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1999-2009. Quando la criminalità organizzata e i suoi lacché stuprarono la Jugoslavia

(27 Marzo 2009)

Belgrado.
E’ il 24 marzo 2009 e io sto dicendo delle cose a un paio di centinaia di persone. Ma le parole escono e se ne vanno come per conto loro, come quando la Bialetti spurga il caffè e certamente non pensa “caffè”. Anch’io non penso a quello che sto dicendo. Non ce n’è bisogno. E non perché questo discorsetto al seminario del Forum di Belgrado per un Mondo di Uguali, nel decennale dell’aggressione Nato a quel che restava della Jugoslavia, l’abbia preparato con grande accuratezza, quasi a memoria. Piuttosto perché quei concetti, che ora viaggiavano come suoni nell’enorme sala del Centro Congressi Sava, erano sedimentati, solidificati, avevano la consistenza della gramigna che non richiede preparazione, cure. Sono cose che mi porto dentro fin da dieci anni fa, fin da quando mi trovai a puntare la telecamera sulle facce ferme e sui canti del popolo di Belgrado allineato sul ponte Branco, inerme, in una sfida ai codardi killer dal cielo, killer della Nato, killer come l’inserviente al pezzo Massimo D’Alema. Sul ponte Branco c’era Antigone. Target , noi siamo pronti a morire, voi no, voi solo a uccidere. Noi siamo l’umanità, voi la barbarie. Ma poi non importava neanche tanto quanto andavo dicendo, lì, in quella specie di cosmodromo. Prima di me avevano parlato ben altre voci, ben altri testimoni di quel nuovo mare di sangue sgorgato dal cuore d’ Europa dopo il mattatoio interimperialista della II guerra mondiale. Clinton e i suoi eurosbirri ne avevano fatto il tappeto rosso per gli stivali chiodati di chi si apprestava alla “guerra infinita”. Al richiamo di Zivadin Jovanovic, già ministro degli esteri del martire Slobodan Milosevic e indomabile cultore della memoria, dell’accusa e della promessa serba, con il suo Forum di Belgrado, erano accorsi Ramsey Clark, l’altro americano per eccellenza, sempre primo a fianco delle vittime di quella nazione di cui era stato ministro della Giustizia, Michel Chossudovsky, il controinformatore canadese con sulla penna le tacche dei tanti disvelamenti di delitti e inganni Usa, Peter Handke e Juergen Elsaesser, gli scrittori di lingua tedesca che hanno rovesciato il paradigma imperialista, con i suoi ottusi orecchianti dei partiti di “sinistra”, che rovesciava l’equazione carnefici-vittime nel suo contrario. E Diana Johnstone, la prima, grandissima vindice della verità di quanto davvero succedeva nei Balcani e nel Kosovo affidato dall’impero ai suoi gangster di passo.
Tanti altri, da quattro continenti. E poi i serbi che non si rassegnano.

In quella specie di dissociazione per la quale le parole andavano da una parte e i pensieri da un’altra, vedevo non le ordinate file di banchi e poltrone di un auditorio, con quella folla di inconsolabili della Jugoslavia perduta, della Serbia mutilata, della verità negata, ma rivedevo sotto il palco nella grande piazza della Repubblica, scintillante di tricolori con la stella rossa al centro, una folla tumultuante con i target della sfida e della dignità fissati sul petto. Una folla che invocava e assicurava resistenza. La Serbia era ancora viva, la Jugoslavia non era ancora persa. In Europa non tutto era precipitato nella collusione con i demoni, nella melma della resa. Da quel palco, e poi sui giornali e alle televisioni che mi intervistarono, dissi una frase per la quale in Italia i compagni – i compagni! – mi avrebbero poi pesantemente strigliato: “Meglio serbo che servo “. Facile assonanza, vero, ma sacrosanta verità. Scandalosa per coloro che si erano acconciati a scimmiottare le perfide demonizzazioni degli “ipernazionalisti serbi”.

