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    (Capitale e lavoro)

    Il capitalismo e' in crisi

    Intervento del Sin.Base all'assemblea di Padova, 15 febbraio 2009

    (22 Febbraio 2009)

    Non possiamo non essere d'accordo con la sostanza del documento preparatorio all'incontro redatto dal MCC.
    Non di meno non possiamo rimarcare come questo punto d'accordo non sia ancora sufficiente a porci nelle condizioni migliori per trasformare una crisi pesante per la forza-lavoro in occasione per una ripresa del movimento operaio e comunista.

    CRISI “STRUTTURALE”

    La crisi è certamente strutturale, naturalmente nel senso di “congenita”, “connaturata” al modo di produzione capitalistico stesso. Più precisamente però deve essere definita come crisi di sovrapproduzione di capitale. Per questo, come la crisi finanziaria appare “causa” e non “effetto” della crisi stessa, così la crisi dei “consumi” appare causa e non effetto della sovrapproduzione di capitale e delle merci conseguentemente prodotte.
    La crisi, quella attuale come quelle precedenti, non ha radici nella produzione o nel consumo in quanto tali, termini peraltro corrispondenti essendo impossibile sia consumato ciò che non è prodotto, o prodotto ciò che non è consumato, ma nell'appropriazione privata del prodotto sociale, nel profitto, nel lavoro non pagato alla forza-lavoro essendo il suo consumo limitato dal carattere della sua appropriazione, cioè dal salario, a ciò che è necessario alla sua sopravvivenza sempre inferiore a quanto produce.
    A questo sottoconsumo congenito corrisponde un sovraconsumo altrettanto congenito, quello del capitalista, del profitto, che pur non apportando alcun valore, lavoro, alla produzione partecipa al suo consumo in quanto “proprietario” dei mezzi con cui la produzione è realizzata.
    Ma se la forza-lavoro si riproduce sulla base ristretta del salario, cioè mangiando, in qualche caso di più in altri di meno, tutti i santi giorni, non così il profitto che si riproce come “quota”, “saggio” o percentuale e quindi secondo un'andamento infinito. O Meglio. Supponendo che il profitto al quale qualsiasi capitalista sia disposto ad investire il proprio capitale in una qualsiasi attività sia del 10%, ciò non significa altro che investendo, ad es., 250 euro nella produzione, a fine dell'anno affinché sia disposto a reinvestire in quella produzione deve aver ricavato almeno 25 euro di profitto. Cioè, astraendo dalle sue non poche spese personali, reinvestirà non più 250 euro ma 275 ma solo per ricavarne 27,5 di profitto l'anno successivo al termine del quale il processo si ripeterà con i 302,5 euro ricavati per ripetersi ancora con i 332.75, con i 366 successivi secondo una progressione infinita, con una perenne avidità di fronte alla quale, sottolinea Marx, quella dell'usuraio appare dilettantesca.
    Diventa così evidente che a questa avidità permanente, prima o poi, in un modo o nell'altro, finisca per non corrispondere un consumo adeguato, per qualità e quantità, alla produzione necessaria a produrre il profitto preteso. La produzione diventa “eccedente”, il consumo “scarso”, in una contraddizione assurda che rivela la vera causa della crisi: il capitale eccede ormai la stessa capacità sociale di remunerarlo. La produzione si ferma, la società entra in crisi, pagando il suo pesante tributo alla proprietà privata del capitalista.
    Nel nostro caso però la crisi è stata dilazionata, o se si preferisce il profitto tenuto in vita, grazie alla dilatazione del credito in cui del resto operano capitalisti al pari di qualsiasi altro settore. Senza entrare nel merito della “tossicità” dei crediti emessi e trasformati appunto in “titoli” rivenduti sul mercato azionario, di fatto questa dilatazione del credito ha prodotto capitale fittizzio, virtuale, e soprattutto profitti altrettanto fittizzi (addirittura falsi, da reato penale) consentendo alla borghesia un consumo, o meglio, un sovraconsumo indispensabile a mantenere la produzione sotto la soglia della sovrapproduzione, cioè dilatando ed approfondendo la crisi così come la conosciamo, estendendola a livello planetario. Inevitabilmente il giochino si è rotto.
    Da anni questo “consumo” è stato alimentato con i profittti farlocchi della finanza speculativa incontrando il favore interessato di economisti e politici di ogni genere e fatta, meglio noti come “liberisti”, ultimo prodotto della sovrapproduzione stessa, ed anche questi da molti, troppi, sedicenti comunisti, considerati causa e non effetto della necessità di dilazionare la crisi stessa.
    In questo senso però anche alla forza lavoro sono stati dilazionati gli effetti della crisi, l'esempio più evidente è quello della forza-lavoro della Crysler, GM, Ford, ma ciò è valso in tutta l'economia mondiale, anche e soprattutto in Cina la cui produzione è stata sinora destinata al mercato estero e, significativamente, agli USA.
    La crisi del resto rimette in discussione anche i rapporti tra le potenze, la divisione internazionale del lavoro. I nuovi rapporti di potenza verteranno essenzialmente sul ridimensionamento degli USA giunto a maturazione.
    Ma restiamo alla crisi in senso stretto.
    La sovrapproduzione di capitale è la dimostrazione che la proprietà privata è entrata in contraddizione con lo sviluppo delle forze produttive. La lotta per la sopravvivenza della proprietà privata ha prodotto la dilatazione del credito, nell'eterna convinzione che non il lavoro sia fonte di ogni ricchezza ma il capitale stesso, il capitale nella forma più astratta, il denaro.
    In questa visione capovolta della natura della crisi, finanza/produzione, consumo/produzione, le misure adottate volte a ripristinare la “fiducia nei mercati” od alla “ripresa dei consumi” sono destinate a risultare ininfluenti se non “dannose”. In realtà queste “misure”, questi “piani” non sono solo volti a conservare le fondamenta stesse della società capitalistica, la proprietà privata, sono anche lotta, concorrenza, occasione per concentrare ulteriormente capitale, per nuovi rapporti di potenza sul mercato mondiale.
    Sostenere, come è stato fatto, le banche “intossicate” da titoli farlocchi significa infatti tenere in vita proprio i titoli “tossici” che si dichiarano causa della crisi ma ciò viene fatto non perché questa sia o possa essere una qualche “soluzione” della crisi stessa ma perché è semplicemente interesse delle oligarchie finanziarie il cui dominio sull'economia, e dunque sullo Stato è indiscutibile.
    In realtà l'unica “soluzione” sarebbe quella “naturale”, lasciati senza intervento al mercato i titoli tossici sono destinati a cadere inevitabilmente al loro valore, cioè zero. Con tutte le conseguenze per chi li possiede, per chi li ha usati parassitariamente, innanzi tutto banche ed istituti finanziari, “risparmiatori” inclusi. Consisterebbe nella catastrofica distruzione di capitale grazie alla quale il sistema capitalistico si riproporzionerebbe consentendone la ripartenza.

