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il pane e le rose

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L’importanza, l’ignoranza e la consapevolezza sul boicottaggio verso Israele

(10 Gennaio 2009)

In questi anni ci siamo impegnati nel cercare di promuovere anche nel nostro paese – come negli altri paesi europei – una efficace campagna di boicottaggio dell’economia di guerra israeliana intesa come forma di sostegno internazionale al diritto all’esistenza e alla resistenza del popolo palestinese contro il colonialismo israeliano.

Questa campagna ha avuto alcuni successi (nel 2002 su Auchan e Hazera Genetics, l’anno successivo facendo saltare l’accordo fra l’azienda romana per l’elettricità e l’acqua ACEA e Israele per il furto dell’acqua palestinese e poi nel 2008 alla Fiera del Libro di Torino), ma ha incontrato alcune difficoltà sul piano politico, culturale ed organizzativo. Le polemiche di questi giorni su una iniziativa sindacale che invitava genericamente al boicottaggio dei negozi – scatenando la consueta manipolazione e isteria politico/mediatica a cui siamo ormai abituati e contro cui siamo vaccinati - ci offre l’occasione per rilanciare con maggiore forza e chiarezza una campagna comunque necessaria e che può rivelarsi efficace come lo è stato nel caso del Sudafrica dell’apartheid fino al 1990. E' sempre meglio che tutti coloro che intendono avviare campagne di boicottaggio, si documentino prima adeguatamente e scelgano bene gli obiettivi delle loro campagne.

E’ importante sapere che è attiva a livello internazionale una campagna denominata BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) approvata da una vastissima coalizione di forze progressiste palestinesi ed internazionali – fra le quali citiamo sindacati europei, nordamericani e sudafricani - ma ideata e lanciata sin dal 2001 proprio da una rete di ebrei che lottano contro l’occupazione israeliana della Palestina. Cosa significa e come si articola questa campagna?

1. Boicottaggio significa invitare a non acquistare merci e prodotti provenienti da Israele. In Italia sono caratterizzati dal codice a barre 729. Significa invitare i lavoratori degli scali merci, dei trasporti e della logistica a non scaricare container o merci provenienti da Israele. Significa – solo per fare degli esempi - non farsi prescrivere dal medico o acquistare in farmacia medicinali generici della TEVA, non acquistare elettrodomestici Ocean, non acquistare frutta con il marchio “Jaffa” o "Carmel" e così via, e farlo come atto pubblico, manifestando con questi semplici gesti la propria indisponibilità a rendersi complici della politica criminale dello Stato di Israele. E’ dunque una forma di pressione che non ha nulla a che vedere con negozi o servizi gestiti da cittadini di origine ebraica. Noi appoggiamo il progetto di uno Stato Unico per Palestinesi e Israeliani, nessuna discriminazione è per noi dunque accettabile, nè lì, né qui, né in nessun luogo di questo pianeta.

2. Disinvestimento significa fare pressione sulle aziende italiane che fanno investimenti in Israele con l’obiettivo di far ritirare gli investimenti effettuati o di non prevederne di nuovi perché eticamente inaccettabili in quanto Israele è uno stato che commette crimini di guerra contro un intero popolo, quello palestinese. Recentemente decine di imprese italiane non hanno sentito la pressione di questo dovere etico. Si tratta quindi di scrivere lettere alle direzioni aziendali, volantinare ai cancelli di queste aziende, fare scritte nei dintorni delle aziende, mettere in sostanza in moto un processo di “pubblicità negativa” che renda problematico o addirittura svantaggioso l’investimento. C’è un lungo elenco di queste aziende che non appartiene a nessuna “black list” ma che è disponibile sul sito del Ministero del Commercio Estero (oltre che sul sito del Forum Palestina che da quest’ultimo lo ha rilevato ed è a disposizione).

