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Fiat voluntas Usa

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(24 Settembre 2012) Enzo Apicella
Nel suo discorso all'Unione Industriale di Torino Marchionne addossa le colpe della crisi Fiat all'Italia che non si libera dalle zavorre.

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Un grave errore non sostenere lo sciopero del 12 dicembre

(30 Novembre 2008)

Avevo letto con compiacimento che CUB e RdB avevano di fatto – e in piena autonomia – appoggiato lo sciopero proclamato dalla CGIL per il 12 dicembre. Neppure il tempo di assaporare la piacevole e inaspettata sorpresa ed è arrivata, puntuale, notizia di una lacerante contraddizione che vanifica ogni speranza ottimistica e rigetta ancora più indietro la situazione: ogni illusione che schematismo e minoritarismo gruppettaro stessero per esaurirsi e lasciare il posto – finalmente – alla politica, tramonta nuovamente.

Per di più, invece di tentare di ricomporre la contraddizione attraverso un confronto politico – semmai anche pubblico e di massa –, si è scelto, come nella migliore tradizione dell’intolleranza e dell’autoreferenzialità, di lavare i panni sporchi e di sciorinarli – più sporchi di prima – sulla pubblica piazza. Sconfessando unilateralmente la decisione già assunta e rendendo di pubblico dominio la frattura, con il sostegno della RdB – che in tal modo prende le distanze dalla CUB e disvela la fragilità politica di certi processi “unitari” –, «…tre dei sei Coordinatori nazionali CUB comunicano che non tutte le organizzazioni aderenti parteciperanno allo sciopero generale indetto dai sindacati di base per il 12/12 in concomitanza con quello della CGIL». Paradossale – addirittura grottesca – è la motivazione… “politica”: «Secondo i tre Coordinatori nazionali il 12 dicembre si terrà uno sciopero a difesa della Cgil, e per sostenere lo scontro politico in atto tra opposizione e governo, che nulla ha a che vedere con le reali esigenze di lotta dei lavoratori per non pagare la crisi in atto e non è a sostegno della piattaforma su cui centinaia di migliaia di lavoratori sono scesi in piazza nello sciopero generale del 17 ottobre».

Immagino che Bonanni e Angeletti abbiano offerto da bere ai loro amici per festeggiare, e che Epifani, lungi dal rammaricarsi per la defezione intervenuta nelle sue linee di “difesa”, abbia tirato un respiro di sollievo, mentre la Marcegaglia e il nano di Arcore stiano ancora gongolando.

Cerchiamo, a questo punto, di capire: a) che cosa abbia motivato la CGIL a proclamare lo sciopero del 12 dicembre; b) che cosa abbia indotto il sindacalismo di base a fare altrettanto e, non a caso, nella stessa data; c) che cosa abbia spinto una parte di questo sindacalismo di base a sconfessare e dissociarsi dall’altra sua parte tacciandola, più o meno, di imbecillità o tradimento.

Il primo quesito – quello più importante, su cui si incardinano gli altri due – ha due spiegazioni, diverse ma strettamente connesse: 1) l’evidente collateralismo della CGIL al PD; 2) le ancor più evidenti contraddizioni interne al più grande sindacato italiano. Non cogliere una delle due, sottovalutare l’una o l’altra, o vederle entrambe ma scollegate, rischia di non far capire niente.

Sia chiaro: non è in discussione il giudizio negativo sulla CGIL e sulla sua deriva concertativa di decenni; né, da chiunque si rifiuti di vivere di illusioni, è ipotizzabile una qualche speranza di un suo recupero a posizioni di classe. Allo stesso modo, quindi, nessuno mette in dubbio il suo collateralismo al PD. Con costoro non c’è nessun compromesso ipotizzabile, non ci sono né tregue né mani tese possibili. Sono, quindi, superficiali e liquidatori – perfino infantili – giudizi che parlano di “difesa” della CGIL e di “sostegno” al PD nel suo scontro con il governo, tanto più che nessuno si sogna di dar ancora credito al PD o, tanto meno, di sostenerlo nel suo improbabile “scontro” con il governo.

Il giudizio su PD e CGIL non cambia, ma questo non vuol dire restare ingessati da questo giudizio e, dunque, da concezioni e metodi immutabili che riducono la politica ad uno schema inutilizzabile che ti lascia fuori della dialettica della società e della storia.

