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Ecce Italia

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(15 Novembre 2010) Enzo Apicella
Continua la protesta degli immigrati bresciani sulla gru contro la sanatoria truffa

Tutte le vignette di Enzo Apicella

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    (L'unico straniero è il capitalismo)

    L’inferno dei migranti e il paradiso della borghesia

    (6 Maggio 2008)

    Nina ci vogliono scarpe buone
    pane e fortuna e così sia
    ma soprattutto ci vuole coraggio
    a trascinare le nostre suole
    da una terra che ci odia
    ad un'altra che non ci vuole.

    Proprio sul filo della frontiera
    commissario ci fai fermare
    ma su quella barca troppo piena
    non ci potrai più rimandare
    su quella barca troppo piena
    non ci potremo mai più ritornare.


    (da “Pane e coraggio” di Ivano Fossati)

    Il passato: l’emigrazione italiana
    Fin dalla formazione dello stato unitario la borghesia italiana è vissuta sulle spalle dei migranti. Allora l’Italia era un paese di emigrazione. La crescita demografica rapidissima, al nord come al sud, la mancata riforma agraria, il peso fiscale che gravava soprattutto sui poveri, provocarono un crescente spostamento verso la Francia, la Svizzera, l’Inghilterra, la Germania, e ancor di più verso le Americhe. Grazie principalmente alle rimesse degli immigrati, che lo stato mandava allo sbaraglio, nell’età giolittiana la lira italiana faceva aggio sulla sterlina e sull’oro. Intorno al 1875, gli italiani che ogni anno emigravano erano circa 100.000, nel 1901 mezzo milione, nel 1913 872.000. Poi la borghesia preferì utilizzare come carne da cannone i giovani proletari o contadini, nei due macelli imperialistici mondiali.

    Nel 1914 gli italiani all’estero erano circa 6 milioni, contro 35 milioni in Italia. Ancora nel 1876 l’ottantacinque per cento dell’emigrazione partiva dal nord, poi, con la crisi agricola, quella meridionale divenne una vera fiumana. La borghesia sapeva che con questo esodo si allontanava la possibilità della rivoluzione, e lo favorì con tutti i mezzi. Le compagnie di navigazione, che lucravano sul trasporto degli emigranti, provvedevano direttamente a informare sulle richieste di lavoro all’estero.

    Questi dati sono tratti dalla vasta documentazione sull’emigrazione italiana fornita da un sito basato sulle ricerche di Gian Antonio Stella (1), dove si possono trovare statistiche, grafici, indicazioni importanti sull’emigrazione italiana. Nella tabella complessiva, riguardante il periodo 1876/1976, si vede che la regione che ha dato maggior apporto all’emigrazione è il Veneto, con 3.300.000 espatriati, seguono Campania (2.700.000), Sicilia (2.500.000), Lombardia (2.300.000), Friuli (2.000.000), Calabria (1.900.000). Nessuna regione manca all’appello.

    Le canzoni della nostalgia
    La nostalgia non è, nella sua accezione originaria, quel sentimento indefinito che si ritrova in certe poesie tardo – romantiche, ma è il “dolore per il ritorno” (da nostos ritorno, algos dolore), fin dai tempi dell’Odissea. Solo che i nostri emigranti non avevano a che fare con dei e ciclopi, ma con i Calderoli e Borghezio locali, con i burocrati miopi e xenofobi, con le varie mafie che li opprimevano e ricattavano, e cercavano di arruolare i loro figli nelle bande criminali.

    Oggi la stampa borghese tende a mettere in risalto l’incidenza della criminalità degli extracomunitari. E’ vero che nel 2001 il 29% dei carcerati extracomunitari erano albanesi, ma è anche vero che nel 1920 nel carcere di New York il 40% dei detenuti stranieri erano italiani. Molto spesso i politici più reazionari tendono a spaventare l’opinione pubblica agitando il pericolo dello straniero malvagio, ieri gli albanesi, oggi i rom e i rumeni, nel 1920 a New York noi italiani.

