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Verso la V Conferenza WTO - L’agenda di Cancun

di Andrea Ricci (responsabile dipartimento naz.le economia PRC)

(28 Marzo 2003)

Doha 2001: l’avvio di una nuova fase della globalizzazione neoliberista.

Dopo la battuta d’arresto subita nel 1999 a Seattle, a seguito delle manifestazioni di protesta e dei contrasti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo (PVS), il processo di liberalizzazione economica internazionale è stato rilanciato con forza nella IV Conferenza Ministeriale del WTO di Doha nel novembre 2001. La mutata situazione internazionale, in conseguenza degli attentati dell’11 settembre e della strategia di guerra permanente proclamata dagli USA, ha spianato la strada ai fautori della globalizzazione per vincere le resistenze politiche e sociali che si opponevano ad un nuovo balzo in avanti del neoliberismo.

La dichiarazione finale di Doha ha aperto un nuovo ciclo negoziale complessivo mirante alla ulteriore liberalizzazione degli scambi e degli investimenti internazionali. Una serie molto vasta di materie è stata riunita in un singolo negoziato globale, seguendo la stessa modalità adottata nel precedente grande ciclo negoziale dell’Uruguay Round (1986-1994) che portò all’estensione del GATT sui prodotti industriali, alla stipula di nuovi accordi (GATS sui servizi, TRIPS sui diritti di proprietà intellettuale, TRIMs sugli investimenti, AoA sull’agricoltura) e alla costituzione del WTO.

La modalità del singolo negoziato scelta a Doha rafforza le possibilità di un esito favorevole delle trattative, perché aumenta i costi di un mancato accordo e rende più agevole trovare compensazioni nelle materie più controverse. Infatti, questa modalità prevede che: a) o si riesce a trovare un accordo complessivo su tutte le questioni oggetto di contrattazione oppure nessun accordo parziale sarà firmato e b) un Paese è obbligato ad aderire all’insieme degli accordi oppure sancisce la propria esclusione dal WTO. D’altra parte, un eventuale fallimento del round negoziale può segnare un arresto generale del processo di globalizzazione e una crisi di legittimazione dell’istituzione WTO e così spingere i Paesi ad abbandonare l’approccio neoliberista per adottare politiche economiche e commerciali alternative. La partita, iniziata a Doha e che proseguirà a Cancun, ha quindi un’importanza politica e strategica fondamentale, che va anche al di là delle singole, importantissime tematiche parziali oggetto di contrattazione.

Passiamo ora ad esaminare più in dettaglio le principali questioni oggetto del mandato negoziale di Doha, che saranno al centro della V Conferenza Ministeriale di Cancun, in Messico, (10-14 settembre 2003).

Agricoltura

Oggetto dei negoziati è la riduzione delle barriere, dirette ed indirette, al commercio internazionale di prodotti agricoli. La liberalizzazione dell’agricoltura è certamente la tematica negoziale più densa di possibili conseguenze sociali ed economiche, in particolare per i PVS. E’ sufficiente, a questo proposito, ricordare che il settore agricolo assorbe a tutt’oggi più del 70% dell’occupazione totale nei Paesi a basso livello di reddito, circa il 30% nei Paesi a reddito medio e appena il 4% nei Paesi ad alto reddito.

I principali assi negoziali nell’ambito del Doha Round sono tre:

a) il sostanziale miglioramento dell’accesso al mercato per i prodotti agricoli, attraverso l’abbattimento dei dazi e delle tariffe e la riduzione delle restrizioni quantitative alle importazioni (quote). Nonostante la stipula dell’Accordo sull’Agricoltura (AoA) al termine dell’Uruguay Round (1994), le tariffe agricole sono rimaste molto più elevate di quelle sui prodotti industriali, dato che la tariffa media mondiale sui prodotti agricoli ammonta ancora oggi al 62%, rispetto ad una tariffa media sui prodotti industriali del 4% nei Paesi industrializzati e dell’11% nei PVS. L’AoA ha avuto come scopo principale la trasformazione delle barriere non tariffarie in barriere tariffarie. Il negoziato in corso prevede il passaggio alla seconda fase della liberalizzazione agricola, quella della riduzione al minimo dei dazi e delle tariffe. Su questo punto si stanno confrontando due posizioni: la fissazione di un tetto massimo del 25% per tutte le tariffe agricole o una riduzione media delle attuali tariffe del 36% con una riduzione minima per ogni prodotto agricolo di almeno il 15%. La prima posizione, più liberalizzatrice, è sostenuta dagli USA e dalla gran parte dei PVS, la seconda è la posizione dell’UE, del Giappone e dell’India.

