Euro sta diventando moneta sempre più riconosciuta ed adottata negli scambi internazionali.

E' vero che l'Ue non dispone (ancora) di un proprio esercito ed è attraversata da profonde lacerazioni. Ma ciò non basta a rassicurare una potenza in crisi, dal momento che Francia e Germania, insostituibili motori della costruzione europea, con la netta presa di posizione contro la guerra sono uscite allo scoperto, spingendo gli States ad adoperarsi per dilacerare la stessa Ue.

Per questo la campagna contro l'"asse del male" si può ragionevolmente considerare come momento basilare di un conflitto che non possiamo che definire come interimperialistico, con buona pace di chi, come il Totonno Negri, ha parlato sino a ieri di un "Impero" sostanzialmente progressivo e pacificato (sia pur turbato da sporadiche lamentele dei "vassalli", fra cui si includevano anche Francia e Germania). Un conflitto di cui dobbiamo attentamente analizzare le manifestazioni, ma senza mai schierarci per l’uno o per l’altro dei contendenti: ciò, anche se è assolutamente scontato che il primo e più potente nemico in questo momento sono gli Usa, e che in questo contesto possono far gioco le prese di posizioni pseudo-pacifiste dell’asse franco-tedesco.

Ciò detto, non si può indugiare sul falso dilemma americanismo/antiamericanismo, né scambiare le pur indispensabili considerazioni geopolitiche per una fantomatica "politica di classe", di nuovo e sempre appiattita nel suicida abbraccio con qualsivoglia "nemico del proprio nemico" ... per quanto esso pur possa risultare repellente! Va invece raccolta e fatta vivere, nella quotidianità delle lotte, l'indicazione di porre sotto costante osservazione le mai sopite tendenze imperialistiche di casa propria, le cui malefatte non possono essere sottaciute neanche in un contesto come l’attuale, segnato dalla debordante protervia americana. E ciò, soprattutto, al fine di non lasciar alcun margine di ascolto alla sirena di un europeismo ammantato di ingannevoli illusioni democraticistiche, rispettose di un ipotetico futuro "ordine mondiale delle regole" (in tal senso vale la pena di demistificare quegli editoriali de "il manifesto" e di "Liberazione" che ancorano la scelta "pacifista" franco-tedesca, non solo ad interessi materiali, ma anche ad un presunto principio di superiore civiltà dell’Europa). A smentire siffatta retorica, si consideri l'attuale aggressivo colonialismo francese in Africa (che si concretizza in un intervento militare in quella Costa d’Avorio, ove da poco è stato rinvenuto petrolio "di qualità"), o il decisivo contributo della Germania al massacro delle popolazioni balcaniche (compiutosi in nome dell’allargamento dell’area del marco e della conseguente necessaria disgregazione della Jugoslavia): questi esempi confermano ulteriormente come l’obiettivo di un’Europa democratica e pacifista sia solo una chimera.

D’altro canto, si palesa come assolutamente inverosimile anche un altro obiettivo: quello dell’"Europa sociale". Se l'Unione Europea - come preconizza la stessa sinistra "critica e alternativa" - vuole pesare sulla scena internazionale, essa deve dotarsi di "cannoniere". Il che porta con sé un vertiginoso aumento delle spese militari per recuperare il gap tecnologico con gli States: ossia una riduzione ulteriore, da parte degli Stati della Ue, dei capitoli della spesa pubblica legati alle politiche sociali. Altro che welfare europeo!?!

Come si è visto in apertura, la politica all’interno del territorio nazionale va da tempo perdendo la propria capacità di generare consenso e di coinvolgere i cittadini nella formulazione delle decisioni pubbliche, tramite i meccanismi rappresentativi (morte della politica), e si riduce di conseguenza, in maniera sempre più evidente, a mera gestione del monopolio della forza, in altre parole a repressione e a politica di potenza (politica della morte).

Da questo punto di vista, la guerra può oggi essere intesa, a un tempo, come rivelatrice delle tendenze consolidate di fase e strumento ormai "normale" di risoluzione temporanea dei problemi connessi alla forma statuale capitalistica, oggi predominante. Ciò nel senso che uno Stato che non media né canalizza le spinte contestative nelle proprie istanze rappresentative, può correre il rischio di generare conflitti sociali sempre più radicali. Un rischio che l'evento bellico, che pur radicalizza la tendenza all’autonomizzazione della politica dalla sfera sfera della gestione/compatibilizzazione dei bisogni sociali, esorcizza attraverso la creazione del "fronte interno". Infatti, in occasione di ogni guerra, più insistito diviene, da parte dei media e delle compagini governative, il richiamo alla "pace sociale", alla concordia interna di fronte al nemico esterno che minaccia il nostro ordinamento o, secondo la retorica che segna sin dalla sua genesi l'"operazione guerra infinita", il modello economico, sociale e culturale occidentale nel suo complesso.