    CHI PAGHERA' LA LORO CRISI?

    Un prezzo è già stato pagato dalla classe operaia, in termini non solo salariali ma anche di forza e peso sociale. Il suo indebolimento, le concessioni lasciate sul campo non esenteranno la classe dal nuovo conto da pagare. Soprattutto pagherà ancora una volta per la sua mancanza di indipendenza, la sua inesistente autonomia dalla politica dei partiti e sindacati borghesi. Soprattutto dalle politiche keynesiane.
    Non crediamo sia possibile, sia concreta, l'alternativa “socialismo o barbarie”. Non possiamo illuderci, il futuro appartiene ancora alla barbarie capitalistica o ad una barbarie ancora peggiore, quella della guerra o della barbarie in senso proprio, di un catastrofico arretramento sociale.
    Non dipenderà però solo dalla crisi, dalla sua profondità ed estensione, il futuro della classe operaia dipende anche dalla classe operaia se sapremo almeno combattere la barbarie riprendendo il filo interrotto dallo stalinismo, ricostruendo un partito comunista. E' questo il primo obbiettivo che la crisi, indebolendo il rapporto borghesia-proletariato, porrà e che possiamo e dobbiamo porci.
    Come? Innanzitutto rigettando le cosiddette politiche keynesiane che, relegate al movimento operaio, hanno prodotto o meglio, hanno ben rappresentato il suo arretramento sociale.
    In questo senso operano tuttora politiche che pretendono un maggior “sostegno sociale”, vedi sinistra ex parlamentare, cui auspichiamo un ribadito fallimento elettorale alle europee.
    Dunque non chiediamo assistenza ma rivendichiamo la conservazione integrale del salario.

    ASSISTENZA

    Non possiamo farci illusioni. Lo Stato interverrà, è già intervenuto, rifinanziando gli ammortizzatori sociali con 8 miliardi di euro su 40+40 destinati alle aziende.
    La rivendicazione che ogni risorsa vada agli ammortizzatori sociali non è certo una rivendicazione rivoluzionaria in sé. Del resto nessuna rivendicazione che sia veramente tale, incontrando immediatamente la comprensione della classe operaia, può esserlo. La crisi la renderà comprensibile alla classe, se non alla più “aiutata” certamente a quella già precaria e diffusa. Ogni passo avanti su questa strada porrà in contrasto le destinazioni degli “aiuti” e chiarirà la natura dello stato meglio di tante conferenze su “Stato e Rivoluzione”. Per questo occorre rivendicare che “tutte” le risorse disponibili vadano agli ammortizzatori sociali, che nessuna risorsa sia sprecata per debiti farlocchi che ammontano ad almeno dodici volte il prodotto lordo mondiale, e quindi del tutto inutile, denaro sprecato anche in Italia, dove oltretutto si pensa con gli aiuti, ad ammodernare l'apparato industriale, cioè ad avvantaggiarsi nella concorrenza riducendo ancora il peso della forza-lavoro a spese della forza-lavoro stessa. Se le aziende, bancarie o manifatturiere che siano, sono “intossicate” che vadano pure a disintossicarsi in un tribunale fallimentare favorendo, tra l'altro, le aziende sane, unica strada per una più veloce ripresa dell'occupazione operaia.
    Nella misura in cui questa rivendicazione porrà in contrasto le destinazioni degli “aiuti” questa sarà “aiutata” dall'opposizione di qualsiasi frazione o strato borghese. Solo così la loro forza potrà essere, almeno in parte, per quel che possiamo e dobbiamo, rivolta contro se stessa.
    Qualsiasi risultato si ottenga è fondamentale che sia strappato con la forza. Che cioè rompa la cappa sindacal-clientelare con cui la classe operaia è stata sottomessa, ricostruendo la coscienza della propria forza sociale almeno in una minoranza della classe, base oggettiva di un partito comunista.
    Non abbiamo un partito ma proprio per questo abbiamo bisogno di tutto il rigore e la determinazione necessari a combattere tutte le posizioni “interclassiste”, tutti gli “aiutismi” e soprattutto ogni difesa del “posto di lavoro”, veicolo di ogni keynesismo.
    Non è il posto di lavoro ad essere redditizio, è il nostro lavoro a rendere redditizio quel posto.
    Questo il senso dello slogan che per tempo abbiamo posto all'attenzione di tutti i compagni:
    Tutte le risorse agli ammortizzatori sociali, tribunali fallimentari per i falliti!

    Sin.Base - Genova
    www.sinbase.org

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