    Gli italiani di oggi hanno completamente dimenticato questo dramma collettivo, e hanno spesso un atteggiamento ottuso nei confronti di chi viene a lavorare in Italia. Un reminiscenza è rimasta nella canzoni popolari. Non c’è regione d’Italia che non abbia le sue canzoni della nostalgia dell’emigrato, da “Ciao Turin”, alla genovese “Se ghe penso”, a “La porti un bacione a Firenze”, a “Santa Lucia lontana” e “Lacreme napulitane”, solo per citarne alcune. Un canto bellunese dice addirittura: “Andiamo in Transilvania/a menar la carioleta/che l'Italia poveretta/no' l'ha bezzi da pagar”. Come si vede, flussi migratori si possono invertire: l’immigrazione italiana in Argentina è stata gigantesca, ma, durante i periodi di crisi, molti argentini di origine italiana sono tornati nella patria dei nonni. I lavoratori devono seguire il capitale, se si vuole che ciascuno abbia la possibilità di rimanere nel proprio paese, occorre abbattere il capitalismo.

    Questo oblio del passato è stato coltivato ad arte dalla borghesia, per precisi motivi di classe. Qualche notizia e dato sull’emigrazione italiana si trova ancora nei testi scolastici, almeno finché la proposta di cambiare i libri di storia, lanciata da Dell’Utri, non sarà realizzata dal governo Berlusconi.

    “Il 6 agosto del 1906 dal porto di Genova partiva il vapore Sirio, una delle navi più moderne della flotta italiana, con a bordo circa 2.000 emigranti che andavano in America. Il vapore viaggiava a 17 nodi l'ora, una velocità ancor oggi considerevole, e, per abbreviare il viaggio, seguì una rotta molto vicina alle coste spagnole. Il 9 agosto urtò contro uno scoglio che si trovava alla profondità di circa 3 metri e incominciò un lento inabissamento. Il Sirio impiegò venti giorni per affondare definitivamente, ma la paura e la disorganizzazione presero il sopravvento e finirono annegate o disperse circa 300 persone per la compagnia assicurativa, oltre 700 per i giornali dell'epoca.”(2)
    Un tragedia simile a quella del Titanic, rimasta nelle canzoni popolari, ma dimenticata dai media; infatti non c’erano banchieri e milionari, ma soli poveri emigranti, come quelli che oggi solcano il mediterraneo su gommoni stracarichi, e che qualche caritatevole cristiano vorrebbe affondare a cannonate.

    La migrazione dal sud d’Italia. La ribellione dei giovani operai: Piazza Statuto
    Nel dopoguerra, la borghesia utilizzò la manodopera meridionale nei lavori più pesanti e meno pagati. I padroni pensavano: questi operai vengono dalla campagna o da città di provincia, sono abituati ad un’atavica povertà, si adatteranno senza fiatare alla vita di fabbrica, non ci saranno scioperi. Gli operai erano costretti spesso a vivere in tanti in una sola camera, come oggi gli extracomunitari, e mandavano parte dei modesti guadagni alla famiglia. La borghesia voleva un esercito di schiavi, e si trovò di fronte a una generazione che condusse gli scioperi più forti, dopo quelli degl’inizi degli anni venti. Il muro tra gli operai settentrionali e quelli del sud, che la stampa borghese cercava di erigere, crollò, e si ebbero una serie di lotte che percorsero tutti gli anni sessanta, per culminare infine nell’autunno caldo.

    A Torino, nel luglio 1962, gli operai erano furiosi con la UIL, che aveva firmato un contratto capestro. In mensa, alcuni dirigenti di quel sindacato, che cercavano di giustificare l’accordo, furono presi a sediate. Nel pomeriggio del 7 luglio, circa 6.000 operai si diressero verso la sede della UIL in piazza Statuto. Un gruppo salì e la sede fu completamente sfasciata.

