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La banda del buco

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(6 Giugno 2012) Enzo Apicella

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Sciopero Fiom-Fp, le voci operaie

(14 Febbraio 2009)

Giuseppe Saccoia, cinquantacinque anni, è operaio all’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco dal 1972. Ha conosciuto la crisi economica di metà anni Settanta e la riconversione seguente che ha sensibilmente ridotto l’industria nazionale eppure dice che pur in altri momenti difficili mai la situazione era apparsa così buia come l’attuale. Coi combattivi e tenaci compagni di lavoro, stamane rumorosi nel corteo sindacale romano, accusa direttamente la gestione della Fiat di Marchionne che per un’industria tutt’ora valida (pur di fronte a una crisi delle vendite nel settore auto che in Europa tocca il 27% e da noi raggiunge i picco del 32,6) in Campania non vuole programmare neppure un’occupazione minima.

Il nostro dramma è iniziato ben prima della crisi mondiale dell’auto. Era il gennaio 2008 quando il signor Marchionne s’è presentato al Capo dello Stato, ai partiti, ai sindacati dicendo di voler riqualificare - sottolineo: riqualificare - Pomigliano. Chiacchiere. Dopo due mesi di corsi e sacrifici dei lavoratori la fabbrica è entrata in un tunnel senza sbocchi perché la dirigenza non ha prospettato alcun percorso adeguandosi al solo concetto di crisi, anzi l’ha preceduta. Già dalla scorsa primavera avevamo chiesto un piano industriale e non è arrivato nulla. Da anni la produzione metalmeccanica dell’Italia intera è stata dimensionata a un misero segmento rispetto a quello che fanno altre nazioni europee. E la memoria va appunto a fine anni Settanta quando il marchio Alfa, che aveva vissuto una fase di aiuti governativi diventando a partecipazione statale, è stato regalato alla famiglia Agnelli che egualmente nei momenti di difficoltà intascava contributi statali scaricando sui lavoratori la cassa integrazione”.

Quando la Fiat arrivò a Pomigliano facevamo quattro tipi di vetture (oggi si producono 147 e 149, ndr), abbiamo già avuto alti e bassi di produttività in relazione alle flessioni del mercato però esistevano piani industriali definiti. Da un anno viviamo alla giornata ed è una scelta precisa dell’azienda e del governo. Il Ministro del Lavoro tace, la politica guarda altrove e lo stesso sindacato impegnato a difesa dell’occupazione manca d’un interlocutore disponibile. Poi purtroppo di fronte all’arroganza d’un governo che non si fa scrupolo d’usare repressione e polizia contro i metalmeccanici, manca pure una Sinistra che difenda apertamente la classe operaia come accadeva trent’anni or sono. Essere operaio dopo trentasei anni in reparto a millecento euro al mese è difficile, comunque difendiamo il ruolo perché il lavoro è dignità, soprattutto in un Sud malato ancora di abbandono e soffocato da quell’illegalità che abbiamo sempre combattuto”.

Antonio Trotta di anni ne ha 32, due figli, ottocentosettasei euro di salario e con orgoglio si definisce metalmeccanico “Lavoro all’Alfa dal Duemila e ne sono fiero ma oggi rischio di non poter continuare. Quando entrai a Pomigliano facevamo i modelli 156 e 147 e per tre anni consecutivi abbiamo vinto un premio del settore che si chiama ‘volante d’oro’ per tutt’e due le vetture. Una testimonianza della bontà di progettualità e realizzazione. Nel 2008 Marchionne ha messo in discussione tutto bocciando il passato e non proponendo nulla di nuovo. Ha solo introdotto una ferrea disciplina coi vigilantes che ti seguono anche quando vai in bagno, un clima tesissimo che ha già causato licenziamenti individuali. Ora un operaio deve aver paura anche di fumarsi una sigaretta. Noi la cassa integrazione l’accettiamo, c’è crisi e sappiamo sacrificarci. Il problema fondamentale è il futuro perché per noi c’è il buio pesto, non è predisposto nessun piano, l’aria che tira a Pomigliano è la chiusura. Per quello che s’è visto durante la protesta pacifica sull’autostrada con le manganellate della polizia e gli arresti il segnale è che il governo vuole liquidarci. Tremilacinquecento operai più l’indotto verranno spinti verso la disperazione perché al di là della fabbrica da noi ci sono solo illecito e malavita“.

Luigi Iezzi è un altro veterano del lavoro metalmeccanico, è un immigrato d’Abruzzo nel Canavese dove lavora dall’età di quindici anni “M’hanno fregato i padroncini d’una volta che non versavano i contributi e oggi a cinquantotto anni non riesco ancora ad andare in pensione però lavoro con piacere e proseguo. Sin dagli anni Sessanta ero in queste piccole aziende occupate per l’indotto di grandi gruppi (Ilva, Fiat), diverse nel tempo hanno chiuso. Dal 2001 la fabbrichetta dov’ero con altri undici operai è stata rilevata da un imprenditore vicentino e rilanciata. Oggi siamo in centotrenta. Abbiamo un precariato limitato fra i tre e i sei mesi poi si viene assunti, non dico che è l’Eden ma nel panorama che c’è in giro non possiamo lamentarci. Con orgoglio faccio parte dell’Rsu e di fronte a un padrone che si comporta seriamente noi ci comportiamo lealmente. Rispetto a quel che vedevo da giovane quando il numero occupazionale, la forza operaia, l’impatto sindacale erano enormi e si nutrivano speranze oggi manca il futuro”.