b) La riduzione, in vista della totale abolizione, di ogni forma di sussidio alle esportazioni. Questa forma di sostegno alla produzione agricola è presente soprattutto nei Paesi industrializzati. Sull’identificazione delle forme di sussidio all’export è in atto un contenzioso tra UE e USA. Infatti l’UE considera oggetto di negoziato anche le forme indirette di sussidio, come i crediti agevolati agli esportatori agricoli, mentre gli USA, che impiegano in questa misura circa 6 miliardi di dollari all’anno, sono contrari a questa interpretazione e intendono limitare la trattativa solo agli aiuti diretti per l’esportazione di prodotti agricoli. I PVS sostengono la totale abolizione dei sussidi all’export entro tre anni, con un abbattimento immediato del 50%, gli USA la totale abolizione entro cinque anni senza alcun abbattimento immediato, l’UE è favorevole ad un abbattimento del 45% di tutti i sussidi e alla parziale abolizione solo in alcune categorie di prodotti.

c) La sostanziale riduzione delle forme di sostegno alla produzione agricola nazionale che distorcono il commercio. L’Accordo sull’Agricoltura, stipulato al termine dell’Uruguay Round, definisce tre categorie di sostegno alla produzione nazionale, distinte sulla base di differenti colori: la “amber box” (scatola ambra) che include tutte quelle forme di sostegno che sono considerate distorsive della produzione e del commercio (cioè che modificano direttamente i prezzi sui mercati agricoli); la “green box” (scatola verde) che include quelle misure che non hanno per nulla, o che hanno solo marginalmente, effetti distorsivi (es. fondi per la ricerca, scorte di cibo per la sicurezza nazionale, assistenza strutturale, finanziamenti agli agricoltori in caso di eventi straordinari di mercato, programmi di risanamento ambientale, programmi di assistenza regionale); la “blue box” (scatola blu) che comprende tutte quelle misure, in teoria ricadenti dentro la “amber box”, considerate come eccezioni consentite alla regola di riduzione al minimo dei sussidi interni (es. programmi per la limitazione della produzione agricola, quote di produzione). E’ questo il tema più controverso. L’UE sostiene che soltanto la categoria ambra è oggetto di negoziato, perché le altre categorie sono finalizzate al perseguimento di obiettivi strategici (tutela ambientale e sicurezza alimentare). L’UE è la principale sostenitrice di un approccio multifunzionale all’agricoltura, secondo cui la disciplina interna e internazionale della produzione e del commercio agricolo deve essere finalizzata non solo alla loro pura crescita quantitativa, ma anche a scopi qualitativi. Gli USA e la gran parte dei PVS accusano l’UE di camuffare, dietro considerazioni ambientali e sanitarie, una politica protezionistica. Per questa ragione, gli USA e i PVS, nelle trattative in corso, sostengono che anche la categoria verde deve essere oggetto di riduzione e che la categoria blu va eliminata e fusa con la categoria ambra, in modo che le forme di sostegno ivi previste possano essere oggetto di successivi negoziati per la loro riduzione.

Le trattative si stanno svolgendo con estrema difficoltà perché il settore dell’agricoltura è quello dove più forti sono le forme di sostegno alla produzione nei Paesi industrializzati. Infatti, i sussidi erogati ai propri produttori agricoli dai Paesi dell’OCSE (i Paesi più industrializzati) ammontano a circa 360 miliardi di dollari all’anno, più di sei volte le risorse destinate dagli Stati alla cooperazione internazionale allo sviluppo ed essi dal 1997 ad oggi sono cresciuti del 28%, nonostante l’AoA. Nel maggio 2002 gli USA, nell’ambito del programma di spesa pubblica lanciato all’indomani dell’11 settembre 2001 per far fronte all’incipiente recessione, hanno emanato il “Farm Bill Security and Rural Investment Act” che prevede un aumento dell’80% dei sussidi agricoli con uno stanziamento di ulteriori 180 miliardi di dollari per i prossimi 10 anni. Inoltre, è da rilevare che la struttura dei sussidi nei Paesi OCSE è tale da favorire le imprese multinazionali del settore agroalimentare, a discapito dei piccoli produttori agricoli nazionali ed esteri.