Quando la mattina dopo le prime bombe su Belgrado, nella riunione di redazione del TG3, ci venne impartita la nozione dell’ “intervento umanitario” , da sostenere come verità incontestabile, Giovanna Botteri si scaraventò sui profughi kosovari per estrargli, a colpi di ricatti umanitari (ricordate i campi dalemiani dell’Operazione Arcobaleno, poi finiti sotto processo?), orrori e anatemi sui serbi, io lasciai la Rai per sempre e me ne andai con una telecamera a Belgrado. A Novi Sad erano stati disintegrati i più bei ponti sul Danubio e la raffineria in fiamme spargeva veleni nel fiume e nei polmoni, a Pancevo l’enorme complesso petrolchimico bruciava e assolveva alla funzione assegnatagli dalla Nato di contaminare acque, terre, aria a futura moria di questo “popolo di troppo”. A Belgrado due missili sventrarono l’albergo al quale eravamo destinati e, un attimo dopo, l’ambasciata di un paese, la Cina, che non condivideva l’accondiscendenza del fedifrago russo Eltsin nei confronti degli aggressori: a buon intenditor, un paio di missili. C’è una frase dolorosa che ricorre in Serbia, “ci fosse stato allora Vladimir Putin!”. Il modo con cui la Russia di Putin ha saputo risollevarsi dalle vergogne degli oligarchi mafiosi ossigenati dagli Usa, con cui ha saputo rispondere all’avventura sanguinaria contro l’Ossezia del manutengolo georgiano, rende bruciante il rimpianto.

Venivano disintegrati ospedali, scuole, asili, case, ponti, treni, centrali elettriche, tra i 3.500 uccisi da Clinton e dai suoi furieri europei c’erano i bambini delle incubatrici cui era venuta a mancare l’elettricità. Già allora, prima di Baghdad, prima di Gaza, si capiva che gli interventi umanitari erano mirati a eliminare pezzi di specie umana. Oltrechè a distruggere infrastrutture la cui ricostruzione poi, a colonizzazione completata, avrebbe gonfiato i forzieri delle imprese dei paesi assassini. Da Vienna, dove era scappato, il serbo Djindjic dettava ai topgun gli obiettivi da colpire. Sarebbe poi stato innalzato al rango di premier-fantoccio da coloro cui aveva venduto la sua gente. Ma una mano ignota gliela avrebbe poi fatta pagare e avrebbe restituito scampoli di dignità ai serbi.

La Zastava, la più grande fabbrica dei Balcani, cuore operaio della Serbia del socialismo autogestito, era stata polverizzata da 22 missili, lanciati anche sugli operai postisi a scudo umano del lavoro. C’erano testate all’uranio, sulla Zastava, come sull’aeroporto militare di Belgrado e su tanti altri obiettivi. Nella prima guerra del Golfo avevano dato buona prova: nel giro di quattro anni i casi di cancro erano decuplicati e bambini deformi, senz’occhi, senza genitali, con le braccia monche che nascevano dallo stomaco e i crani aperti sulla materia cerebrale, nascevano più numerosi dei figli dell’agente Orange di memoria vietnamita e della massima stragista imperiale Monsanto (oggi in azione con gli OGM). Ci ricevettero i dirigenti sindacali che, con la fuga dei padroni, Fiat in testa, si erano messi a capo delle macerie e da subito avevano iniziato a rimettere mattone su mattone, ferro su ferro. Uscendo da lì, ci inseguirono due missili. Ricordo, accanto a noi buttatici dal pullman, un Raniero La Valle che, con i suoi corti passetti, trotterellava impassibile a esaminare i crateri. Non c’era solo Djindjic, c’erano quelle pustole di vaiolo che sono le spie. Tempestivamente telefonavano a chi di dovere, solitamente ad Aviano, con l’indicazione di qualcuno o qualcosa da azzerare. Li abbiamo avuti anche a Gaza e, giustamente, non sono sfuggiti alla punizione di Hamas. Intanto a Nis piovevano bombe a grappolo destinate al mercato pieno di gente e su Fruska Gora, il più bel parco naturale dei Balcani, i bombaroli avevano esercitato il loro odio per l’integrità di ambiente e animali. Contemporaneamente il Kosovo, in difesa del quale si pretendeva di aver allestito quell’apocalisse, veniva annegato nell’uranio. Serviva a far scappare torme di terrorizzati da attribuire alle “atrocità” serbe.

