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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Fame. Il terzo cavaliere dell’apocalisse capitalista

(10 Febbraio 2009)

Tra le tante “facce” della crisi, ce n’è una che ha un sapore un po’ medioevale: si tratta della crisi alimentare, in altre parole della fame.

Le cifre della fame
Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, datato 2 settembre 2008, riconosce che nel 2005 tre miliardi e 149 milioni di persone vivevano con meno di 2,5 dollari al giorno. Di questi il 44% viveva con meno di 1,25 dollari.
Ogni giorno 30.000 persone, per l’85% bambini, muoiono di fame, di malnutrizione o di malattie facilmente guaribili.
In un mondo in cui il 10% possiede l’84% della ricchezza e la metà degli abitanti del pianeta possiede solo l’1%, la produzione agricola mondiale sarebbe sufficiente a nutrire adeguatamente tutta la popolazione mondiale. Nel 2007 la produzione di grano ha raggiunto la cifra record di 2,3 miliardi di tonnellate, con un aumento del 4% rispetto all’anno precedente. C’è una causa molto semplice che spiega questa infinita carestia: mentre gli agricoltori coltivano a sufficienza per sfamare il pianeta, le multinazionali controllano i prezzi mondiali dei prodotti alimentari e la loro distribuzione (il prezzo del grano si stabilisce nelle Borse di Chicago, Minneapolis e Kansas City).
La carestia è un affare per le imprese: la domanda fa salire i prezzi. Tra giugno 2007 e giugno 2008 i prezzi mondiali degli alimenti sono aumentati del 22%.
Tre multinazionali, Archer Danielas Midlands (ADM),Cargill e Bunge controllano il 90% del commercio di cereali; la Monsanto 1/5 della produzione di sementi; Bayer Crop Science, Singenta e BASF la metà del mercato dei fertilizzanti.
Cargill, nel primo trimestre del 2008 ha ottenuto, rispetto allo stesso periodo del 2007, un aumento degli utili dell’86%, ADM del 38% , il più grande produttore e esportatore di carne JBS s.a. del 474,4%.
Per una famiglia molto povera, un piccolo aumento dei prezzi del cibo diventa una questione di vita o di morte.
I prezzi del riso sono aumentati, dal 2007, del 70%, quelli del grano del 130%, la soia dell’87% e il mais del 31%.
Negli Stati Uniti – dove il 12% della popolazione patisce la fame e in cui 50 milioni di persone, un sesto della popolazione, è classificato come “quasi povero - un quinto delle famiglie più povere spende il 15% del suo budget per alimentarsi. Una famiglia nigeriana ne spende il 73%, una vietnamita il 65% e una indonesiana il 50% (Rapporto di Medecins sans Frontières, citato sul New York Times del 10.4.2008). Sempre nell’aprile scorso Robert Zoellick, presidente del Fondo Monetario Internazionale, ha avvertito che 33 nazioni sono a rischio di conflitti sociali a causa dell’aumento dei prezzi alimentari: “Per i paesi nei quali la spesa alimentare costituisce da metà a tre quarti della spesa al consumo, non vi sono margini di sopravvivenza”, ha dichiarato. E infatti abbiamo assistito, nel corso nel 2008, a rivolte per il cibo in tutto il pianeta, da Haiti all’Egitto, dal Camerun al l’Uzbekistan, al Messico ……tanto che i governi del Vietnam, della Russia, dell’Argentina – per citare solo alcuni esempi - hanno bloccato addirittura le esportazioni di riso e carne per mesi e in altri paesi come Filippine, Pakistan e Tailandia l’esercito sorveglia i depositi per evitare saccheggi di massa.