La liberalizzazione del mercato agricolo ha già provocato una forte dipendenza dalle importazioni di cibo, soprattutto per i Paesi più poveri. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, per la prima volta, l’insieme dei PVS ha riscontrato un deficit crescente nella bilancia commerciale dei beni agricoli. Uno studio dell’UNCTAD ha evidenziato come nei Paesi a basso reddito nel periodo 1997-99 la quota di importazioni agricole sul totale delle importazioni è di circa il 20%, contro una media mondiale di circa il 6%. La dipendenza alimentare è un forte ostacolo allo sviluppo economico, perché assorbe un’ingente quantità di risorse e di valuta pregiata che potrebbe essere utilizzata per il benessere sociale, l’istruzione e la formazione e il progresso tecnologico.

Con la liberalizzazione la struttura della produzione agricola si conforma alla domanda proveniente dai Paesi industrializzati. Infatti, nel 2000 il 64,7% delle esportazioni di prodotti alimentari è stato assorbito dai Paesi industrializzati, che hanno una maggiore capacità di acquisto. La liberalizzazione incentiva così la specializzazione nelle monocolture agricole di quei prodotti, destinati all’export, dove più alta è la domanda mondiale. In questo modo, si favoriscono le grandi piantagioni gestite dalle multinazionali a danno della enorme massa di piccoli produttori agricoli. Infatti, la grande produzione agricola di tipo intensivo, spesso abbondantemente sussidiata dai Governi dei Paesi industrializzati e gestita in modo integrato dalle grandi multinazionali dell’agroalimentare, determina una permanente situazione di sovrapproduzione agricola mondiale, con conseguenti riduzioni dei prezzi al di sotto dei costi di produzione sostenuti dai piccoli agricoltori.

Le conseguenze economiche e sociali della liberalizzazione agricola sono quindi dirompenti per i PVS e minano l’autonomia e l’autosufficienza nazionale nella disponibilità di risorse alimentari. Inoltre, la monocoltura elimina la biodiversità delle coltivazioni, distruggendo le colture tradizionali, che vengono sostituite da poche colture rispondenti al gusto e alla moda occidentale. Per tutte queste ragioni, un vasto fronte di sindacati e associazioni agricole, raccolte intorno a Via Campesina, chiedono l’esclusione dell’agricoltura dal WTO.

La conclusione del negoziato sull’agricoltura ha come data limite il 1 gennaio 2005.

Servizi

Per un’analisi dell’accordo GATS si veda “Materiali del Dipartimento di Economia, n. 1, marzo 2003. In questo numero ci limitiamo a fornire una informativa sullo stato del negoziato.

Il negoziato GATS si sta svolgendo in un clima di forte contrasto tra Paesi Industrializzati e PVS. Già al momento della stipula dell’accordo (Marrakesch, 1994) vi era stato un riconoscimento generale del fatto che i presunti vantaggi della liberalizzazione del commercio di servizi sono diretti pressoché esclusivamente alle economie dei Paesi Industrializzati. In particolare, le grandi imprese transnazionali americane ed europee sarebbero state le principali beneficiarie dell’accordo GATS. Per questa ragione, nell’accordo vennero previsti alcuni meccanismi di tutela e di salvaguardia, nei confronti degli impatti economici e sociali della liberalizzazione, per le economie dei PVS. Queste misure avrebbero dovuto diventare operative, attraverso una loro precisa definizione tecnica e giuridica, prima di iniziare i negoziati per l’estensione del GATS.

Oggi i PVS contestano che si sia passati alla fase delle richieste-offerte senza aver affrontato e risolto le questioni preliminari per la correzione delle asimmetrie nelle capacità negoziali e per il riequilibrio degli effetti derivanti dalla liberalizzazione dei servizi. Le questioni preliminari finora disattese sono: a) i crediti negoziali da riconoscere ai PVS per aver autonomamente proceduto alla liberalizzazione di alcuni settori di servizi. Molti PVS, sotto la pressione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale (World Bank – WB) nell’ambito dei programmi di aggiustamento strutturale e delle condizioni di prestito, hanno proceduto alla liberalizzazione di settori di servizi al di fuori degli accordi GATS. Il non riconoscimento all’interno del negoziato GATS delle liberalizzazioni già realizzate indebolisce la posizione contrattuale dei PVS a vantaggio dei Paesi industrializzati; b) la valutazione preliminare dei costi-benefici derivanti dalla liberalizzazione, senza la quale non è possibile conoscere l’impatto della liberalizzazione sull’economia; c) i meccanismi di salvaguardia garantiti ai PVS nel caso in cui la liberalizzazione producesse pesanti conseguenze negative sulle potenzialità di sviluppo economico interno.

