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8 marzo 2009 Giornata internazionale della donna

Per l’unità di classe tra uomini e donne, tra italiani ed immigrati

(7 Marzo 2009)

La giornata internazionale della donna è per noi un’occasione per ricordare la storia di occupazione e di massacro di un intero popolo, che dura ormai da 60 anni.
Dedichiamo l’8 marzo di quest’anno alla Palestina, e in generale a tutti i popoli che resistono e combattono per la propria liberazione.
Occupazione, embargo e i crimini quotidianamente commessi dagli israeliani a Gaza e in Cisgiordania colpiscono soprattutto le fasce più deboli della popolazione, ossia donne e bambini.
Gli ultimi mesi di stragi di civili, di bombardamenti di case, scuole e ospedali, confermano ancora una volta come l’obiettivo del vile stato israeliano sia quello di falciare le giovani generazioni, quasi nel terrore che tutti quei bambini si trasformino un giorno in combattenti e martiri.
L’assassinio deliberato di donne e bambini disarmati è stato, infatti, un elemento costante del progressivo sterminio di questo popolo.
Nei 23 giorni di invasione che ha avuto luogo dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, si stima che siano state riversate sulla striscia di Gaza un milione e mezzo di tonnellate di esplosivo.
Un fazzoletto di terra è stato letteralmente preso d’assalto da elicotteri Apache, F16, cannoni e artiglieria. Tante scuole bombardate, e così 40 moschee, alcuni ospedali, vari edifici dell’ONU e ovviamente 21mila case, di cui 4mila sono state rase al suolo.
Il 60% dei morti, che hanno raggiunto cifre enormi, è stato costituito da bambini.
Ma esiste un altro aspetto terrificante di queste invasioni rappresentato dall’uso di armamenti non convenzionali e dunque vietati, come le bombe al fosforo, i cui effetti sulla popolazione e sul territorio sono devastanti e a lungo termine.
Usa e Israele, con la complicità politica della totalità o quasi delle borghesie nazionali arabe ed europee, non solo torturano e uccidono, ma avvelenano la terra, il cielo e le acque di un popolo che da decenni resiste e lotta.

Essere palestinesi significa non avere controllo sulla propria vita, vivere tenendo conto dei coprifuoco, dei check-point e di un Muro che circonda i territori occupati, chiudendo in gabbia un popolo, ma non la volontà e il suo sogno di liberazione.
Essere bambini a Gaza significa respirare fin dalla nascita aria di guerra e di violenza, o morire per un proiettile alla testa mentre si va a comprare le caramelle.
Essere donne palestinesi significa spesso vivere per garantire la sopravvivenza fisica di se stesse e della propria famiglia mentre i compagni e i figli sono in carcere; significa partorire ai posti di blocco senza assistenza lasciando lì la propria vita insieme a quella dei figli; significa veder morire ogni giorno i propri figli senza poter fare niente.
Ma essere donne a Gaza significa anche prendere la strada della resistenza, della lotta e della prigionia.
Le donne palestinesi hanno sperimentato il carcere già dai primi tempi dell’occupazione: sono state torturate, picchiate, umiliate e violentate.
E con loro anche i bambini palestinesi, che normalmente vengono rinchiusi in cella insieme ai detenuti comuni israeliani allo scopo dichiarato di farli stuprare.
Del resto la tortura e la violenza sono state da sempre utilizzate per piegare la lotta di tutti coloro che, uomini e donne, hanno lottato e lottano contro le ingiustizie e l’oppressione imperialista.

