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La pietà delle banche

La pietà delle banche

(15 Febbraio 2012) Enzo Apicella

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    «Scavare buche, al solo scopo di riempirle»

    (2 Aprile 2009)

    In questa occasione, abbiamo voluto “fondere” il bollettino ed il periodico, data l’eccezionalità del periodo storico, che i lavoratori, aldilà delle nazionalità, stanno percorrendo.

    Tenteremo una sintesi, forse caotica, di un processo dialettico, che travalica determinate peculiarità soggettive ed atomizzate, privilegiando l’insieme da esse composto, perché, riteniamo, che solo l’esatta percezione dell’ indiviso ci possa far comprendere la complessità dei fenomeni che vogliamo conoscere.

    Dell’attuale crisi economica abbiamo già parlato in altri contesti. Chi ci ha letto, conosce le nostre posizioni e sa che riteniamo l’attuale condizione derivata da un eccesso di sovraproduzione: per produrre valore, occorre vendere merci; la loro vendita produce plusvalore; il mercato finanziario ruota intorno a quest’ultimo, implementando un vorticoso giro di transazioni, anche attraverso l’invenzione di nuovi strumenti. La contrazione salariale, la precarizzazione del lavoro, hanno prodotto riduzione della domanda ed insolvenza nei pagamenti, concomitanti alla speculazione finanziaria.

    Stiamo semplificando, ma non dobbiamo dimenticare, che l’attuale crisi, ha dietro di sé un trentennio caratterizzato da altre crisi che hanno investito, oltre l’economia, la politica, la cultura e l’ambiente: un liberismo senza freni, dove deregulation e libera iniziativa, sono state le parole d’ordine prioritarie. La globalizzazione, la speculazione estrema, la maniacale finanziarizzazione del plusvalore, hanno fatto il resto, mentre gli apparati statali, sempre più soggetti al capitale, hanno sostenuto il castello di carta, finanziando con denaro pubblico le imprese, ed appaltando loro lavori pubblici. Ma quale liberismo!

    Paradossalmente ( ma non tanto ), è il capitale il maggior fautore dell’intervento statale e proprio nei periodi di crisi, per evitare le possibili rivolte sociali, che chiede sostegno al consumo con piani d'intervento statali.

    Che spesso non riescono, come dopo il ’29, sfociando in conflitti, nonostante i vari fascismi avessero usato tali “rimedi”.

    Oggi, non sentiamo altro che parlare di regole e correttivi, ma il capitale o si fa sempre più capitale, o è destinato a perire. Una sua peculiarità è produrre continuamente, anche la povertà, alla quale, comunque, provvederà lo “stato sociale”, il “welfare state”, tramite la spesa pubblica garante della redistribuzione del reddito, atto a garantire i consumi ed avversare l’anarchia insita nel sistema-capitale: il welfare diviene così, per il capitalismo, elemento salvifico e fautore di nuova accumulazione. Perché? Perché il welfare non è solo sostegno al reddito attraverso le sue variegate forme ( sanità, trasporti, edilizia popolare …), ma anche incentivi all’industria e leggi a sostegno della produzione. Senza dimenticare, come la storia del nostro paese insegna, quell’ibrido consociativismo, che vede politica, sindacato e capitale creare organismi sussidiari ( cooperative, enti bilaterali, assicurazioni, banche, enti di formazione…), radicati nei territori e che equamente si spartiscono la torta. Una sorta di governace ( “atomizziamo” momentaneamente il discorso ), che ben si attaglia alle Province nella gestione dei Servizi per l’impiego, divenuti erogatori di politiche “sociali” inconcludenti, estemporanee e clientelari, attraverso pseudo-programmi, buoni solo a livello mediatico ed elettorale. Propinare antiche ricette ritenute miracolose non aiuta, e mostra solo l’incapacità di certa politica a reagire ad un processo che si ritiene irreversibile, opponendo, al massimo, banali soluzioni temporanee, prima di ritornare nel dorato giaciglio da cui è stata svegliata, piuttosto che andare dove c’è il lavoro delle donne e degli uomini. “I servizi per l’impiego, infatti, non servono a trovare l’occupazione se l’occupazione non c’è…. Una cosa è certa, ovvero che procedure e strumenti sono funzionali agli obbiettivi, ma se manca la politica, ovvero se manca un’idea che noi possiamo chiamare di coesione sociale nello sviluppo locale, gli strumenti non risultano adeguati in quanto rimangono affidati a se stessi e diventano soggetti autoreferenziali…. E si tratta di rivedere politiche che rischiano di privare la Pubblica Amministrazione di strumenti pieni di governo delle dinamiche che le politiche pubbliche hanno la necessità di assumere come propri obiettivi…nella preselezione,come sistema pubblico, occorre dare delle garanzie di trasparenza, di serietà e di professionalità che altrimenti altrove non si trovano”.