Un altro fronte di contestazione da parte dei PVS verso i Paesi Industrializzati concerne la mancanza di progressi rispetto al movimento internazionale dei lavoratori operanti nel settore dei servizi. L’accordo Gats prevede infatti quattro tipologie generali di offerta dei servizi: 1) offerta di servizi oltre la frontiera nazionale, nel quale il servizio è offerto dal territorio di un Paese membro nel territorio di una altro Paese membro del WTO; 2) consumo all’estero, nel quale il servizio è offerto nel territorio di un Paese ad un consumatore di un altro Paese (es. turismo); 3) l'insediamento di un’impresa straniera fornitrice di servizi nel territorio di un Paese membro e, infine, 4) il movimento delle persone da un Paese all’altro per la fornitura di un servizio per scopi temporanei, non implicanti procedure di immigrazione permanente. I Paesi industrializzati hanno evitato sostanzialmente di ridurre le barriere alla quarta modalità di offerta di servizi, quella in cui più consistenti sarebbero i vantaggi per i PVS. Anzi, diversi Paesi occidentali, come l’Italia con la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, hanno ulteriormente ristretto la possibilità di movimento internazionale delle persone. In sostanza, anche nel settore dei servizi, i Paesi Industrializzati intendono liberalizzare il movimento dei capitali e delle merci, ma mantenere elevate protezioni nei confronti del movimento delle persone, a tutto danno dei PVS.

Come manifestazione di dissenso rispetto al mancato esame delle questioni preliminari e agli scarsi o nulli progressi sul movimento internazionale dei lavoratori dei servizi, a tutt’oggi la gran parte dei PVS si sono rifiutati di avanzare le richieste di liberalizzazione. Invece i Paesi Industrializzati sono entrati unilateralmente nella fase delle richieste-offerte. Soltanto 30 Paesi sui 144 aderanti al WTO hanno ad oggi presentato le richieste di liberalizzazione dei servizi, nonostante la data stabilita fosse il 30 giugno 2002. L’UE ha avanzato richieste di liberalizzazione a 109 Paesi riguardanti in particolare i settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e delle telecomunicazioni. USA e Canada sono invece interessati prioritariamente alla liberalizzazione dei servizi sociali e sanitari e dell’istruzione.

Diritti di proprietà intellettuale. Accesso ai farmaci

Dopo una lunga e difficile controversia, con la dichiarazione di Doha su TRIPs e Salute Pubblica venne riconosciuto che l’accordo sui diritti di proprietà intellettuale non è applicabile alle misure intraprese per proteggere la salute pubblica. In questo modo, è stata riconosciuta la possibilità per i PVS di produrre in proprio farmaci essenziali per la vita umana senza pagare i diritti alle multinazionali detentrici del brevetto farmaceutico. E’ rimasto tuttavia aperto il problema per quei Paesi poveri che non hanno le risorse industriali e tecnologiche per produrre in proprio i farmaci salvavita. L’accordo TRIPs infatti prevede la possibilità di produrre i farmaci al di fuori del brevetto solo per l’offerta interna e non per l’esportazione. Il negoziato in corso dovrebbe garantire le modalità di accesso ai farmaci per tutti i Paesi, compresi quelli che non dispongono di una propria industria farmaceutica. Il negoziato doveva concludersi entro il 31 dicembre 2002, affinché non fosse considerato parte integrante del round negoziale complessivo, ma l’opposizione degli USA ha impedito di accogliere le proposte formulate dal Presidente del Consiglio TRIPs, che prevedevano deroghe ai brevetti per tutti i medicinali necessari per curare malattie epidemiche, per i principi attivi di base dei farmaci e per la strumentazione diagnostica necessaria al loro uso. Gli USA sostengono che le eccezioni ai diritti di proprietà intellettuale devono essere previste solo per i farmaci direttamente necessari per alcune, ben definite, gravi malattie (AIDS, malaria e tubercolosi). Il negoziato si è quindi interrotto senza prevedere una nuova scadenza per il raggiungimento di un accordo.