Un anno dopo, solo un anno dopo, la Serbia si era rimessa in piedi. Una riserva di vita e di volontà non stroncata neanche da dieci anni di feroci sanzioni e poi dalla più feroce aggressione prima dell’Iraq. Due ponti su tre a Novi Sad erano tornati transitabili, la Zastava, un autentico prodigio dell’orgoglio operaio, rarissimo bene nell’ imbastardito Occidente di oggi, aveva già ripulito tonnellate di detriti e rimesso in funzione due linee di montaggio. C’era un fervore di ripresa che aveva un grande e nobile riferimento, il presidente della Federazione ancora jugoslava, Serbia-Montenegro, Slobodan Milosevic. Più diffamato di lui, con la piena complicità dell’idiozia o del servilismo delle sinistre, c’è forse solo Saddam. Toccava toglierlo di mezzo. E chi meglio del fidato Djindjic? Attuato il colpo di Stato del’ottobre 2001 con le milizie “nonviolente” di Otpor, primo esempio di “rivoluzione colorata” organizzata dalla cosca George Soros-National Endowment for Democracy”- Cia, Djindjic consegnò l’estremo difensore di una sovranità e di un socialismo in Europa a una delle più nauseanti prostitute nella storia della magistratura mondiale, Carla del Ponte, pubblico ministero nel tribunale dell’Aja, illegittimamente allestito e pagato dai cannibali Usa, con per presidente un’altra oscenità europea, l’italiano Antonio Cassese (successivamente impiegato per la destabilizzazione colonialista del Sudan). Djindjic ricevette 30 milioni di dollari. La cifra trenta ne sancisce l’identità.

Dal TG3 ero passato a “Liberazione”, il foglio del PRC, allora sotto il compagno comodissimo a tutti e a chiunque, Sandro Curzi. Ne ero l’inviato ufficiale nei Balcani. Rispondevo, oltreché a Curzi, di cui ogni arto pendeva dai fili di Bertinotti, a un certo Salvatore Cannavò, caporedattore esteri che, in combutta con il responsabile esteri del partito, Ramon Mantovani, faceva in modo che la linea del giornale su avvenimenti come l’assalto Nato alla Jugoslavia, o il genocidio israeliano dei palestinesi, o la satanizzazione degli iracheni, fossero compatibili con lo scavo che il monarca stava compiendo per penetrare dal basso nei salotti del potere ufficialmente avversato. Difatti, prima di rendere l’anima politica a un giusto signore, la nuova talpa Bertinotti venne premiata con la terza carica dello Stato. Le mie corrispondenze da sotto le bombe e poi dalla Jugoslavia che si rimetteva in piedi e in sesto già avevano sollevato malumori bertinotteschi e i rimbrotti del suo ancellame giornalistico. Ma questo fu niente rispetto a quanto mi capitò nell’ottobre belgradese del 2001. Elezioni vinte dalla sinistre, schede della vittoria bruciate in parlamento da Otpor, l’organizzazione di miliziani Cia che poi avrebbe istruito gli affini in Ucraina, Georgia, Libano, Turkmenistan, Venezuela (dove li smascherarono e buttarono fuori a calci), Milosevic agli arresti domiciliari, la teppa in piazza a bloccare il paese, massacrare di botte sindacalisti ed esponenti di sinistra, occupare la Tv. Scrissi tutto questo, mandai le interviste con i capi di Otpor che, fierissimi, ammettevano di essere “sostenuti dal servizio segreto del più grande paese democratico” , di essere stati addestrati a violentissimi moti di piazza nonviolenti da generali Usa a Budapest, di vaticinare una Serbia Nato piena di multinazionali “attirati da una forza lavoro qualificata e a basso costo”. Al rientro scoprii che Cannavò aveva cestinato tutto. Anche un articolo in cui ponevo a paragone i nostri lager per Rom ai quartieri di belle case allestite per i Rom dal governo serbo e dalle associazioni di solidarietà ad esso riferite: “Troppo filoserbo ” rampognò il Cannavò, “sei forse pagato da Milosevic?” Meno male che per rispondere a questo supergiornalista, oggi ahinoi dirigente di una micropartito trotzkista (“Sinistra critica”, che forse sta per “in condizioni critiche”), non mi sarebbero bastate le cadenti forze di vegliardo. Incompetenza, boria, cretinaggine e ingnoranza abissale della professione furono infine coronate dal rifiuto di pubblicare la mia intervista a un Milosevic che, dalla frode inflittagli con l’accordo di Dayton da Richard Holbrooke (oggi comandato dal buon Obama ad analoghi uffici in Afghanistan e Pakistan), fino al momento del suo confinamento ai domiciliari, mi aveva rifatto la largamente ignorata storia della cospirazione contro il suo paese. “Sembreremmo appiattiti su Milosevic”, spiegò la virago che allora faceva da vice a Curzi e che poi Bertinotti premiò con lo scranno in parlamento. Lì prese coerentemente a svolgere i suoi servigi su Saddam e sull’Iraq. Era l’ultima intervista concessa dal presidente prima del suo rapimento e consegna agli sgherri dell’Aja. A pubblicare l’intervista fu poi il “Corriere della Sera” che gli scoop li riconosceva.

