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(27 Novembre 2011) Enzo Apicella

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La crisi: l'interpretazione soggettiva e quella marxista

(1 Dicembre 2008)

L’interpretazione soggettiva è quella che troviamo nella maggior parte dei giornali e nelle dichiarazioni dei politici, e, nella formulazione più classica, nei riformisti, soprattutto quelli “di sinistra”. A prima vista sembra molto plausibile, logica, immediatamente comprensibile. Sarà utile riassumerla nella sua formulazione più tipica.

“La crisi finanziaria sconvolge l’intera economia mondiale e provocherà presto un peggioramento delle condizioni economico-sociali della popolazione di interi paesi, con gravi conseguenze sulla produzione industriale, causando recessioni, disoccupazione, precariato.

Si è permesso che si utilizzassero strumenti finanziari che operavano con una leva finanziaria di 1 a 30, si sono glorificate la finanza creativa e quella virtuale, promettendo facili guadagni e crescenti miglioramenti del benessere. Un inganno criminale. Gli stati hanno propagandato e realizzato politiche economiche ispirate al liberismo sfrenato e hanno esaltato il ruolo degli “Spiriti animali” del mercato. Si è cercato di evitare ogni verifica e ogni controllo, producendo la situazione drammatica e le pesanti ripercussioni odierne, causando una bolla finanziaria e speculativa incontrollabile, pari a 600 mila miliardi di dollari, contro un PIL mondiale inferiore a un decimo di tale cifra, sui 55 mila miliardi di dollari.

I responsabili delle Banche Centrali, delle diverse Consob e lo stesso FMI non hanno denunciato in tempo quello che si stava profilando, nonostante gli allarmanti segnali che giungevano da più parti. Il sospetto di una collusione è naturale.

In sintesi: mancanze di verifiche e di controlli, collusioni, finanza creativa, lodi sperticate all’ultraliberismo, sganciamento totale delle monete e della finanza dalle produzioni reali.

Bisogna chiedere ai governi una sistematica riforma delle normative in campo finanziario, in modo da non permettere più sconvolgimenti di tale natura, e la formazione di organi regolatori internazionali dotati di dispositivi di verifica, controllo e sanzione.”
Questa visione spiega la crisi con la politica economica dei vari stati, con la mancanza di controlli, con la voracità dei lupi di borsa, e, soprattutto, pensa che la crisi finanziaria sia la vera causa della crisi economica generale. E’ la spiegazione più ovvia, naturale e convincente, per chiunque non si basi sugli strumenti di analisi prodotti da Marx. Sembra una fedele rappresentazione della realtà, come un tempo lo sembrò la teoria geocentrica, secondo la quale il sole girava intorno alla terra.

L’interpretazione soggettiva della crisi è una visione capovolta della realtà, perché la radice ultima della crisi va cercata nella produzione. La crisi finanziaria è l’effetto e non la causa, anche se, a sua volta, l’effetto ha riflessi sulla causa.

Questa dottrina soggettiva accetta il mercato, non pensa che debba essere superato, ma soltanto regolato dagli stati, nella beata illusione che questi ultimi, con un oculata politica economica, possano evitare le crisi.

La critica del marxismo
Prima di passare al “Capitale”, leggiamo una lettera di Engels a Conrad Schmidt (1) : “Ai riflessi economici, politici ed altri, accade come a quelli nell’occhio umano: passano attraverso una lente convergente, quindi si rappresentano capovolti, a testa in giù. Solo che manca l’apparato nervoso che li rimetta in piedi per la percezione.

L’uomo del mercato monetario non vede perciò il movimento dell’industria e del mercato mondiale che nel riflesso deformante del mercato del denaro e dei valori, e per lui l’effetto diventa la causa. L’ho già notato a Manchester negli anni Quaranta, per l’andamento dell’industria e i suoi periodici massimi e minimi, le notizie di borsa londinesi erano assolutamente inutilizzabili, perché quei signori volevano spiegare tutto con le crisi del mercato monetario, che invece sono quasi sempre, esse stesse, solo dei sintomi.”
Engels non nega che vi siano crisi prevalentemente monetarie, in cui le perturbazioni industriali giocano un ruolo secondario. Con la divisione del lavoro, c’è l’autonomizzazione del commercio delle merci, del denaro, dei valori. Tra la produzione e queste forme relativamente autonome c’è azione e reazione tra forze ineguali, ma “...la produzione è l’elemento che in ultima istanza decide”. “Come nel mercato monetario si rispecchia nell’insieme – e con le riserve accennate – il movimento del mercato industriale e, naturalmente, capovolto, così nella lotta fra governo e opposizione si riflette la lotta fra le classi già prima esistenti e combattenti, ma anche qui capovolta; non più direttamente ma indirettamente, non come lotta di classe ma come lotta intorno a principi politici, e in forma talmente arrovesciata, che sono occorsi millenni perché ne venissimo a capo”.