Altro punto in discussione nell’ambito dei negoziati sui diritti di proprietà intellettuale riguarda l’istituzione di un sistema multilaterale di protezione e di registrazione dell’indicazione geografica dei prodotti alimentari, voluto in particolare dall’UE ma contrastato dagli USA e dai PVS, perché ritenuto lesivo dei principi di libera concorrenza. Su questo punto, a Cancun dovrebbe concludersi un accordo in merito ai vini e alle bevande alcoliche.

Accesso al mercato per i prodotti non agricoli

La questione riguarda la riduzione delle barriere tariffarie e non tariffarie sui manufatti non agricoli e sui beni ambientali. Gli USA hanno avanzato una proposta in due fasi che prevede la riduzione di tutte le tariffe industriali al 5% entro il 2010 e la loro totale abolizione entro il 2015. Diversi PVS sono critici rispetto a questa proposta perché ritengono che il mantenimento di barriere tariffarie in alcune produzioni strategiche sia indispensabile per l’industrializzazione.

La principale richiesta avanzata dai PVS riguarda la riduzione dei picchi tariffari e della scala tariffaria. Queste forme di protezione doganale sono usate dai Paesi Industrializzati per proteggere i prodotti ad alto valore aggiunto, perché rispettano il tetto massimo di tariffa media imposto dagli accordi GATT attraverso una modulazione delle aliquote tariffarie che protegge le produzioni industriali a elevato valore aggiunto. Tipica forma protezionistica adottata dai Paesi Industrializzati, senza infrangere le regole del GATT, è l’adozione di tariffe nulle o bassissime sulle materie prime e sui beni intermedi e l’adozione di tariffe proibitive sui beni finiti. In questo modo, si consolida la divisione internazionale del lavoro tra i PVS, fornitori dei beni primari, e i Paesi Industrializzati, produttori industriali avanzati, con il conseguente peggioramento per i PVS delle loro ragioni di scambio (negli ultimi venti anni, dal 1980 al 2000, le ragioni di scambio per i Paesi industrializzati sono migliorate del 12%, mentre per i PVS sono peggiorate del 26%).

I PVS chiedono, inoltre, una chiara delimitazione della clausola “antidumping”. L’accordo GATT prevede infatti la possibilità per uno Stato membro di applicare dazi doganali a quei prodotti esportati sottocosto da un altro Paese. Nel periodo 1995-1999, sono stati più di mille i casi in cui si è ricorsi a tale misura. L’ammontare del dazio “antidumping” deve essere uguale alla differenza tra il prezzo all’esportazione e il valore normale del bene in questione. Non essendoci una chiara definizione tecnica del valore normale di un bene, i PVS sostengono che i Paesi Industrializzati utilizzano la clausola “antidumping” come una forma occulta di protezione dei propri prodotti nazionali.

Infine, alcuni PVS reclamano la piena applicazione dell’Accordo sul tessile ed abbigliamento, per arrivare rapidamente alla riduzione al minimo dei sussidi nell’industria tessile e del pellame e all’eliminazione delle restrizioni quantitative alle importazioni che ancora sono operanti, in particolare nei Paesi Industrializzati.

I negoziati su questi temi devono concludersi entro il 1 gennaio 2005.

Le cosiddette “Singapore issues” o “new trade issues”

Alla I Conferenza Ministeriale di Singapore (1996) venne lanciato un nuovo programma per estendere il regime WTO a questioni non strettamente inerenti il commercio internazionale, ma che indirettamente possono influenzare la circolazione globale delle merci. Il programma si articola in quattro temi: investimenti all’estero, politiche interne per la libera concorrenza, trasparenza negli appalti pubblici e agevolazioni per il commercio. Queste nuove tematiche commerciali, in particolare le prime tre, sono particolarmente sostenute dai Paesi industrializzati, e temute dai PVS, perché sono finalizzate al rafforzamento dei diritti delle imprese transnazionali che operano sul mercato globale. Secondo i Paesi Occidentali, attraverso un accordo sulle “Singapore issues” si dovrebbe istituire un quadro normativo mondiale per tutelare ogni forma di investimento all’estero (reale e finanziario, di breve e di lungo termine), per garantire la permanenza di mercati interni in regime di libera concorrenza, per imporre ai governi di approvvigionarsi unicamente sul libero mercato mondiale senza perseguire finalità economiche strutturali attraverso gli appalti pubblici di beni e servizi. Con le “Singapore issues” il campo d’azione del WTO si allargherebbe ben oltre la sfera del commercio internazionale e arriverebbe a configurarsi come un quadro normativo, istituzionale e organizzativo globale di governo dell’economia mondiale, funzionale al neoliberismo.