Dall’inizio della strategia balcanica messa in campo dai determinati eredi di fascio e svastica fin dai primi anni ’90 e del tutto integrata alle mire della banda Usa-UE di rapina, distruzione e genocidio, i nostri sinistri avevano, per la parte ottusa, studiato e capito niente, forti di presunte e arroganti eredità analitiche e, per la parte rinnegata, opportunisticamente e vilmente allineato le proprie valutazioni alle truffaldine macchinazioni delle élites guerrafondaie. Coprendosi le vergogne collaborazioniste con piagnistei sulla “violenza di tutte le parti” , erano partiti in pellegrinaggio per Sarajevo contro il “nazionalismo” di chi difendeva quella che era stata la più avanzata esperienza sociale d’Europa dai veri nazionalismi etnico-confessionali. Tribalismi e sciovinismi con cui si puntava a frantumare il pluralismo democratico della Jugoslavia, eliminare uno spazio di sovranità che impediva l’espansione del brigantaggio Nato verso Est, liquidare un modello di organizzazione sociale non capitalista, creare corridoi energetici a dominio multinazionale, costituire mafiostati proni a ogni ricatto imperialista, stabilire nel Kosovo etnicamente pulito dai serbi e da altre minoranze riottose il proconsolato di bande criminali che garantissero il transito verso i mercati occidentali di quel flusso di stupefacenti al quale si affidava un ruolo importante nella salvezza del sistema. Il tutto garantito dalla più grande base militare Usa, la Bondsteel kosovara, costruita nel mondo dopo il 1945.

A questo scopo servivano un “dittatore” Milosevic che, reggendo un paese dai venti partiti politici, dei quali 18 di libera opposizione e al governo nelle maggiori città serbe, con una stampa al 92% asservita agli interessi occidentali, era probabilmente il più democratico governante d’Europa; una “pulizia etnica” nei confronti di kosovari albanesi che era la deformazione della legittima difesa di uno Stato sovrano dall’eversione banditesca ordita a Washington, Roma, Berlino, Vaticano e che culminò con l’espulsione di 300mila serbi e rom e la distruzione di 150 monumenti storici serbo-ortodossi; una “tragedia bosniaca” sostenuta dalla balla Nato e sofriana di granate “serbe” sul mercato di Sarajevo, che erano invece partite da cannoni bosniaci (modello 11 settembre), e corroborata da una falsa “strage di Sebrenica” che serviva a coprire le vere stragi compiute dal bosniaco Naser Oric ai danni dei villaggi serbi; la satanizzazione dei leader serbi Karadzic e Mladic cui si doveva negare il sacrosanto ruolo di difensori di una comunità serba che si rifiutava di restare vittima della riconfigurazione colonialista dei confini.

Tutto questo doveva poi trovare la sanzione definitiva nel processo e nella condanna all’Aja di Slobodan Milosevic, sotto la ferula, teleattivata da Washington, di Carla Del Ponte. Un obbrobrio giudiziario, ripetuto poi nei confronti di Saddam Hussein, con il quale si puntava ad occultare sotto una sentenza abnorme le spaventose responsabilità euro-statunitensi, comprese quelle del recidivo criminale di guerra D’Alema (“Lo rifarei” , dichiarò il barbieruccolo di Gallipoli all’atto della consacrazione dell’indipendenza del narcostato kosovaro), nelle devastazioni e negli stermini di massa della Jugoslavia. Il gioco fallì per la totale incapacità di dare credibilità anche ad una sola delle mille nefandezze attribuite al presidente jugoslavo. Di fronte alla sua coraggiosa e documentata azione difensiva si sgretolarono tutte le accuse e al sicario Del Ponte e ai suoi mandanti non rimase che fare morire Milosevic in carcere, lui e altri coimputati. Gli fu negata l’assistenza sanitaria che i cardiologi russi avevano diagnosticata indispensabile e che si erano dichiarati pronti a fornirgli.

