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Innse presse. La prima lezione è: non abbandonare mai la fabbrica!

(1 Febbraio 2009)

Intervista ad alcuni lavoratori della Innse presse di Milano, in lotta dal 31 maggio contro lo smantellamento della loro azienda. L’intervista è stata realizzata il 29 gennaio. Ulteriori informazioni sulla lotta sono reperibili sul blog http://www.myspace.com/presidioinnse.

Da dove è nata la determinazione di condurre una lotta di questa durata?
Probabilmente uno dei motivi è che abbiamo dietro una lunga storia, abbiamo alle spalle anni di lotta. Inoltre eravamo preparati, ne avevamo parlato fra noi già nei due anni precedenti, vedendo i personaggi che arrivavano c’era da aspettarselo.
Forse più inaspettato è stato il fatto di entrare e continuare a produrre da soli, avevamo dentro il lavoro e abbiamo fatto questa scelta. Il lavoro c’era, ci siamo detti “proseguiamo”.

Cosa hanno significato quei tre mesi in cui siete stati dentro a lavorare, lavorare senza il padrone cosa ha cambiato nella testa degli lavoratori? E che tipo di gestione c’era?
Sinceramente è stata una scelta naturale

Eravate tutti?
Sì, infatti una delle cose più belle è stata proprio che c’eravamo tutti, dall’ingegnere responsabile della produzione, al direttore del personale fino agli operai. Era una fabbrica al completo… tranne il padrone!

…che come è noto è l’unico che non è indispensabile per produrre…
Eh sì! E anche la gerarchia di fabbrica è cambiata, l’ingegnere continuava a fare il suo lavoro da ingegnere, ma quando c’è stato da sobbarcarsi tutta la gestione e anche i servizi, la mensa ecc. ecco che anche l’ingegnere cessava di essere tale e lavava le pentole assieme agli altri.
Chi era fermo faceva altri servizi, chi era sulle macchine continuava a lavorare.

Che tipo di gestione c’era, come vi siete organizzati?
La notte che siamo entrati, il 31 maggio, c’è stato l’attimo necessario per capire cosa fare, poi è venuto quasi da sé. L’organizzazione è stata necessaria soprattutto per garantire i turni di presidio, l’idea era di proseguire nella normalità c’era una gestione accurata; per esempio se uno doveva stare assente veniva segnato il permesso o il giorno di ferie, si andava dal responsabile e si segnava. Per cui c’era una normalità, solo che dovevamo garantire la presenza anche di notte o il sabato e domenica e lì abbiamo cominciato a organizzare i turni.
Per quanto riguardava le lavorazioni non c’è stato bisogno di particolari decisioni, se uno era libero andava a dare una mano a un altro, ci siamo organizzati senza grosse difficoltà.
C’è dietro anche l’esperienza precedente, almeno 10 anni di “addestramento alla lotta”; la fabbrica ha cambiato tre o quattro proprietà in pochi anni, ogni volta sempre peggio, e ogni volta sono state battaglie.
Per tre anni c’è stata una multinazionale tedesca e sembrava quasi la favola; o meglio, favola per modo di dire, ma sembrava almeno che il lavoro ci fosse. Poi anche loro hanno provato a chiudere.

Che lavori faceva la Innse?
Turbine, pezzi di macchinari pesanti, macchine utensili. C’era un ciclo completo, potevamo fare turbine, presso, piuttosto o macchine utensili, come singoli pezzi, ingranaggi, ecc. Ad un certo punto abbiamo iniziato a lavorare per conto terzi, quello che ci davano lo facevamo. L’ufficio progettazione non c’era più.
Potenzialmente questa azienda può ancora fare qualsiasi cosa, i macchinari ci sono ancora tutti e non sono attrezzature che siano particolarmente diffuse. Sono lavorazioni grosse ma di precisione, se fai macchine utensili ci vuole la precisione. Per dirti, abbiamo consegnato una traversa per una macchina utensile, una traversa di quattordici metri con due centesimi di tolleranza. E l’abbiamo fatta in autogestione, con le difficoltà ulteriori che eravamo al freddo, mentre per queste lavorazioni le temperature sono fondamentali.

Come avete fatto a garantire le forniture di energia elettrica mentre lavoravate in autogestione?
L’abbiamo dovuta difendere ogni volta, soprattutto all’inizio Genta (il proprietario – ndr) tentava quasi ogni giorno di farcele tagliare, di metterci alle strette togliendoci corrente, gas, così come ci aveva tolto la mensa. In poche parole eravamo sempre di vedetta, ogni volta che vedevamo una macchina uscivamo tutti di corsa. Non c’è mai stata una trattativa, abbiamo dovuto difenderle sul campo.
Per esempio a settembre sono venuti di soppiatto a tagliarci la luce, quando ce ne siamo accorti siamo corsi fuori, abbiamo convinto i dipendenti a telefonare in sede e alla fine abbiamo ottenuto che la riallacciassero. Ma lo abbiamo sempre dovuto ottenere sul campo.