3. Sanzioni. Questa è una misura di ritorsione legale verso uno stato come Israele (o come altri) che commette crimini di guerra e che attiene alla responsabilità dei governi e delle istituzioni internazionali. Queste sanzioni possono adottate singolarmente da ogni governo o a livello multilaterale. La revoca degli accordi di cooperazione militare Italia-Israele o degli accordi economici, commerciali, tecnologici tra enti locali, università, centri di ricerca italiani ed israeliani, la sospensione del Trattato di Associazione Commerciale tra Unione Europea ed Israele (sanzione votata già dal Parlamento Europeo nell’aprile del 2002 ma mai applicata), sono degli esempi di sanzioni che l’Italia dovrebbe e potrebbe adottare se l’intera filiera politica-istituzionale nazionale e locale non fosse subalterna alla complicità con Israele. Chiaramente la mancata adozione di sanzioni contro Israele da parte delle istituzioni preposte non può che mettere in movimento delle “sanzioni dal basso” che prevedono appunto il boicottaggio dei prodotti israeliani e le pressioni per il disinvestimento delle aziende italiane dal mercato israeliano.

L’avvio e l’efficacia di questa campagna devono superare due ostacoli:

-Rompere la subalternità e il tabù culturale secondo si può boicottare tutti e tutto tranne Israele. Nel resto dell’Europa e nel mondo anglosassone nessuno ha di questi problemi. Nel resto del mondo neanche se lo pongono
-La campagna per essere efficace deve concentrarsi su pochi prodotti e su poche aziende con marchi molto conosciuti, identificabili e che consentano di socializzare rapidamente la notizia del boicottaggio.

A tale scopo, dopo la manifestazione del 17 gennaio a Roma, che vede già impegnati al massimo in tutta Italia i movimenti e le associazioni di solidarietà con il popolo palestinese, riteniamo che vada costruito e convocato un gruppo di lavoro che prepari e gestisca con professionalità, capillarità e grande capacità di comunicazione la campagna Boicottaggio - Disinvestimento-Sanzioni contro Israele anche in Italia nelle prossime settimane.


Cenni storici (ad uso e consumo di chi ignora il senso profondo del boicottaggio)

La parola “boicottaggio” comparve nella lingua inglese durante la “Guerra della Terra” irlandese e deriva dal nome del capitano Charles Boycott, agente immobiliare di un latifondista inglese, Earl Erne, nella contea irlandese di Mayo. Nel settembre del 1880, i contadini irlandesi protestarono contro gli abnormi aumenti dei canoni di locazione richiesti da Boycott. Egli non solo rifiutò ogni dialogo, ma li sfrattò dalle loro terre. Charles Stewart Parnell, in un celebre discorso, propose a tutti i cittadini di non ricorrere alla violenza, ma di rifiutarsi di avere qualsiasi rapporto con lui. Nonostante le grandi difficoltà economiche e di altro genere che ricadevano su chi decideva di impegnarsi in questa azione, Boycott si trovò presto isolato, senza più nessuno che andasse a lavorare nei suoi campi,nelle sue stalle e persino nella sua stessa casa. Imprenditori e commercianti locali troncarono ogni rapporto con lui e anche il postino si rifiutò di consegnargli la posta.

L'azione concertata contro di lui fece sì che Boycott non fu più in grado di trovare qualcuno per raccogliere le colture nella sua proprietà, per cui fece ricorso ad una cinquantina di collaborazionisti da Cavan e Monaghan, scortati da un migliaio fra poliziotti e soldati. Alla fine, risultò che il costo della protezione era di gran lunga superiore al valore del raccolto.


Il "boicottaggio" continuò con successo. In poche settimane, il nome di Boycott arrivò ovunque, fino ad essere utilizzato dal Times, nel novembre del 1880, come termine per l'isolamento organizzato.

Il 1 ° dicembre 1880 il capitano Boycott lasciò l’Irlanda e si ritirò in Inghilterra, con tutta la sua famiglia.



tutte le informazioni disponibili sono su: http://www.forumpalestina.org/Boicottaggio.asp

Il Forum Palestina

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