“Io mi sono sposato a diciannove anni e ho fatto due figlie ma loro coi propri figli sono in difficoltà, chi ne ha uno ha paura di fare il secondo per il semplice fatto che economicamente non è in condizione di crescerlo. Per questo a volte l’operaio è costretto ad accettare disagi e ricatti che lo mettono anche a rischio di vita, come vediamo con le morti sul lavoro. Regrediscono tutele e diritti e responsabili sono i governi e certe parti politiche e sindacali. Oggi in piazza c’è solo la Cgil, il signor Bonanni ch’era imprenditore edile, e prima di lui Pezzotta avrebbero fatto meno danni occupandosi d’altro piuttosto che di sindacato. Sono serviti a spaccare il fronte unitario, a firmare certi patti che hanno introdotto quel precariato spacciato per occupazione senza ritorni neppure per il sindacato, perché i precari non s’iscrivono se devono lavorare sei mesi. Abbiamo commesso gravi errori anche a Sinistra, i partiti ancor più del sindacato. Oggi dove sono i partiti operai? Un Veltroni che dice d’essere di sinistra e poi la spacca fa solo danni. Non abbiamo leader, lo stesso Epifani non ha il mordente che gli operai s’aspettano”.

Adele Solo è una lavoratrice nigeriana della provincia di Venezia, è metalmeccanica da qualche anno dopo essere stata cameriera. All’insicurezza occupazionale (l’attuale azienda ricorre alla cassa integrazione da tre mesi) come per gli altri sessanta compagni di lavoro, aggiunge l’onta della discriminazione subita: lei e altri extracomunitari restano fermi per più tempo rispetto ai colleghi italiani. “Accade col padrone e coi compagni di lavoro, subiamo discriminazione e furbizie altrui, per questo siamo iscritti al sindacato. Quando l’azienda è piccola accade di tutto, la cosa minima è doversi sobbarcare i lavori più pesanti che gli altri aggirano. Ora con l’iscrizione abbiamo maggiori tutele, quando mi chiedono compiti non previsti dal contratto mi rifiuto di farli. Comunque la fabbrica è uno spaccato della società, certi comportamenti razzisti o discriminatori sono gli stessi che troviamo nel quartiere o nel condominio“.

Dalla Calvi, ditta metalmeccanica di Merate, vengono Michele Imbronio, ventinove anni, e Mosè Diakhate, senegalese trentenne, in Italia da cinque anni. Dicono “Il clima non è affatto buono spinge alla sfiducia, abbiamo timore per il futuro. Non possiamo programmare nulla, la precarietà è all’ordine del giorno con un governo che taglia qualsiasi diritto per qualsiasi lavoratore”. “Stiamo tornando indietro come ricorda mio padre – afferma Michele figlio di operaio – anche la sua pensione, che noi non raggiungeremo mai, non tiene il passo col carovita spaventoso di questi anni. Berlusconi dice di spendere, ma quale denaro possiamo spendere se già bollette e alimenti ci riducono all’osso? Il suo sistema funziona solo per i ricchi“. Anche Mosè racconta di scarsa solidarietà e di discriminazione in fabbrica fra colleghi “Purtroppo quest’atteggiamento esiste, non fra compagni come questi con cui manifestiamo, loro per ideali ci sono vicini. Chi lo fa sono operai ignoranti che per paura cadono nelle speculazioni politiche di chi vuol dividere. Chi non ti conosce teme che puoi togliergli qualcosa, fosse pure un lavoro duro come quello di fabbrica. Questa gente dimentica che i primi permessi che i miei connazionali ricevevano nel 1997 erano motivati proprio dall’assenza di manodopera italiana nel settore. Nel lecchese pochissimi italiani facevano l’operaio e gli stranieri erano richiesti. Non si possono fomentare guerre fra poveri, c’è bisogno di conoscenza e integrazione. Bisogna abbattere le barriere dell’egoismo ingigantite ancora di più dalla crisi, è un discorso di cultura. Il capitalismo imbarbarisce l’uomo. Indebolire chi si batte per i diritti è una tattica per il controllo sociale, l’attuale governo ora ci teme meno perché con la spaccatura del fronte sindacale può controllare i lavoratori”. “E purtroppo i partiti di Sinistra anche quella estrema con cui mi schiero - conclude Michele – ci aiutano poco”.

13 febbraio 2009

Fonte

  • Enrico Campofreda

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