In realtà, anche in questo caso, ancora una volta, si confrontano e si scontrano due concezioni – e due prassi – della politica che vanno ben oltre l’ambito sindacale.

L’una si fonda su certezze assolute, semplici, essenziali; difficilmente apprezza o si apre al dubbio; necessariamente, quindi, autoreferenziale, è costretta ad appagarsi di una purezza ideale che la inchioda ad una persistente marginalità; poco incline a cogliere i sintomi e gli effetti dei cambiamenti che la realtà in movimento continuamente determina, concepisce e pratica la lotta politica esclusivamente come contrapposizione assoluta e, non avendo forze sufficienti per uno scontro frontale in una guerra di movimento, si accanisce testardamente in una permanente guerra di posizione per la quale tuttavia dispone di poche e non munite trincee, e di nessuna casamatta.

L’altra prova ad applicare la lezione del leninismo e cerca di coniugare un grande rigore teorico con la massima flessibilità possibile sul piano pratico; alle essenziali e irrinunciabili convinzioni di fondo affianca il dubbio sul proprio agire come cartina di tornasole e verifica mai autoreferenziale, ma come ritorno alla realtà materiale della società in movimento; salda nelle concezioni e nei metodi non si arrocca nella certezza di trincee obbiettivamente poco difendibili, ma sceglie la guerra di movimento in cui, ancor prima di impegnare le proprie forze – e affinché queste, benché inferiori, possano colpire con efficacia –, opera, prima di tutto, per acutizzare le contraddizioni dell’avversario.

Vediamo di capire meglio come stanno le cose esaminando da vicino la questione e le sue contraddizioni.

Abbiamo detto che non è in discussione il colletarismo della CGIL rispetto al PD: è il retaggio distorto di quel rapporto dialettico – la “cinghia di trasmissione” – tra partito e sindacato, quando entrambi erano organizzazioni di classe. Quindi non è in discussione che la CGIL di Epifani faccia – o, almeno, provi a fare – la sua parte a sostegno di Veltroni e del PD, contro Berlusconi e il governo. Ma Epifani e la sua CGIL non operano a loro piacimento, in un ambiente asettico, da laboratorio, privo di contraddizioni. Al contrario, essi si muovono in un contesto in cui contraddizioni diverse e sempre più acute sono andate accumulandosi per anni, fino a quelle – pesantissime – delle ultime settimane. È singolare – ma significativo – che proprio chi ha meritoriamente contribuito all’acutizzazione e all’accumulo di queste contraddizioni finisca per non tenerne conto. Vediamone qualcuna di queste contraddizioni che impediscono a Epifani di svolgere in libertà il ruolo che gli è stato assegnato. Innanzi tutto il crescente distacco della massa dei lavoratori: sono anni che la CGIL vede diminuire costantemente il numero dei propri iscritti in tutti i luoghi di lavoro, tant’è che – su livelli complessivi sostanzialmente costanti negli anni – i tesserati pensionati sono giunti ad essere maggioranza assoluta. È un fatto incontrovertibile che documenta come tra i lavoratori ancora attivi siano calate implacabilmente la forza di attrazione e la fiducia verso quel sindacato, mentre – per motivi ideologici, per abitudine, per inerzia o per convenienza – restino vive tra i lavoratori anziani non più attivi. Le nuove generazioni di lavoratori hanno ben poca propensione ad aderire: la scarsa o – più spesso – nessuna tutela alle categorie più disagiate e sfruttate del lavoro giovanile, la complicità concertativa nella deregulation del mercato del lavoro o nella definizione delle politiche devastanti sulla precarizzazione, etc. hanno determinato una estraneità dei giovani rispetto al sindacato che oggi preoccupa non poco Epifani e soci. Soprattutto di fronte alla sciagurata ridefinizione dei contratti di lavoro.

A fronte di questo scollamento crescente con la classe, vanno collocati altri tre fenomeni: il cambiamento (apparente) di pelle e lo sdoganamento – subíto senza un battito di ciglia – dell’UGL (ex CISNAL, fascista) che ha ripulito e capitalizzato il dissenso corporativo e “autonomo”; il fenomeno – indigesto – del sindacalismo “padano” della Lega Nord che – per quanto territorialmente limitato ad alcune aree – non pascola soltanto nelle praterie del populismo e del qualunquismo bossiano, ma è alimentato anche dalla delusione e dalla collera – meno salda politicamente – fin nel cuore delle grandi fabbriche; il sindacalismo extraconfederale (o di base) che, per quanto non sia riuscito a strappare l’egemonia ai tre sindacati confederali in nessuna categoria, esiste e resiste da vent’anni ed è ormai una realtà concreta che né Epifani né la CGIL possono permettersi di trascurare. Soprattutto se riesce a mettere in piazza un bel po’ di gente…
E poi, chi non ricorda i fischi di Mirafiori o lo “strappo” – mai sanato – con la FIOM?