    Arrivò la celere, con i battaglioni mobili di Novara e Padova, e per 4 giorni si ebbe una vera battaglia tra scioperanti e gli imponenti schieramenti di polizia, nonostante l’azione da pompieri dei sindacati ufficiali e dei politicanti opportunisti. Il Programma Comunista scriveva: “Non era mai avvenuto, nella storia del movimento operaio, nemmeno nei periodi di più vile opportunismo di partiti e sindacati, che gli operai che insorgono contro le sopraffazioni del capitale e dei suoi lacché, e che, ricorrendo all’arma dello sciopero, non dimenticano che questo è appunto un’arma, un’arma di guerra sociale, fossero bollati come “teppisti” e come “provocatori” da quelli che sconciamente pretendono di rappresentarli.”(3)
    Gran parte erano giovanissimi meridionali. Tra i protagonisti della lotta ricordiamo il compagno pugliese Vito Bisceglie, recentemente scomparso.

    Ci furono due processi, 36 imputati per i fatti del 7 luglio, 48 per il 9 luglio e il mattino seguente. Ecco il luogo di nascita dei 36 imputati : Caltanissetta, Foggia, Terlizzi di Messina, Palermo, Biancavilla di Catania, Reggio Calabria, Fasano di Brindisi, Foggia, Siracusa, Treviso, Santa Maria Capo Vetere, Asti; c’erano anche un abruzzese, un calabrese, due piemontesi di montagna (di tutti questi ultimi non sono precisati i comuni d’origine). Il diciannovenne Gerardo Lattaruolo, interrogato se avesse rilanciato contro la polizia candelotti lacrimogeni, dichiarava: “Senz’altro, volevo che provassero anche loro che bell’effetto che facevano.”(4) I 46 del secondo processo erano quasi tutti del sud, salvo nove piemontesi. I giornali padronali li descrissero come giovanissimi, l’aspetto torvo, e l’ormai consueta maglietta a righe, che era diventata un simbolo di una generazione in lotta. Ma le calunnie padronale e di buona parte dei sindacati e degli opportunisti, l‘epiteto di teppisti, non ebbero l’effetto voluto; l’onda lunga della lotta di classe aveva da tempo cominciato ad agire. E alla testa c’erano i giovanissimi, i non qualificati, quelli che i Valletta e gli Agnelli avevano chiamato a Torino, credendo di farne dei robot obbedienti. I turpi tentativi della borghesia di creare guerre tra poveri, mettendo gli operai del nord contro quelli del sud erano miseramente falliti.

    Il presente: immigrati, extracomunitari o no
    Veniamo all’oggi. La situazione si è capovolta, e un paese di emigranti, immemore del proprio passato, si è trasformato in un paese di immigrazione. Era inevitabile, data la bassa natalità, dovuta non certo a uno stile di vita edonistico, come sentenziano i preti – come si fa a vivere in modo edonistico se si guadagna 1000 euro al mese? – ma all’incertezza del lavoro e della casa. Date un lavoro sicuro e un’abitazione e vedrete rifiorire la natalità. Gli anni del baby boom erano caratterizzati da condizioni di vita sufficientemente sopportabili dai lavoratori. La presenza degli immigrati è necessaria anche perché certi lavori particolarmente pesanti non sono più accettati dai lavoratori italiani. Pensate all’asfaltatura delle strade, con qualsiasi tempo, con gli operai costretti a respirare i gas che l’asfalto bollente sprigiona. Sarebbe tecnicamente possibile usare macchinari modernissimi, ma il capitale introduce nuovi strumenti solo per fare concorrenza agli alti salari. Quando trova manodopera a buon prezzo, preferisce logorarla in condizioni che ricordano i gironi danteschi. I bassi salari ostacolano il progresso tecnico.