Nello sviluppo industriale, una parte crescente del capitale complessivo è formata da materie prime, edifici, materie prime, prodotti (capitale costante), mentre una parte relativamente sempre più piccola è costituita da salari (capitale variabile). Il saggio di profitto tende a cadere, perché le macchine non producono nuovo valore, come sostengono i fautori dell’economia borghese, ma si limitano a trasmettere quello in esse contenuto “pro rata” nei prodotti. Anzi, senza il lavoro operaio, le macchine perderebbero rapidamente il loro valore, sia per l’usura del tempo sia perché economicamente superate. Solo il lavoro umano produce plusvalore, quindi la diminuzione relativa del numero degli operai rispetto ai mezzi di produzione si traduce in un tendenziale calo dei saggi di profitto. Tendenziale perché i capitalisti lottano strenuamente per farlo risalire almeno in parte con vari espedienti, come vedremo.

Anche l’economista Ricardo si rese conto della discesa storica del saggio di profitto, ma, convinto che il modo di produzione capitalistico fosse quello definitivo, ne attribuì la causa alla natura. Marx scrive: “L’horror che essi (gli economisti borghesi) provano di fronte al decrescere del saggio del profitto, è ispirato soprattutto dal fatto che il modo capitalistico di produzione trova nello sviluppo delle forze produttive un limite il quale non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza come tale; e questo particolare limite attesta il carattere ristretto, semplicemente storico, passeggero del modo capitalistico di produzione; prova che esso non rappresenta affatto l’unico modo di produzione che possa produrre la ricchezza, ma al contrario, giunto a una certa fase, entra in conflitto col suo stesso ulteriore sviluppo.”
Abbiamo detto che il calo del saggio di profitto è tendenziale, perché i capitalisti, pur senza riuscire a invertire la rotta, possono ritardarne la marcia. Ecco i mezzi impiegati:
1) Aumento dello sfruttamento del lavoro, col prolungamento della giornata lavorativa, ad esempio con l’aumento degli straordinari, il ritardo del pensionamento, l’intensificazione dei ritmi di lavoro, ecc.

2) La riduzione del salario al di sotto del suo valore. Ad esempio, grazie alla concertazione e alla soppressione della scala mobile, i salari non hanno tenuto dietro all’aumento dei prezzi.

3) Diminuzione di prezzi degli elementi del capitale costante. Per esempio, sostituendo lana e cotone nei tessuti con prodotti sintetici meno costosi. Gli stessi macchinari, carissimi non appena appaiono sul mercato, possono avere forti riduzioni di prezzo quando sono prodotti su scala più vasta. Inoltre – e ne abbiamo serie conseguenze quotidiane in Italia – si risparmia sulle misure di prevenzione, moltiplicando il numero di incidenti, mortali o no, che continuamente funestano le famiglie dei lavoratori.

4) La sovrappopolazione relativa. Poiché si forma sempre nuova disoccupazione, una parte viene impiegata in settori in ritardo, dove i macchinari non hanno ancora spazzato via buona parte della manodopera, e dove i salari da fame consentono ancora saggi di profitto notevoli.

5) Il commercio estero, con una crescita delle esportazioni, come ha saputo fare la Germania, primo esportatore mondiale. Oppure investendo capitali all’estero, facendo leva sui salari inferiori di Asia, Africa, America latina e Europa orientale, costruendo nei paesi in via di industrializzazione nuove fabbriche, oppure procedendo con esternalizzazioni, trasferimenti di intere aziende, ecc.

6) L’accrescimento del capitale azionario. “Una parte del capitale viene calcolata e impiegata unicamente come capitale produttivo di interessi... Questi capitali, quantunque investiti in grandi imprese industriali, come per es. le ferrovie, una volta dedotti tutti i costi, rendono semplicemente degli interessi più o meno considerevoli, i cosiddetti dividendi. Questi capitali non entrano nel livellamento del saggio generale del profitto.”
Gli sviluppi della finanza, quindi, e le speculazioni sui titoli, non avvengono a caso, ma raggiungono il loro culmine quando la produzione non è più in grado di valorizzare i nuovi capitali, che vengono mandati all’estero o impiegati nelle attività finanziarie.

Accumulazione vuol dire impiegare una parte crescente del valore prodotto per accrescere il capitale, e non per il consumo della popolazione. Questo porta ad una sovrapproduzione, che di solito è latente, ma si manifesta periodicamente nelle crisi. Dopo la IIª guerra mondiale, ci fu un lungo periodo senza grandi crisi, perché le immani distruzioni di uomini e di mezzi avevano “ringiovanito” il capitalismo, che ripartì con la ricostruzione, e uno sviluppo particolarmente rapido ebbero i principali paesi sconfitti, Germania, Giappone e Italia, con i loro miracoli economici.

“Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche” –scrive Marx - “Le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami della produzione e dalla capacità di consumo della società. Quest’ultima, a sua volta, non è determinata né dalla forza produttiva assoluta né dalla capacità di consumo assoluta; ma dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica, che riduce il consumo della grande massa della società ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti”.