Ancora: qualcuno pensa che la sconfitta elettorale del PD – che ha avuto una grave emorragia di voti operai e popolari, solo in parte compensata da quelli sottratti a PRC e PdCI nella catastrofe della “Sinistra Arcobaleno” – non pesi pesantemente sulle scelte di Epifani (e di Veltroni)?

Né vanno sottovalutate le sceneggiate nella vicenda Alitalia: perché la CGIL si sarebbe resa protagonista di funambolismi e torsioni di quel genere? Per intimidire Collanino e Berlusconi? O, piuttosto, per tentare un disperato recupero preventivo di credibilità di fronte ad un accordo tanto sfacciato?

E, quando Tremonti e Gelmini suscitano quel pandemonio nella scuola e nell’università, con mobilitazioni e manifestazioni che attraversano tutta l’Italia (senza che né CGIL né il PD né nessun altro proponga niente di serio e alternativo), c’è da scommettere che l’eco del ’68 – e del ’69 – rimbombi maledettamente nelle orecchie di Epifani (e di tanti altri).

Anche l’estromissione di Epifani – con la connivenza di Bonanni e Angeletti – dagli incontriconviviali di Berlusconi ha pesato.

Infine, per non farla troppo lunga, perché si organizza e – giustamente – si enfatizza la splendida riuscita della manifestazione del 17 ottobre e poi la si dimentica o se ne sottovalutano le conseguenze politiche? Diciamocelo francamente: quella manifestazione serviva solo a mostrare i muscoli e a rinserrare le proprie fila, o voleva avere anche precise ricadute politiche sia perché lanciava un chiaro monito a tutti, sia perché spingeva la situazione più avanti e creava maggiori difficoltà all’avversario togliendogli spazi di manovra?

Se tutto questo è vero, vuol dire che Epifani, quando indice lo sciopero del 12 ottobre, non smette di essere funzionale alle strategie del PD e alla sua “opposizione” al governo. Assolutamente no: la CGIL mantiene inevitabilmente il suo ruolo collaterale al PD. Solo che è costretta a svolgerlo in modo diverso, più cauto e intelligente – o, meglio, furbesco, camuffato – perché è in difficoltà perché tutte quelle circostanze hanno creato al suo interno grandi problemi e contraddizioni e deve assolutamente impedire che esplodano.

Lo sciopero del 12 dicembre, allora, è certamente un modo per fare la faccia feroce (sic!) sia verso il governo – e dare una mano a Veltroni –, sia verso i compagni di merende Bonanni e Angeletti che non si fanno tanti scrupoli ne continuare i loro rapporti concertativi con il governo e il padronato. Ma è anche una maniera di allestire una sceneggiata sul tipo di quella rappresentata per l’Alitalia, solo più in grande perché più grande è la posta in gioco, e, semmai, per strappare qualche miserabile briciola in più, tanto per cercare, almeno, di salvare (?!?) la faccia. Non c’è dubbio che Epifani avrebbe colto (o, ancora, fino all’ultimo, cercherà di cogliere) ogni opportunità per compiere una nuova torsione “di responsabilità e ragionevolezza” – sul tipo Alitalia, per intenderci – riallineandosi, nuovamente scodinzolante, nella più bieca concertazione.

Tutto questo vuol dire, però, che CGIL ed Epifani sono in grande difficoltà e sono obbligati a cavalcare la tigre. E, allora, cosa è meglio: lasciargli recitare tranquillamente il suo copione (semmai lanciando da lontano qualche bruciante insulto o qualche sberleffo), oppure assediarlo da vicino, aizzargli contro gli spettatori e costringerlo ad uno sviluppo della trama aderente il più possibile a ciò che il pubblico si aspetta?