L’intera, mostruosa costruzione di menzogne allestita da chi stava sbranando una preziosa, insostituibile, componente progressista d’Europa fu sostanzialmente condivisa dalle sinistre italiane. Cannavò e soci fondevano lacrime di coccodrillo sulle vittime dell’aggressione con l’avallo incondizionato a tutte le mistificazioni che dovevano agevolare l’aggressione e, da noi, l’azzeramento dell’articolo 11 della Costituzione. Gli ascari di Otpor, già riconoscibilissimi allora, furono salutati come “costola del movimento pacifista e no-global” e invitati a convegni e celebrazioni. Gli sprovveduti e equivoci Disobbedienti di Casarini facevano comunella a Belgrado e a Padova con i provocatori di Radio B-92, del circuito Cia di “Radio Liberty”, riccamente foraggiati dal destabilizzatore ebreo ungherese George Soros. Il rovesciamento golpista del patriota Milosevic fu salutato da “Liberazione” con l’indecente e criminale titolo “Belgrado ride”. Il “manifesto”, sul quale Tommaso di Francesco, del tutto sprovvisto di autonomia di giudizio, insiste a cianciare di “contropuliza etnica” nel Kosovo affidato al governo dei narcotrafficanti e tagliagole Hashim Thaci e Agim Ceku, avallando così la truffa di una mai esistita pulizia etnica serba, non fu da meno e titolò: “La primavera di Belgrado”. Ennio Remondino, salutato come l’alternativa onesta alle tendenziosità dei trombettieri dell’imperialismo che imperversano sui grandi media, ancora oggi non manca di infiorettare i suoi funambolismi retorici sui Balcani con il riferimento al “despota” Milosevic.

Non stupisce se con questo retroterra mediatico e politico, siano sparute e imbelli in Italia le realtà organizzate che si propongono come fonti di informazioni e solidarietà con i popoli massacrati della ex-Jugoslavia. A parte qualche minuscola, ma dinamica e generosa presenza a Torino (“SOS Jugoslavia”, pure presente a Belgrado con Enrico Vigna) e a Bari, che opera tentativi di memoria, solidarietà materiale e aggiornamento, esiste un autoproclamato Coordinamento Nazionale della Jugoslavia che riunisce intorno al classico capetto autocentrato alcuni nostalgici ben intenzionati, ma impegnati più che altro nell’archeologia balcanica e nella estenuante rievocazione dei delitti storici del fascismo da quelle parti. Quello che sarebbe il compito fondamentale di una costante informazione sugli esiti attuali dello stupro jugoslavo, di assidui contatti con quel poco che, particolarmernte in Serbia, ancora si muove a contrastare la devastazione sociale e ideologica e la spinta dei governanti fantoccio verso la svendita della Serbia all’Unione Europea, viene sostituito dalla ricerca di ombrelli politici alterni, caratterizzati da frustrati settari dell’autopromozione politica. Massima preoccupazione pare essere la gara a impedire che altri possano assumere ruoli di interlocutori fattivi con le forze della resistenza. Un classico della disperante sinistra italiana.