La Conferenza di Cancun dovrebbe lanciare formalmente un round negoziale su queste tematiche e fissare le modalità procedurali e operative per il raggiungimento di un accordo.

Il trattamento speciale e differenziato (S&D) per i Paesi in Via di Sviluppo

Sin dal 1979 in occasione del Tokyo Round, ai Paesi in via di sviluppo sono state riconosciute clausole speciali, denominate “Special and Differential Treatment” (Trattamento speciale e differenziato – S&D), allo scopo di introdurre misure di riequilibrio economico internazionale. In particolare, gli S&D riconoscevano un accesso preferenziale al mercato per i prodotti dei PVS e una maggiore flessibilità per i PVS nell’applicazione dei trattati commerciali al fine di garantire a questi Paesi l’autonomia necessaria a perseguire politiche economiche di sviluppo. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, sotto la spinta dell’ideologia neoliberista, gli S&D sono stati rimessi in discussione, anche attraverso la pressione esercitata dal FMI e dalle Banca Mondiale in occasione della negoziazione delle condizioni per i prestiti e i programmi di aggiustamento strutturale.

Con gli accordi dell’Uruguay Round il principio dell’S&D è stato tradotto in modo restrittivo nel senso di concedere ai PVS soltanto tempi relativamente più lunghi per l’applicazione degli obblighi alla liberalizzazione derivanti dai trattati, senza tuttavia prevedere la possibilità di differenziare permanentemente gli obblighi a seconda del livello di sviluppo del Paese. Inoltre, con gli accordi dell’Uruguay Round, il S&D è stato inserito in forme generiche, vaghe e non vincolanti, non adeguate a proteggere i PVS da eventuali dispute legali nel nuovo regime WTO. La Dichiarazione finale di Doha ha riconosciuto l’esigenza di rivedere i S&D per dare maggiore garanzia di flessibilità alle politiche economiche dei PVS ed ha stabilito la necessità di riscrivere i S&D in forme chiare e precise, di tutela e garanzia per i PVS nei confronti delle dispute legali in sede WTO. Entro il 31 luglio 2002 avrebbe dovuto essere presentato il rapporto finale al Consiglio Generale del WTO contenente le proposte per la revisione di tutti i trattamenti speciali e differenziati previsti negli accordi WTO. A causa dell’opposizione dei Paesi Industrializzati la scadenza è stata prima spostata per due volte in avanti nel tempo e infine annullata, suscitando forti risentimenti nei PVS.

Commercio e ambiente

L’inserimento di questo tema nei negoziati è stato voluto dall’UE e dal Giappone. I PVS hanno contrastato questo allargamento del negoziato perché temono che il riconoscimento delle esigenze di protezione ambientale possa diventare una nuova barriera non tariffaria alle loro esportazioni. Gli USA sono contrari a questa nuova tematica perché temono che possa giustificare il mantenimento di un grado elevato di protezione nell’agricoltura europea con motivazioni ambientali. Come risultato di questi contrasti il mandato negoziale è strettamente circoscritto e riguarda: a) lo scambio permanente di informazioni tra il WTO e i segretariati degli Accordi internazionali sulla protezione ambientale; b) la definizione e la classificazione dei “beni e sevizi ambientali”; c) la riduzione delle barriere al commercio dei beni e servizi ambientali; d) il raccordo tra le regole del WTO e i vincoli derivanti dagli Accordi internazionali in materia ambientale (Protocollo di Kyoto, CITES, Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza). Per salvaguardare gli USA, il negoziato è limitato solo a quei Paesi membri del WTO che hanno aderito agli accordi ambientali in questione. In tal modo, il negoziato in corso su questa tematica avrà un impatto irrilevante sulle politiche globali di tutela ambientale.


Materiali del Dipartimento Economia
Bollettino di informazioni a cura del Dipartimento Nazionale Economia - Area Lavoro e Diritti Sociali - Partito della Rifondazione Comunista

Numero 2 - Marzo 2003
Web: http://www.rifondazione.it/statosociale/pagine/economiaD.htm
E-mail: andrearicci@regione.marche.it

Andrea Ricci

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