Non avendo forze sufficienti per lanciare e vincere una sfida in campo aperto, quando l’avversario è costretto ad avventurarsi sul nostro terreno, è ancor più possibile e necessario sfidarlo, stanarlo, incalzarlo, non dargli tregua, sfiancarlo fino a costringerlo a fare quello che non vuole o a smascherare il proprio gioco.

Aderire allo sciopero del 12 o, anche – come era stato fatto, del resto –, proclamarne uno con le stesse modalità, mobilitarsi fortemente per prepararlo bene, sarebbe stata la cosa giusta da fare. Questo avrebbe renso molto più difficile ad Epifani e CGIL di fare marcia indietro. E se avessero ritirato lo sciopero, avrebbero dovuto pagare un prezzo altissimo, tanto più che, svergognato il trucco e sgombrato il campo, lo sciopero del 12 avrebbe avuto un marchio e una connotazione di classe. Altro che «sciopero a difesa della Cgil» o sostegno allo «scontro politico in atto tra opposizione e governo, che nulla ha a che vedere con le reali esigenze di lotta dei lavoratori»!

Lo sciagurato comunicato che ha reso palese le profonde differenze all’interno della CUB-RdB è stato un grave errore. Esso ha ridimensionato i roboanti annunci di un processo unitario nel sindacalismo di base, ha gettato un’ombra e ha suscitato dubbi sul grande successo della manifestazione del 17 ottobre, ha mostrato che fragilità, immaturità, minoritarsimo, ideologismo sono ancora ben presenti nel sindacalismo di base, esattamente come nella sinistra “rivoluzionaria” che si candida ad essere alternativa a quella grottesca caricatura che è la sinistra istituzionale.

Come si pensa di poter conquistare la fiducia della classe lavoratrice strappandone l’egemonia al sindacato confederale concertativo offrendo questa immagine di sé e del proprio modo di gestire le contraddizioni e far politica? I lavoratori vogliono sicurezza, vale a dire – prima di tutto – concretezza e unità: non lasceranno mai la vecchia strada – di cui, avendola sperimentata per anni sulla propria pelle, conoscono limiti e nefandezze – se la nuova non è in grado di offrire loro attendibili e concrete garanzie. La lezione di tutti questi anni dovrebbe esser chiara. Pare, invece, che l’attaccamento al proprio “giocattolo” prevalga su tutto.

Non sto ingigantendo il significato di un episodio e di un tipo di contraddizione fin troppo ricorrenti tra le cosiddette “avanguardie di classe”.

Il fatto è che la situazione è in una fase di rapido e radicale cambiamento, e sulla questione sindacale – oggi più che mai centrale per mille motivi – si gioca molto, anche della partita politica. E non per degradare le questioni politiche al livello delle lotte economiche, ma perché per colmare l’abisso di sfiducia scavato in anni e anni nei confronti dei comunisti, della politica e di tutto quello che è antagonista al pensiero dominante e vuole avere una connotazione classista occorre ripartire dalla sensibilità e dal livello di coscienza (effettivo, non da quello da noi presunto) delle masse lavoratrici (e non da quello di sparute avanguardie). Piaccia o non piaccia la sensibilità è oggi quasi esclusivamente relativa alle condizioni materiali di lavoro e di vita. Quanto al livello di coscienza, esso è stato da tempo ridotto, sepolto e imprigionato esattamente nell’economicismo, quando non addirittura nell’egoismo corporativo per responsabilità certamente prevalente – ma non esclusiva – dell’opportunismo politico e del consociativismo sindacale. Il resto lo hanno fatto l’infantilismo e il minoritarsimo.

Per elevare l’attuale livello di coscienza, per farlo riemergere dall’abisso di sfiducia occorre ripartire da proposte estremamente concrete, da obbiettivi che creino unità vale a dire: forza, quindi: speranza e fiducia –, con metodi comprensibili, con percorsi praticabili. Occorre, in breve, che la lotta economica – ben diretta e senza sbavature minoritarie o fughe infantili in avanti – possa esplicare tutto il suo potenziale di scuola politica della classe.

Val la pena, allora, di ripensare ai recenti comportamenti e di lavorare per avviare una comune riflessione che, attraverso una costruttiva autocritica, liberi l’enorme potenziale che è prigioniero di concezioni, metodi e rapporti di un passato che sta rapidamente scomparendo e che può, invece, pienamente dispiegarsi nelle nuove condizioni che la realtà offre e impone.

28/11/2008

Sergio Manes
Centro Culturale La Città del Sole

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