Il messaggio dominante di tutte le voci del seminario di Belgrado è stato la denuncia di una Nato che, con il concorso del bombardiere D’Alema, in piena aggressione era stata trasformata da alleanza difensiva in strumento di offesa bellica a raggio mondiale. Quella Nato, con le sue basi che fanno, insieme al servilismo di tutti gli schieramenti politici succedutisi al governo in Italia, del nostro paese un paese vassallo, del tutto privo di autonomia e sovranità, i cubani la chiamano “il patibolo dell’umanità”. Atterrisce vedere come dal discorso delle forze di sinistra italiane, nessuna esclusa, quelle voci siano state del tutto espunte e a parlare di sovranità da recuperare, di basi da chiudere, di Nato da scacciare si passi per polveroso residuato di battaglie fuori tempo. Allora, ancora una volta, “meglio serbo che servo”. Terminato il seminario c’è stata una manifestazione nella centrale Piazza della Repubblica. Poche persone, forse tremila, per un evento di tale portata. Una folla smarrita e confusa. Nessun Milosevic all’orizzonte. La Jugoslavia svanita dall’immaginario collettivo, il partito di Slobo, il socialista, cooptato nel governo dei fantocci. Tanta frustrazione e tanta rabbia che s’incanala verso velleitarismi impotenti: “Dateci le armi!” gridavano gruppi di teste rasate sotto le bandiere della Jugoslavia monarchica e poi, tremendo, “via i comunisti !”, con qualche sassata al gruppetto del comunista Titanovic. Il trauma, l’abbandono di tutti coloro che avrebbero dovuto essergli vicini, a parte la Russia nuova, nessun segnale di amicizia, di solidarietà. Tutti d’accordo sulle bugie che strangolarono la verità dei serbi. Non c’è rassegnazione, forse, ma stagnazione sì, e disorientamento. Hanno fatto più danno i rinnegati e disertori che il nemico. Come sempre. Sul ponte Branco non c’è più nessuno. Penso che anche i palestinesi dopo essere stati annichiliti e squartati nel 1948, ci misero vent’anni prima di riprendere coscienza di sé e generare i fedayin e poi le intifade e poi l’eroica resistenza di Gaza.

Lungo la Kneza Mihaila, l’isola pedonale dei bei negozi al centro, sfilano ancora le filiformi bellezze belgradesi, bionde che si consolano tirandosela come se l’avessero inventata loro. I negozi esibiscono le trucide griffe italiane, c’è Banca Intesa, italiana, Banca Raiffainer, austriaca, la Deutsche Bank. Nelle grandi librerie quando gli chiedi qualche testo di teoria politica, Marx, Engels, ti guardano come se avessi chiesto un osso di dinosauro. Non ce l’hanno. Il palazzetto liberty dove s’erano insediati gli infiltrati di Otpor e che avevo visto in pieno embargo luccicante di computer e telefonini modernissimi, scrivanie di mogano e arredi nuovi di pacca, è abitato dai manager dei nuovi predatori. Finisco in quella che era la mia trattoria preferita. Al posto dell’anziana ostessa dagli occhi strabici e dall’affettuosità casareccia verso gli ospiti, tutti subito amici, c’è un grosso tizio con la testa a cocomero, con lo sguardo fessurato e infido, pare Gennaro Migliore. Non ha sorrisi, non ce l’ha quasi nessuno da queste parti. Ma quando arriva un trio trambustoso e vociante, dall’aria inconfondibile dei boss, si piega in due, offre tavoli, sposta sedie, allarga le fessure a smisurato sorriso, sposta verso di loro una stufa a gas che prima mi stava accanto.

Al tavolo di fronte, sola, con una sigaretta dopo l’altra tra le lunghe dita bianche, una donna immobile. E’ sui quaranta e, dunque, non può non averle viste tutte. E’ pallida e le ciglia tracciate dalla matita scorrono alte, come usava in decenni lontani, su occhi che non piangono ma sanno di pianti e che fissano qualcosa che non sta nella stanza, ma dentro di lei. I capelli sono lunghi e lisci sulle spalle e hanno una ricrescita di settimane. Ogni tanto guarda la punta della sigaretta, poi la tovaglia, ma sono certo che non vede quello che guarda. Quando rivolge gli occhi per un attimo verso di me, lo sguardo si arena molto prima di raggiungermi. Tutto quello che guarda pare essere chiuso dietro la barriera dei suoi pensieri. E’ bella ed è stanca. E’ come immersa in un vuoto immenso. Sopra, sulla parete, la classica icona alla bizantina della madonna col bambino. E’ lì da quando sono entrato. E’ lì immobile quando me ne vado, dopo più di un’ora. Aspetta. Che cosa aspetta? La sua solitudine è peggio di Gaza. Credo che si chiami “Serbia”.

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