1974: 500 milioni di affamati nei paesi in via di sviluppo.
1996: 830 milioni di persone che patiscono la fame.
2002: 850 milioni di affamati.
2008: 862 milioni che patiscono la fame.
2009: nel dicembre dell’appena passato 2008 il rapporto annuale della FAO calcola, su dati del 2007, che 923 milioni di persone siano denutrite e aggiunge che, con i dati del 2008, probabilmente questa cifra salirà di altri 40 milioni.
Non stiamo tanto bene neanche in Italia. L’aumento della spesa alimentare nel nostro paese è di 13 miliardi negli ultimi 4 anni, un incremento del 9,8%, come ha comunicato nei primi giorni di gennaio il presidente della Confederazione Italiana Agricoltori. La spesa alimentare della famiglia italiana, secondo questo rapporto, è aumentata in media di 300 euro l’anno. Nel 2005 si spendevano mediamente 455 euro al mese; nel 2008 si è arrivati ad oltre 476 euro. Gli aumenti variano secondo il reddito. In percentuale, sempre in riferimento alla spesa totale, per mangiare spendono di più i pensionati (20,9% del loro reddito), gli operai (19,8%), i lavoratori in proprio (18,2%), i dirigenti e impiegati (16,2%) e gli imprenditori e i liberi professionisti (14,5%).

Antecedenti della crisi
Responsabili e complici di questa tragedia su scala mondiale sono sempre i soliti noti.
La globalizzazione, grazioso nome assegnato alla rapina imperialista portata al massimo livello, ha di fatto distrutto le economie agricole tradizionali, che permettevano almeno la sussistenza delle popolazioni povere in altri periodi storici.
I sussidi e i dazi che i paesi ricchi – alla faccia della libertà di mercato tanto sbandierata - concedono alle proprie multinazionali (gli Stati Uniti sussidiano il 25% della loro produzione agricola, l’Unione Europea il 40%) hanno aiutato lo sviluppo di un complesso agro-industriale mondiale che va dalla proprietà delle sementi, dei fertilizzanti chimici, su su fino ad arrivare alle catene di distribuzione alimentare come il gigante Wal-Mart.
40 anni fa i paesi in via di sviluppo possedevano eccedenze annuali di prodotti agricoli per 1 miliardo di dollari. Nel 2001, dopo tre decenni di “politiche di sviluppo” (di sviluppo del complesso agro-alimentare a quanto dimostrano i dati), gli stessi paesi del Sud del mondo importavano cibo per 11.000 milioni l’anno.
Tre passaggi hanno portato all’attuale situazione.
La “Rivoluzione Verde” degli anni 1960-90: una campagna a livello mondiale per “modernizzare” l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo. Risultato: enorme sviluppo delle multinazionali, aumento della produttività, perdita del 90% della bio-diversità in campo alimentare, riduzione massiccia dei livelli freatici, salinizzazione ed erosione dei suoli, masse enormi di contadini che fuggivano dai campi per andare a ingrossare le bidonville delle grandi città.
I programmi di Aggiustamento Strutturale imposti da B.M. e F.M.I. imposti negli anni 1980-90, per “liberalizzare” i mercati agro-alimentari: i paesi poveri furono inondati, come era già successo con i prodotti tessili – da cereali che, grazie ai sussidi concessi da USA e Europa, venivano venduti al di sotto del costo di produzione, con la conseguente distruzione dei mercati agricoli nazionali.
I Trattati Regionali di Libero Commercio e l’Organizzazione Mondiale del Commercio. “L’idea che i paesi in via di sviluppo possano alimentare se stessi è un anacronismo. Potrebbero raggiungere la sicurezza alimentare in modo migliore contando sui prodotti agricoli degli Stati Uniti che sono disponibili a costi molti più bassi” diceva nel 1986 il segretario delle Politiche Agricole statunitense John Block. Le regole dell’OMC consolidarono il controllo delle multinazionali sulle economie agricole del Sud del mondo. I paesi in via di sviluppo furono obbligati ad eliminare le protezioni per i loro piccoli produttori e ad aprire i loro mercati ai prodotti che venivano di paesi industrializzati (ben sussidiati). Il NAFTA, il CAFTA e decine di accordi regionali completarono l’opera.