    In Francia, Sarkozy, il nuovo idolo dei reazionari italiani, compresi quelli del PD, sta affrontando questi problemi con i peggiori metodi a cui la borghesia ci ha abituato. I figli degli operai vogliono studiare, prepararsi, acquisire nuove capacità tecniche? Sarkozy provvede tagliando fondi e insegnanti alle scuole dei quartieri popolari, “vuole dissuadere, per mezzo dell’insuccesso scolastico, i bambini delle famiglie operaie dall’intraprendere studi più lunghi, come si era verificato in questi ultimi trent’anni. Vorrebbe offrire ai padroni ragazzi sempre più giovani e sempre meno formati, disponibili per qualsiasi lavoro e per qualsiasi basso salario…”(5)
    Oggi, il problema dell’immigrazione si riproduce su scala più vasta, e la saldatura tra operai italiani e operai immigrati è resa più difficile dalle differenze linguistiche, di religione e di stile di vita. L’operaio straniero combattivo nelle lotte sindacali può essere facilmente allontanato dal paese con un pretesto qualsiasi, dalla mancanza di un timbro sui documenti fino all’accusa infondata di terrorismo. Molti operai italiani vedono negli immigrati concorrenti che portano via il loro lavoro. Questo antagonismo tra operai italiani e immigrati è il vero segreto della potenza della borghesia. Il muro da essa creato deve crollare, come avvenne nel ‘62 a piazza Statuto. E’ interesse immediato e permanente dei lavoratori italiani superare questa frattura, mandando a gambe all’aria i professionisti delle guerre tra poveri. Le campagne contro gli immigrati, prendendo come pretesti alcuni delitti, come se gli italiani fossero tutti angioletti, servono a blindare sempre più lo stato. I lavoratori che appoggiano queste repressioni si forgiano da soli le proprie catene. Se non ci si schiera con i propri compagni di classe, anche se parlano un’altra lingua e hanno la pelle di un colore diverso, ci si allea, lo si voglia o no, con i padroni. Per liberare la classe operaia italiana è indispensabile sbaragliare la reazione contro gli immigrati. L’emancipazione degli operai italiani non può avvenire se sotto di loro c’è un settore ancora più privo di diritti, si pensi alla situazione di rabbiosa impotenza dei bianchi poveri negli Stati Uniti del sud, al tempo in cui i neri avevano ancor meno diritti di oggi.

    I lavoratori non possono, ad un tempo, lottare per emanciparsi ed impedire l’emancipazione di altri compagni di classe, venuti da altri paesi. Altrimenti si cade nello stato di esaltazione demenziale che politici astuti suscitano nei militanti della Lega, che plaudono quando un dirigente, probabilmente reduce da una “bevuta scitica”, parla di 300.000 fucili ancora caldi.

    Accettare la repressione contro gli immigrati vuol dire accettare la militarizzazione del territorio, impaurire la gente, che si chiude in casa. Gli allarmi sono periodici: c’è la paura dell’idraulico polacco che viene a portar via il lavoro, poi i lavavetri, poi i rom. I veri criminali sono quei politicanti che speculano sugli allarmi e capitalizzano la paura. Non sono migliori degli speculatori che fanno salire il prezzo del pane e della pasta. Mentre lavoratori incoscienti portano avanti questa polemica contro gli immigrati, la borghesia ha le mani libere, e le usa per ridurre ancora di più i diritti. La Lega sta riproponendo le gabbie salariali, un residuo di un paleocapitalismo che credevamo per sempre archiviato. E le ronde? Noi vorremmo un altro tipo di ronde, ronde proletarie, che non se la prendessero con gli immigrati, ma che girassero le fabbriche e portassero in galera i padroni che approfittano della clandestinità per ricattare e sfruttare bestialmente gli immigrati, e che si oppongono al riconoscimento legale per paura di perdere i loro criminali vantaggi, come i medici dal cucchiaio d’oro si opponevano all’aborto legalizzato. O che dessero una dura lezione a quei proprietari di appartamenti che, con i loro affitti spropositati, costringono dieci o dodici immigrati a dormire in una sola stanza. Sono questi volgarissimi sfruttatori ed evasori fiscali i “clandestini” da mandare in galera!

    I lavoratori che hanno coscienza di classe devono familiarizzare con gli immigrati, aiutarli a imparare l’italiano e a destreggiarsi nel labirinto della burocrazia, con l’aiuto di avvocati senza pregiudizi, e, se sono giovani e capaci di imparare in fretta, studiare le loro lingue. Si pensi all’enorme ricchezza culturale che può derivare dalla conoscenza dello spagnolo o dell’arabo.

    L’emetica propaganda leghista o fascista, e pure una certa stampa sedicente indipendente, seminano menzogne sui musulmani, sui rumeni ecc., dedicano titoloni ad ogni reato compiuto da extracomunitari e tacciono sullo sfruttamento bestiale al quale la maggior parte di essi sono sottoposti, o i reati commessi da italiani contro gli immigrati. Mentre del ritrovamento dei cadaveri di tre giovani donne rumene, chiuse in sacchi della spazzatura, si parla come di normale routine malavitosa. Le solite storie di prostituzione, i soliti magnaccia vendicativi...