    Da una parte si salvano le imprese e le banche, dall’altra si elemosinano i lavoratori. Il resto è vuoto spinto, salvo pararsi dietro qualche legge elettorale per il reddito garantito, che nasce senza fondi certi. Per anni taluni sindacati e certa politica hanno concertato, mediato, tergiversato. Oggi, più che blaterare a difesa dello stato sociale, piagnucolare contro il “cattivo” capitalismo, la “perfida” finanza ed additare al pubblico ludibrio i manager marionetta, non sanno altro che proporre un’assordante afasia oppure “scavare buche, alsolo scopo di riempirle”.* Ed è in tale contesto, che viene in soccorso il cosiddetto mercato del lavoro, anarchico suk, dove cervelli e braccia, vengono ammassati su bancarelle, pronti ad essere svenduti per pochi euro od utilizzati per incerte politiche sociali.

    Per una migliore e qualificata comprensione vediamo cosa afferma l’economista Luciano Vasapollo nel suo Lavoro contro Capitale ( JacaBook-2005 ): “1) Nel nuovo modello è la domanda a fissare la produzione in un quadro di conflittualità globale e di sfrenata concorrenza in cui la competizione si basa sempre più sulla qualità del prodotto, la qualità del lavoro, le risorse immateriali, il capitale intangibile. La conseguente ristrutturazione del capitale è basata su strategie di vendita più che di produzione, "capitale informazione" basato sulla "comunicazione deviante e il marketing".

    2) In tutti i paesi a capitalismo avanzato e in particolare nel nostro paese, dal ' 70 ad oggi, si è andato sviluppando (con aumento della produzione di servizi su quella dei beni materiali) un nuovo terziario postfordista concomitante a processi di esternalizzazione del ciclo produttivo e di fasi di produzione a basso valore aggiunto; a processi di delocalizzazione che implicano un mercato del lavoro sempre più flessibile e precarizzato, a scarso contenuto di diritti e a bassissimo salario, con la presenza forte di lavoro intellettuale e tecnico-professionale spesso precarizzato come quello manuale e ripetitivo; una progressiva diffusione locale della produzione, del reddito e della popolazione (contro il precedente modello di concentrazione territoriale). Ad effettivi fenomeni di sviluppo imprenditoriale si accompagnano anche forme più o meno nascoste di precarizzazione e di espulsione di forza lavoro, mascherate da finto lavoro .

    3) Nel nuovo modello di sviluppo capitalistico l'industria innovativa si colloca nelle aree avanzate con mercato del lavoro altamente specializzato in cui emerge una "aristocrazia salariale"; la speculazione finanziaria non produttiva si concentra nelle aree di sviluppo consolidate; l'industria tradizionale si disloca nelle aree periferiche a basso costo del lavoro e a bassa conflittualità: le aree arretrate sono ulteriormente penalizzate. Si consolidano così le leadership locali, basate su effetti imitativi e di status particolarmente efficaci su parte del ceto medio. Si forma un ceto medio/alto più classista e intollerante, legato alle esigenze socio-economiche di alcune imprese locali o gruppi di imprese con ruolo guida nel territorio: alla redistribuzione dei poteri non corrisponde la fuoriuscita dal localismo. Il "nostro" capitalismo resta caratterizzato dalla gestione personalistica mirata al dominio immediato (ad esempio, più che in Germania o in Giappone), sicché il modello concertativo dei Sindacati tradizionali è rimasto sostanzialmente senza contropartita.