Come vi siete organizzati per finanziare la lotta, avete una cassa di resistenza? Come l’avete sostenuta?
Fin dall’inizio c’è stata l’esigenza, soprattutto quando la mensa è stata chiusa. Si trattava di comprare e cucinare tutti i giorni per 50 persone. La Fiom ha contribuito in misura minima con una offerta iniziale di 300 euro, poi c’è stato Operai Contro che ha raccolto 2000 euro, che abbiamo usato per la mensa. Poi la solidarietà si è allargata a chi veniva a conoscenza della nostra lotta, la Rete 28 aprile, centri sociali. Abbiamo fatto sottoscrizioni e iniziative di solidarietà in alcuni centri sociali; ci sono compagni che vengono qui a mangiare e sottoscrivono spesso e volentieri.
Anche persone singole che passavano per dimostrare solidarietà. Tutto quello che è stato raccolto è stato messo per la continuità della vertenza. All’inizio è stato molto duro, soprattutto quando Genta ha cominciato a non pagarci più, ha tentato di stroncarci.

Avete mai pensato di fare iniziative per ottenere esenzioni da bollette, spese scolastiche dei figli, o altri servizi pubblici?
Il problema è che non siamo tantissimi e siamo dispersi territorialmente, e comunque fin dall’inizio ci siamo concentrati sul fatto di ottenere la continuità dell’azienda, anche perché avevamo un compratore.
Questa azienda dopo tanti anni la sentiamo più nostra che sua, e non vogliamo regalarla a uno speculature.

Avete mai discusso l’idea che la fabbrica possa andare in mano al pubblico, in un momento in cui lo Stato interviene con miliardi di euro per le banche?
Sì, ne abbiamo parlato ma come un discorso fra noi, non so se se realmente sia possibile. Genta ha rilevato l’azienda da un gruppo che l’aveva messa in liquidazione volontaria, e grazie alla legge Prodi l’ha presa per quattro soldi. 750 mila euro, come dire un appartamento in centro a Milano. In pratica glie l’hanno regalata. Io non so quanto valga questa fabbrica, ma anche a rottame vale milioni.
Dopo averla avuta in regalo, invece di svilupparla ha iniziato a portare via e a posteriori è chiaro che questo piano c’era già dall’inizio: non solo non si investiva, ma non si garantiva la normalità, per avere un paio di guanti era una battaglia, ci sono stati clienti che per avere le commesse hanno dovuto fornire le attrezzature.
Alcuni clienti sono rimasti anche dopo il 31 maggio, durante l’autogestione, come Ormis che poi si è fatta avanti per comprare, probabilmente perché non riuscivano a farli altrove. Altri si sono spaventati perché vedevano che tentavano di farci chiudere quasi ogni giorno. Noi dicevamo: consegnamo il lavoro e voi ci date un altro pezzo da fare, cercando di non fermare l’officina. Siamo andati avanti fino al 17 settembre, quando sono entrati; ero dentro quella mattina quando sono entrati a sgomberarci, eravamo ancora sulle macchine.
Certo lasciare le macchine ferme, bene non fa. Per un periodo anche dopo che ci hanno buttato fuori, noi entravamo lo stesso a far girare le macchine per non lasciarle a rovinarsi. Di fatto curavamo la fabbrica, anche perché abbandonarla signifca che arrivano a rubarti il rame. Lo sapevano tutti, anche Genta a cui l’abbiamo detto. Poi hanno messo le guardie private e ora non entri più.
Il problema di come proseguire non esiste, potremmo riprendere domani mattina e la cosa pazzesca è che nonostante la crisi nel nostro campo c’è ancora lavoro, Ormis ha preso commesse da Piombino che potremmo soddisfare.

Le crisi e le chiusure si moltiplicano. Che consiglio daresti a dei lavoratori che si trovassero in una situazione simile alla vostra, che si vedono arrivare la lettera che annuncia la chiusura?
Io direi solo di non buttarsi di giù, noi l’abbiamo già provata quando i tedeschi ci dissero “noi chiudiamo, fate quello che volete, le barricate, bruciate l’officina, ma noi chiudiamo”. E a distanza di dieci anni siamo ancora qua, è la prova provata che se la multinazionale decide non è la fine di tutto, dipende dalla determinazione degli operai.
La prima lezione è di non abbandonare la fabbrica, per nessun motivo. Occupi, non occupi, fai un presidio, comunque il punto è che non bisogna abbandonare la fabbrica perché quelle decisioni possono essere cambiate. Anche se è difficile, quando hai contro la proprietà dell’azienda, la proprietà dell’area, il Comune che vuole aprire alla speculazione.

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