    Un paese che ha pregiudicati in parlamento, che ha lasciato prosperare Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta, Sacra Corona unita, mentre le truffe si consumano ogni giorno indisturbate, soprattutto a danno di vecchi ed extracomunitari, non può pretendere d’insegnare morale e diritto a chi viene dall’estero.

    La classe operaia italiana non può far risalire i propri salari, che sono ai livelli più bassi dell’Europa occidentale, e riconquistare un peso nella vita politica, se non trova l’accordo con gli immigrati.

    Abbiamo numerosi esempi storici, e il più antico è quello della borghesia inglese dell’ottocento, che fece leva sul contrasto tra operai inglesi e irlandesi per spezzare la forza di tutti i lavoratori dell’intera Gran Bretagna. Marx disse che le lotte dei lavoratori inglesi non potevano avere successo se essi non lottavano per la libertà degli irlandesi. Un popolo che domina un altro popolo sviluppa in sé il militarismo, che finisce col rendere impossibile la libertà della madrepatria.

    Appartenere alla schiera dei lavoratori, statisticamente intesa, di per sé non significa molto. Il proletariato è rivoluzionario o non è nulla, disse Marx. Solo chi lotta perché le cose cambino è un degno rappresentante della classe operaia.

    Nel loro stesso interesse gli operai italiani devono chiedere la parità degli immigrati. Ad uguale lavoro, uguale salario. L’emancipazione dei lavoratori non può fare alcun passo avanti, se ci sono settori della società che sono discriminati.

    C’è uno scritto in Internet che dimostra l’ignoranza, l’insensibilità, il livido odio verso il diverso da parte della burocrazia italiana. E’ un dramma in un atto, composto sulla base di testimonianze di musulmani interrogati in questura dopo la loro richiesta di ottenere la cittadinanza italiana.(6)
    Occorre lottare perché, chi vuole, possa ottenere la cittadinanza italiana, perché chi nasce in Italia sia per ci stesso considerato italiano. E’ assurdo che chi nasce nel nostro paese, studia in Italia, e molto spesso conosce soltanto l’italiano, possa essere respinto al confine dopo un viaggio nella terra dei genitori. Gli immigrati residenti in permanenza devono avere il diritto di voto, non solo per le elezioni locali. Bisogna smilitarizzare i rapporti degli immigrati, se ne devono occupare i comuni, non le questure. Se verranno riconosciuti come lavoratori, e non come intrusi e potenziali criminali, potranno dare un immenso contributo alle lotte dei lavoratori italiani, e aiutarli a scuotere il giogo borghese

    Note
    1) Gian Antonio Stella “Siamo tutti emigranti”, “L’orda: quando gli albanesi eravamo noi”. Dal 1876 al 1900 ci fu una prevalenza assoluta dell’emigrazione dalle regioni del nord, dal 1900 al 1915 passò in testa la Sicilia, dal 1916 al 1942 prevalse il flusso da Piemonte e Lombardia, dal 1946 al 1961 il Veneto.
    2) Maurizio Targa “ Canzoni migranti” emigrazione, Quando eravamo extracomunitari.”
    3) “Evviva i teppisti della lotta di classe! Abbasso gli adoratori dell’ordine costituito!”, in “Il Programma Comunista”, n. 14, 17 luglio 1962.
    4) Renzo del Carria, “Proletari senza rivoluzione”, vol. V (1950 -1975)
    5) “ Sarko, sei spacciato, la gioventù è in piazza”. Editoriale del bollettino di fabbrica "L’Etincelle" pubblicato dalla frazione di minoranza di Lutte Ouvrière – 7 aprile 2008. Sul nostro sito.
    6) "Lei dunque vorrebbe diventare cittadino italiano?" di hrp, “ Dramma in un atto di un immigrato in Questura” Questo testo è stato ricostruito sulla base di molte testimonianze di musulmani e musulmane che hanno affrontato il colloquio per la concessione della cittadinanza. islam-online


    04 maggio 2008

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