In altre parole il problema non è l’aumento della produzione, ma la realizzazione. Chi produce veicoli deve calcolare se occorrono camion per le imprese di trasporto, oppure trattori per grandi imprese agricoli, autobus, o automobili. La capacità di consumo della società è condizionata dal rapporto di classe. Se, in seguito a una serie di lotte, i salari crescono, aumenta il consumo di generi di prima necessità; se i lavoratori sono sconfitti, diminuiscono questi consumi, mentre l’aumento dei profitti favorisce i consumi di prodotti di lusso. Il capitalismo non mira al miglioramento del livello di vita delle classi popolari, non vi è quindi alcuna armonia tra le capacità produttive e la capacità di consumo. Anzi, i consumi non seguono le esigenze reali della popolazione, perché spesso vengono imposti consumi inutili, dannosi e antisociali. La radice delle crisi è da ricercare proprio nel mercato. Si producono troppi strumenti di lavoro e di sussistenza perché possano essere impiegati per sfruttare gli operai, troppe merci che non trovano compratori solvibili. Periodicamente avvengono delle esplosioni. La crisi è una riunificazione momentanea e violenta delle capacità produttive e di quelle del consumo. Molte merci deperiscono, si limita la produzione, i prezzi scendono, soprattutto dove non ci sono concentrazioni monopolistiche che cercano di fermarne la caduta.

I capitali disinvestiti durante la depressione serviranno in seguito al rinnovamento dei macchinari, quando si profilerà la ripresa. Questo rinnovamento non è determinato da motivi tecnici o dall’usura delle macchine, ma dal movimento ciclico e dalle esigenze di valorizzazione. Macchinari perfettamente funzionanti sono eliminati, fabbriche che nella fase precedente erano considerati modelli sono ora chiuse perché “obsolete” dal punto di vista della valorizzazione del capitale. Il capitalismo sa utilizzare il lavoro umano in modo molto più produttivo rispetto ai sistemi economico sociali precedenti, ma è insuperabile anche nello sprecare la forza lavoro, condannando una parte della società alla disoccupazione, e un’altra parte a un lavoro logorante, distruggendo macchinari e materie prime in quantità illimitata, nelle crisi e nelle guerre, che sono una parte integrante di questo sistema.

“La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluto della società”.

Il fatto che le crisi finanziarie si sviluppino, dal punto di vista cronologico, prima di quelle della produzione, porta all’illusione che siano esse la causa e non l’effetto, anche se, ovviamente, l’effetto a sua volta reagisce sulla causa, aggravandone le conseguenze.

In questi decenni, in molti paesi dell’occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, i salari reali sono scesi, si è assistito a un reale impoverimento delle masse, e ad una concentrazione della ricchezza in poche fasce privilegiate. Si è cercato lo stesso di accrescere i consumi con la vendita a credito, rate per gli elettrodomestici e le automobili, mutui per le case. La reale capacità d’acquisto di buona parte della popolazione era modesta, col credito si dava a tanti l’illusione del benessere, e intanto li si condannava a una maggiore schiavitù. Chi era carico di rate da pagare difficilmente poteva permettersi di scioperare, e doveva sempre chinare la testa col padrone, perché perdere il lavoro voleva dire perdere tutto. Il debito enorme è nato quindi dal crescente squilibrio tra la capacità di consumo solvibile della popolazione e la capacità produttiva, americana o di paesi esportatori. Su questo debito si è formato un fantasmagorico castello finanziario.

Però la produzione di case, di auto, di elettrodomestici, di computer, restava, sia pure in forma latente, troppo grande per le capacità di consumo solvibile, una sovrapproduzione, che prima o poi doveva venire alla luce, mandando all’aria il castello di cartacce tossiche che si era costruito sulla pelle dei debitori. Lo stato borghese, col pieno avallo di Obama e del suo concorrente Mc Cain, si è dato da fare per salvare, con una cifra che va oltre i 700 miliardi di dollari iniziali, le associazioni di speculatori e usurai che si nascondono dietro i prestigiosi nome di grandi banche e grandi finanziarie, distribuendo qualche elemosina a chi ha perduto la casa, e deve tornare, in pieno XXI secolo, all’uso indiano di vivere sotto una tenda.

Lo stato può cercare di salvare l’aristocrazia finanziaria, ma è assolutamente impotente a governare la crisi, nonostante l’imponente corteo di buffoni di corte e ballerini, che si fregiano del nome di economisti.

I lavoratori e le masse sfruttate possono subire la crisi, salvando ancora una volta il capitalismo, oppure possono reagire, ricostruendo il loro partito e la loro Internazionale su base di classe, rompendo con tutti i riformisti, che propongono pannicelli caldi keynesiani, o pretendono – bestemmiando - di agire in nome del marxismo, mentre in realtà si prodigano per sottomettere i lavoratori alle esigenze del capitale.

29 novembre 2008

Note
1) Friedrich Engels a Conrad Schmidt, 27 ottobre 1890, in “Lettere sul materialismo storico (1889/95, Edizioni Iskra.
* Le citazioni de Il Capitale” di Karl Marx si trovano nel volume III: cap. 15, “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge”, “Considerazioni generali”. Cap. 3 “ Eccesso di capitale e sovrapproduzione” “Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto “, Cap. 14, “Cause antagonistiche”. Cap. 30. “Capitale monetario e capitale effettivo”.

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