Ora, venendo allo specifico italiano, va notato che tale irrinunciabile necessità di creare un "fronte interno" incontra per ora dei limiti legati al fatto che il padronato non è compatto attorno all'opzione bellica. Alcuni settori dell'imprenditoria italiana, economicamente legati al carro franco-tedesco o propositori di una linea autonoma di intervento nel Medio Oriente, portano avanti - anche attraverso i propri media - una posizione critica nei confronti della guerra all'Iraq prossima ventura. Salvo poi far passare, dietro la cortina fumogena di questo pacifismo dell’ultima ora - e con ritrovata unanimità -, una manovra legislativa di definitivo smantellamento delle residue garanzie giuridiche di quel "lavoro" che, vedi caso, non ha mai cessato di essere considerato come la principale trincea in cui sempre si rigenera il "nemico interno".

Ma se la propaganda di guerra può sembrare meno forte che nel recente passato, ciò non toglie che emergono con estrema forza il richiamo ricattatorio alla salvaguardia manu militari della "pace sociale" e l’esplicita volontà di criminalizzazione di qualsivoglia espressione di conflittualità non rispettosa di tale inviolabile "tabù" (come rivelano anche recenti affermazioni del ministro Pisanu, evidentemente dimentico di quell’inviolabile diritto di sciopero che la carta costituzionale sancisce, a formale quanto ipocrita riprova di quella ineludibile dialettica di classe che non può non articolarsi dentro il corpo sociale di una repubblica che si pretende "fondata sul lavoro").

E fortissima rimane l'attenzione repressiva nei confronti dei settori più radicali del movimento contro la guerra: quelli che meno possono essere recuperati ad un’ottica di piatto sostegno alla linea europeista o al misticismo pacifista.

Lo scenario che abbiamo di fronte, dunque, presenta da un lato elementi inediti (come l’esplicita contrapposizione tra gli Usa ed un'altra potenza, rappresentata dall'asse franco-tedesco), dall'altro, momenti di continuità con le guerre precedenti.

Uno scenario che impone, prioritariamente, la solidarietà attiva nei confronti di tutti i soggetti colpiti dalla repressione e la riconferma di una categoria irrinunciabile per chiunque si batta per trasformare l'esistente: quella del diritto alla resistenza. Diritto che, in un contesto di guerra, vuol dire in primo luogo un’opposizione al conflitto che sappia far vivere la stessa energia espressa nei grandi appuntamenti metropolitani di massa, anche in quegli ulteriori passaggi mobilitativi che saranno necessari, nell’eventualità di un effettivo scatenarsi dell’attacco contro l’Iraq, includendo anche le basi militari e, in generale, i luoghi e i gangli attraverso cui si articola concretamente la "politica della morte". Sino all’ineludibile momento dello sciopero generale europeo (e tendenzialmente mondiale), come azione diffusa di resistenza alla militarizzazione di infrastrutture e luoghi produttivi, e all’assoggettamento della società alla logica bellica, vera saldatura tra le materiali rivendicazioni sui bisogni quotidiani e l’"eticità" coscienziale del rifiuto della guerra.

Ma anche diritto che, in seconda istanza, si traduca nell’autodifesa rispetto alla repressione ovunque essa si dispieghi, soprattutto in quei cortei pacifici ma non pacifisti, dove l'apparato repressivo - colpendo eventualmente i manifestanti - riveli la continuità tra la violenza esercitata all'esterno e quella rivolta all'interno: due inestricabili aspetti dell'uso della forza da parte dello stato.

Riproporre i luoghi concettuali sin qui tematizzati, e il relativo impianto categoriale, crediamo sia oltremodo necessario al fine di creare un argine contro il tentativo di normativizzare/compatibilizzare il "movimento", portato avanti in primo luogo dalla cordata politico-mediatica "De Benedetti/Scalfari", con l’intento di omologarlo al "girotonTismo" e ancorarlo all’Ulivo rinato nel nome del dialogo col sociale. Non può esser solo istintivo, legato all’impeto antibellicista, il rifiuto delle linee-guida proposte al movimento contro la guerra, da "La Repubblica" e da "Micromega". Né può prescindere dalle argomentazioni sin qui articolate un’opposizione coerentemente radicale al tentativo di costoro, di fare del "popolo del 15 febbraio" (denominato non a caso <> da Eugenio Scalfari) un caposaldo per il definitivo lancio di una autonoma politica dell’Unione Europea sullo scenario internazionale. Così come, non si può non evidenziare il nesso profondo fra il cosiddetto giustizialismo in chiave interna, della "sinistra di governo", e l’ipotesi di una cultura "delle regole" a livello planetario.