    Il sistema produttivo e culturale appare sempre più spostato dalla centralità della fabbrica e incentrato sul territorio; nell'individuare la nuova composizione del mondo del lavoro occorre tener conto anche del lavoro negato e del non-lavoro. Cresce il terziario, sempre meno residuale e assistenziale, sempre più basato su lavoro nero e precario, che assume un ruolo attivo di mantenimento e accelerazione del nuovo sviluppo capitalistico. Registi della vita socio-economica diventano anche le imprese medie e piccole e gli enti pubblici che si uniformano al settore privato: enti-impresa; le banche e i soggetti politico/affaristici locali, che si affiancano alla imprenditoria locale sviluppando forme di consociativismo politico-sindacale.

    L' "auto/imprenditorialità"; la precarizzazione del lavoro; la flessibilità salariale; l'occupazione interinale (il nuovo caporalato); il tele/lavoro; il lavoro intermittente; la multi/funzionalità del lavoro; la fabbrica diffusa ed integrata sono le forme per spremere ulteriori incrementi di produttività: un processo di accumulazione derivante da sempre maggiori quantità di lavoro sociale complessivo, erogato con modalità tecnologiche e retributive diverse, anche grazie al ruolo decisivo del Profit-State. Più che alla competitività e a miglioramenti occupazionali tutto ciò è finalizzato alla costruzione di una società in cui la speranza di sviluppo sia affidata esclusivamente al "mercato" cioè a chi domina un mercato (nei molteplici aspetti territoriali: mondiale, locale, ecc), "regolatore di se stesso e libero da vincoli e controlli". Il "terzo settore" viene utilizzato per precarizzare e flessibilizzare il lavoro, diminuirne la forza contrattuale, sfruttare agevolazioni fiscali, allargare possibilità di finanziamento a imprese legate al blocco politico/affaristico, diffondere un'ipocrita immagine solidaristica in cui l'economia "sociale" di matrice cattolica si incrocia col blocco imprese/poteri pubblici/politicismo e consociativismo sindacale. Va infine sottolineato un "drogato" aumento di "partite IVA"; di lavoro falsamente autonomo; dei nuovi soggetti del lavoro atipico (spesso precarizzati, esternalizzati, espulsi dall'impresa madre), privi di normativa, con supersfruttamento a cottimo, assoluta mancanza di garanzie sociali, senza coperture assicurative (sanità, pensione, infortunistica, assistenza varia). Sorgono nuove categorie di agenti, imprenditori terminali e marginali (spesso lavoratori autonomi di ultima generazione e nuovi lavoratori atipici, a progetto o altro) contoterzisti, lavoratori a nero; precari; sottoccupati; lavoratori a partita IVA di breve durata (prevalentemente specializzati in lavorazioni monofase) - lavoratori dipendenti (spesso a forte specializzazione) in veste di cogestori, nuovi cottimisti corporativi che aspirano a mettersi "in proprio" e accettano di fingersi imprenditori - lavoratori a domicilio (spesso sottopagati e senza garanzie) cottimisti e lavoratori a nero, lavoratori precari, lavoratori della cooperazione sociale (in funzione di integrazione fra attività economica delle imprese e vita familiare, che riproducono forme di ricatto sociale e di copertura solidaristica e falsa affermazione della socialità di impresa). Aumenta anche il tessuto reale imprenditoriale, si ridisegnano e si rafforzano i modelli relazionali fra imprese e territorio; si individuano i soggetti più deboli, meno funzionali e meno compatibili o conflittuali; con logiche di darwinismo sociale. Non è la fine del lavoro, dello sfruttamento, delle classi, della lotta di classe, ma occorre ridisegnare i confini fra classe operaia e "nuovi lavori", anche intellettuali, il lavoro negato e il non-lavoro, collegarli nella lotta per l'emancipazione sociale”.