La crisi alimentare è inoltre strettamente legata alla crisi energetica.
La percezione che si stesse giungendo al “peack oil”, le oscillazioni del prezzo del petrolio, l’indisponibilità crescente di paesi come Venezuela, Brasile, Bolivia a permettere che le multinazionali continuassero a saccheggiare le loro riserve energetiche, hanno spinto le multinazionali, oltre a tentare di appropriarsi militarmente delle zone in cui si trovavano le riserve con la guerra del Golfo, l’aggressione alla Yugoslavia e l’invasione di Iraq e dell’Afganistan, a puntare sui bio-combustibili.
Unico fra tutti, nel 2007 Fidel Castro avvertiva che questo avrebbe portato alla morte per fame e per sete di milioni di persone. Nel luglio 2008 il quotidiano inglese Guardian pubblicava uno studio mai divulgato della Banca Mondiale. Secondo il rapporto, scrive il Guardian, "la produzione dei biocarburanti ha distorto i mercati alimentari almeno in tre modi: in primo luogo deviando l'utilizzo dei cereali dall'alimentazione ai carburanti con oltre un terzo del granturco statunitense destinato alla distillazione di etanolo e circa la metà degli olii vegetali dell'Ue diretti alla produzione di biodiesel. In secondo luogo, gli agricoltori sono stati indotti a dedicare parte dei propri campi alla produzione di biocombustibili e, in terzo luogo tutto questo ha portato la speculazione finanziaria a concentrarsi sul mercato dei cereali, facendo decollare i prezzi".
La maggior parte dell’incremento della produzione mondiale di mais dell’anno passato è stata usata per produrre combustibile.

The last land grab
Ma non finisce qui. Un “nuovo” fenomeno chiamato “the last land grab” (l’ultimo accaparramento della terra) sta apparendo all’orizzonte.
Nell’ultimo anno, con l’intersecarsi della crisi finanziaria e di quella alimentare, è iniziata la corsa di multinazionali sostenute dai loro governi per accaparrarsi terre in stati latinoamericani, africani e asiatici: le nazioni ricche per assicurarsi riserve di cibo, le multinazionali per investire ora che la Borsa non rende più. Daewoo Logistics Corp. Ha in progetto di affittare per 100 anni la metà della terra coltivabile in Madagascar per produrre mais da importare a Seul. In Tanzania imprese inglesi, svedesi, olandesi, canadesi e tedesche hanno fatto accordi di questo tipo con il governo (la Germania ha un progetto di acquisto di 200.000 ettari per produrre biodiesel). Paesi del Golfo Persico come Qatar e l’Arabia Saudita, i cui territori sono per la maggior parte desertici e senz’acqua, stanno comprando terre in Egitto e Sudan.Le corporations giapponesi sono già proprietarie di 12 milioni di ettari nel sud-est asiatico e in America del Sud.
La Banca Mondiale ha svolto un ruolo importante nella rapina delle terre, concedendo prestiti per 1.400 milioni di dollari per l’acquisizione delle “terre sottoutilizzate”.

La crisi alimentare mette così in evidenza, una volta di più, il motore della società capitalista: la ricerca del massimo profitto nel breve periodo. Il cibo – elemento essenziale per la vita - è, per il capitale, solo una merce che va venduta con il più alto guadagno possibile. La vita e la salute, degli esseri umani e del pianeta – non contano.

Un crimine contro l’umanità, non solo quella presente ma anche quella futura.
Così come l’uranio impoverito utilizzato in Iraq, in Yugoslavia, in Afganista, in Palestina, colpisce e colpirà i bambini non ancora nati – come le radiazioni nucleari ad Hiroshima e Nagasaki, l’agente orange in Vietnam, la diossina di Severo nel nostro paese – la crisi alimentare colpirà le generazioni future.

“Socialismo o barbarie” non è un’affermazione retorica, ma una attuale e tremenda realtà.

(i dati citati vengono da: Programma Mondiale Alimentare; FAO, Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale)

Daniela Trollio
Centro di Iniziativa Proletaria “G. Tagarelli”
Sesto S.Giovanni (MI)

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