Il che poi rimanda - su scala interna -, alla promozione/imposizione di una pace sociale che passi per una via diversa da quella battuta dal governo di centrodestra, tramite il ricorso ad un diritto uguale per i diseguali in grado di giungere comunque, ma in modo formalisticamente inappuntabile, alla criminalizzazione di qualsiasi infrazione dei codici, di qualsiasi lotta sociale non rispettosa dei limiti prestabiliti, nel suo concreto svolgimento; e su scala planetaria, invece, ad una considerazione paritetica degli oppressi e degli oppressori, alla rimozione della questione dei rapporti di forza, sino alla pretesa - tanto per esemplificare - che lo stato di Israele e gli organismi della lotta popolare palestinese debbano abbandonare le "opposte violenze".

Ma per far vivere queste istanze critiche dentro il movimento in atto, per portare avanti all’interno di questo l’opzione comunista, è necessario che le forze anticapitalistiche dell’antagonismo sociale e del sindacalismo di base e/o autorganizzato assumano la grande esperienza del 15 febbraio come una sorta di irreversibile "giro di boa": esse, in tale giornata hanno oggettivamente corrisposto all’imprescindibile indicazione che proveniva da quella marea di individualità fattesi protagoniste di una ripresa di parola che nessuna censura mediatica e/o partitica avrebbe potuto in alcun modo né tacitare né surdeterminare. Hanno finalmente in qualche modo intuito che dentro quella "massa comunitaria" svaniva (ammesso che ne avesse mai avuto uno!) il senso stesso di una qualunque forma di separatezza da organismo politico in sé conchiuso e presuntivamente autonomo dal contesto. Lì dentro, in quel momento embrionalmente fusionale e allusivo di un soggetto collettivo in formazione, esse hanno saputo cogliere che si poneva l’obbligo, per loro, di accantonare le proprie esigenze di autorappresentazione (esigenze che sarebbero state peraltro frustrate dalla realtà dei fatti, visto che anche gli "spezzoni più tozzi e combattivi", per quanto magari nutriti e vivaci, tendono inevitabilmente a scomparire nella marea di milioni di individui non inquadrabili in alcun settore politicamente "etichettato").

Dal 15 febbraio, dunque, oltre la definitiva assunzione delle suddette modalità di interrelazione con i grossi momenti mobilitativi, quale dato paradigmatico irreversibile del proprio agire politico, il problema reale che si pone sul tappeto per la componente anticapitalistica del "movimento", è quello di riuscire a stare dentro questa specifica drammatica emergenza antibellicista, senza isolarsi in una suicida pretesa di "purezza ideologica", ma senza nemmeno disperdere alcunché della propria specificità propositiva, sul piano dell’analisi critica di fase, delle parole d’ordine, degli obiettivi di lotta, e soprattutto dell’ormai indilazionabile processo di ridefinizione complessiva di una teoria e di una pratica comuniste, dall’interno di quella dialettica sociale ormai irrefutabilmente riattivatasi su scala planetaria, dopo lunghi decenni di passivizzante atomismo.

La componente anticapitalistica dovrà quindi saper agire come istanza di contaminazione nelle piazze, fluidificandosi dentro quelle masse che di corteo in corteo, in un percorso certo lento e contraddittorio, vanno articolando un processo di autocostituzione in soggetto collettivo.

E naturalmente, a questo nuovo modo di agire nelle dimensioni di massa, dovrà sapersi agganciare la definizione di luoghi di dibattito dove finalmente principiare la ridefinizione di un’opzione comunista adeguata all’attuale sfida imposta da "Monsieur le Capital".

Se la loro pace è fatta di guerra e morte,
la nostra scelta non potrà che essere lotta di classe per la vita vera!


16 febbraio 2003


Il Comitato di Quartiere "Alberone" g.dubaldo@tiscalinet.it
La redazione di "Corrispondenze Metropolitane" cmetropolitane@yahoo.it
La redazione di "Vis - à - Vis" karletto@rm.ats.it

Comitato di Quartiere "Alberone","Corrispondenze Metropolitane","Vis - à - Vis"

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