Noi crediamo da sempre che la questione sia generale, e che riguardi indistintamente uomini e donne di tutto il mondo.
Si tratta di un sistema sociale, politico ed economico che si nutre di guerre, di oppressione, di violenza, di ingiustizia sociale e di sfruttamento di uomini su altri uomini, e di uomini sulla natura.
E’ il capitalismo, e un capitalismo in crisi, e quindi dal volto ancora più terribile.
Nessuna briciola, nessuna concessione, nessuna riforma per garantire un minimo consenso sociale.
Siamo nella fase storica della guerra di tutti contro tutti, di una triste guerra tra poveri, tra uomini e donne della stessa classe, e sempre di più guerra contro il nuovo nemico pubblico, l’immigrato.
Purtroppo ogni giorno in Italia e nel mondo chiudono fabbriche e aziende, centinaia di lavoratori perdono il posto di lavoro, e ovunque la preoccupazione sempre più dilagante non è rivolta alle condizioni di lavoro o ai diritti connessi, ma solo al mantenimento del lavoro stesso.
L’aumento della disoccupazione produce un aumento della ricattabilità cui è esposto oggi un lavoratore, soprattutto se precario e non garantito come è caratterizzato oggi la maggior parte del mondo del lavoro.
Tutto ciò innesca purtroppo una misera lotta per la sopravvivenza che si scaglia inevitabilmente contro coloro che oggi impersonificano il rischio della perdita o della mancanza di lavoro, ossia gli immigrati. Gli immigrati che sono disposti ancora di più degli italiani a rinunciare ai diritti, ad accettare paghe da fame, a rischiare e perdere la vita su un posto di lavoro in cui non viene rispettata nessuna norma di prevenzione e sicurezza.

E’ in questo clima politico che vengono siglati accordi neocorporativi tra Governo e sindacati, come la recente controriforma del CCNL, che rappresentano un attacco pesantissimo per il futuro di tutti i lavoratori, o l’innalzamento a 65 anni dell’età pensionabile per le lavoratrici del pubblico impiego.
E proprio di recente il Governo ha varato una pesante ristrutturazione del pubblico impiego, ispirandosi demagogicamente alla nenia del “pubblico dipendente-fannullone”, ma che in realtà si è resa necessaria per reperire soldi in un settore per anni protetto e tenuto senza controllo.
Certo la recessione c’è, ma spesso viene opportunamente enfatizzata allo scopo di raggiungere obiettivi di natura economica e sociale ben precisi.
Da un lato si toglie salario ai lavoratori per trasferirlo alle aziende in crisi (e insieme ai lavoratori anche lo Stato dà il suo contributo, così i lavoratori ci perdono due volte) e, dall’altro, si capitalizzano normative che riportano indietro di decenni tutto il mondo del lavoro, e non solo.

L’aumento della disoccupazione e in generale della povertà determinano al contempo un aumento della criminalità e della violenza.
Da sempre, in particolare, violenza contro le donne. Una violenza consumata spesso all’interno dei “focolari domestici”, dove donne e bambini vedono spesso riversare su di sé le frustrazioni degli uomini.
Ma nonostante sia documentato il fatto che le violenze e gli stupri siano commessi in Italia per lo più da italiani, e nello specifico all’interno della famiglia, ancora una volta si grida allo stupro di rumeni e marocchini. E via telegiornali e approfondimenti sui dettagli dello stupro insieme agli autocomplimenti della polizia scientifica che si rallegra delle proprie investigazioni.
Ecco il via libera ai vari pacchetti sicurezza, alle ronde contro gli immigrati e alle leggi “antistupro”, come se bastasse una pena più severa per combattere lo stupro e la violenza contro le donne, e in generale.
Ogni anno per l’8 marzo la televisione e i giornali parlano o di aborto o di stupro.
Quest’anno è “toccato” allo stupro.
Ma ciò che conta è che anche in questo caso la logica che ha mosso questo dibattito e la legge che ne è seguita è stata quella di sferrare ancora un altro attacco materiale (con inasprimento di pene per gli immigrati, ossia ancora reati “ad personam”,) e culturale.
Il nemico è ancora l’immigrato: nel privato e nel sociale.

Noi crediamo che la tendenza di questa società sia quella di creare dei “soggetti deboli”, le donne come gli stessi immigrati.
Le donne sono da sempre “deboli”, sfruttate fuori casa e in casa, alle prese con un lavoro domestico in realtà pesantissimo che va dalla cura della casa alla cura di figli e anziani.
Gli immigrati sono in questa fase bersaglio culturale, e dunque soggetto anch’esso estremamente “debole”.
Questa dinamica favorisce una maggiore frammentazione sociale e di classe, con un conseguente abbassamento del livello di conflittualità, ossia di lotte per la conquista di diritti e il cambiamento di questo sistema sociale.

Di fronte a questa deriva razzista e reazionaria noi vediamo una sola risposta: l’unità di classe tra uomini e donne, tra lavoratori immigrati e lavoratori italiani, la risposta della solidarietà sociale. Il nemico non sono gli immigrati, ma i padroni e chi li serve.

Toscana del Nord, 8 marzo 2009

I compagni e le compagne del Laboratorio Marxista

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