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Gaza, Berlusconi lancia il vacanzificio

(3 Marzo 2009)

Due virgola otto i miliardi di dollari necessari per aiutare la Striscia di Gaza, uno e tre per la ricostruzione, uno e cinque per i deficit accumulati. E’ il tema finanziario su cui ottanta nazioni hanno partecipato stamane a Sharm el Sheik alla “Conferenza internazionale per l’economia palestinese e la ricostruzione” sotto la regia del raìs egiziano Mubarak. Novecento milioni di dollari sono stati promessi dal Segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, cinquecento milioni dall’Unione Europea per la quale parlavano il presidente di turno Solana e il francese Sarkozy, che affianca da due mesi Mubarak nell’iniziativa diplomatica fra Europa e mondo arabo. Di questa quota cento milioni di dollari sono stati promessi da un “benefico” (vedremo perché) Silvio Berlusconi, e un miliardo di dollari dall’Arabia Saudita. Tutte le elargizioni presentano comunque vincoli precisi. La Clinton, già nelle dichiarazioni che hanno preceduto il suo arrivo sul Mar Rosso, aveva fatto sapere che i finanziamenti “non potranno essere slegati da un piano di pace”.

E se la chiamata di correo impegna il principale attore del processo che è l’odierno politicamente instabile Stato israeliano, l’altro riferimento è per la componente di Hamas che statunitensi ed europei considerano tuttora un’organizzazione terrorista. Le richieste rivolte ad Hamas sono quelle di sempre, che Israele desidera: il riconoscimento della nazione dalla stella di David, la rinuncia a una pratica considerata terroristica. Gli uomini della fazione islamista, non presenti all’assise egiziano, vorrebbero essere riconosciuti come soggetto politico del popolo palestinese al pari di Fatah, con cui (assieme a una dozzina di altre organizzazioni minori) giorni fa al Cairo hanno stipulato un patto per costituire un’unica struttura rappresentativa. Previste entro l’anno anche elezioni legislative e presidenziali e la ricostruzione unitaria degli apparati di sicurezza. Un passo, magari tattico, ma importantissimo del quale nessuno dei convitati di Sharm ha voluto tenere conto. Non l’ha fatto neppure il sedicente fronte arabo moderato (costituito di fatto da regimi autoritari) che con gli sceicchi dell’Arabia Saudita agisce di concerto con quell’Occidente impegnato a dividere i palestinesi.

Fra i malleabili e collaborativi alla Abu Mazen, ormai rappresentante più di se stesso che di Fatah, e gli estremisti del fronte della resistenza a maggioranza islamica. E’ la logica con la quale negli ultimi anni s’è voluto comperare il collaborazionismo dell’Anp ben oltre le concessioni fatte da Arafat a Oslo, trasformandolo in appoggio alla politica israeliana, politica che l’amministrazione Bush ha avallato e una Comunità europea vassalla ha seguìto. I primi passi della Clinton nel Medio Oriente mediterraneo paiono smentire l’ipotesi del cambiamento di rotta obamiano: certi “ammonimenti” non sembrano tener conto né voler rispettare le scelte interne palestinesi che potranno a breve vedere unificata la rappresentanza in un rilanciato Olp o in una diversa sigla allargata alla stessa Hamas. L’ammiccamento è nuovamente rivolto a un presidente a mandato scaduto al quale si ripropone il subdolo baratto del “dollaro in cambio di resa”, altro che “pace in cambio di terra”.

La vecchia formula “due Stati per due popoli”, su cui ancora specula certa politica estera, non corrisponde a nessuna realtà. Per rivitalizzarla Israele dovrebbe fare il sacrificio che non vuole compiere: restituire i territori occupati dal 1967 compresa Gerusalemme est, smobilitare seicentotrenta check point, ritirare i trecentomila coloni insediati nel cuore della Cisgiordania e le gangsteriste presenze a Hebron e quelle speculative alla Ma’ale Adummin, dove il governo offre abitazioni sontuose a prezzi stracciati, su un’area che è Cisgiordania secondo gli stessi Accordi di Oslo. E ancora riportare a Tel Aviv Tsahal, abbattere il Muro dell’apartheid che ruba ulteriore terra e incarcera tutti. Si tratterebbe di rinunciare allo stillicidio della mano libera con cui Israele firma accordi senza rispettarli, continuare a imporre con la forza un colonialismo definito “diritto all’esistenza”. E nell’aria politica di quella nazione non c’è nulla che faccia presagire vie di cambiamento sia con un governo d’unità nazionale né con Netanyahu a braccetto di Lieberman e Yishai. Allora i soldi per la ricostruzione di Gaza potranno andar bene per i piani speculativi lanciati secondo lo stile da raider del business che caratterizza il premier italiano con le catene perverse di appalti, arricchimenti, tangenti che lo hanno reso celebre e potente. Per costruire cosa? A Gaza, oltre a rimuovere seicentomila tonnellate di detriti, si contano ventimila abitazioni lesionate, quattromila rase al suolo (e centomila sfollati che vivono sotto tende da campo), acquedotti e reti fognarie distrutte, e con loro sessantotto strutture pubbliche, trentuno istituti non governativi, trentasette scuole e moschee. Occorrerebbe ricostruire questo.

Forse lo si farà. Sotto il ricatto dello specioso padrinaggio politico le gru si muoveranno come si sono mosse nel 2002. Ma col rischio, come sosteneva qualche deputato di Bruxelles, che un prossimo ‘Piombo fuso’ dell’IDF ridurrà tutto a un nuovo cumulo di macerie. Anziché risollevare la questione politica d’una pace non unilaterale la diplomazia internazionale dà fiato agli show berlusconiani che straparlano di aeroporti turistici per la Terrasanta e progetti fra Mar Rosso e Mar Morto. Per farne cosa, nuove Coste Smeralde per le tasche d’élite? Le stesse opere pubbliche senza un controllo libero e autodeterminato della nazione palestinese rischiano di diventare come le superstrade che oggi attraversano tratti della West Bank per le quali si sradicano i pochi frutteti ancora in mano ai cittadini della Cisgiordania. Su quelle autostrade i palestinesi non transiteranno mai, sono al solo servizio di manager e autorità israeliane. O di coloni scortati dall’esercito.

2 marzo 2009

Enrico Campofreda

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