    Nel 2009, cosa rimane ai precari, alle partite iva, ai cocopro? Welfare State, poi,la giostra può ripartire.

    A questo punto non possiamo dimenticare gli ultimi degli ultimi: gli immigrati.

    Sono oramai 30 anni che assistiamo alle solite diatribe su sanatorie, diritti di cittadinanza, regolarizzazioni, decreti flussi, lavoro nero immigrato e razzismo…..Da 30 anni, leggiamo esimi opinionisti, sfogliamo giornali “progressisti”, ascoltiamo politici e sindacalisti democratici, esperti e consulenti, insomma, quelli che “contano” per e nelle istituzioni…. Per 30 anni, abbiamo seguito voci “fuori dal coro”, movimenti e disobbedienti, “alternativi” e “progressivi”….In questi 30 anni sono nate, cresciute e decedute ( poche/i ) associazioni, cooperative, istituzioni, enti, istituti, organismi, consorzi, finalizzate/i all’assistenza, alla protezione, allo studio, al sostegno, al soccorso, alla cura degli immigrati e delle loro famiglie. Miliardi di lire prima e milioni di euro poi, investiti in azioni meritorie, ma anche inutili ed inefficaci ( spesso illiberali e predatori ) interventi. Fondi sociali europei, di Enti nazionali e locali, insomma denaro pubblico, non sempre adeguatamente investito, se non addirittura colpevolmente sperperato. Convegni, studi socio-economici, tavole rotonde, statistiche, ricerche psico-sociali, monitoraggi, moltiplicazione di siti web ed agenzie di transazione denaro. Oggi, comprendiamo cosa significhi “ investire sull’immigrazione”.

    Mentre la merce(-immigrato ) è rimasta tale, anzi più deteriorata, anche grazie ai nuovi assetti economici globali, le migrazioni(-flussi di merci ), sono sempre più reputate un pericolo da dover contrastare con qualsiasi mezzo: diritto internazionale marittimo invalidato ( leggi: proibito soccorrere ), accordi bilaterali con paesi antidemocratici, rimpatri di massa, detenzioni amministrative……..

    Per non parlare dei lucrosi vantaggi dovuti al perpetuarsi dello status d’irregolare, in un mercato del lavoro che esige la garanzia della precarietà, della flessibilità e del ricatto, affinchè possa disporre di manodopera a basso costo e a termine. Intendiamoci e sia chiaro: non siamo contrari ad ipotesi inerenti sanatorie, regolarizzazioni o ad attivazioni di ulteriori decreti flussi, purchè ciò non resti disgiunto dal perseguire altre strade, che non seguano la solita contingente emergenzialità, ma che possano condurre ad un rovesciamento dei rapporti di forza, ad una reale comprensione di un “fenomeno” strutturale, allo sradicamento dell’attuale mercato del lavoro ed al ridimensionamento di una cultura fobica nei confronti del “diverso”. Come occorre anche uscire da una sorta di senso di “superiorità”, che ci vede sempre e comunque protettori di soggetti ritenuti adolescenti incapaci a realizzare qualcosa di concreto. Temiamo però, che molti, con diversi motivi, ritengano dover mantenere tale status-quo: l’auto-organizzazione del migrante fa paura, perché fa perdere potere ed implicherebbe un nuovo assetto sociale, che influenzerebbe diversi processi ( economici, sociali, giuridici, culturali ), dagli esiti non scontati.

    Occorre smettere di privilegiare l’opportunismo politico, che prevede spesso la necessità di non infondere nell’opinione pubblica e nei propri alleati sensazioni di “instabilità” sociale. Salvo poi ravvedersi ( ? ) una volta usciti dalla compagine governativa. Ma fino a ieri, in nome della “governabilità”, quali azioni sono state intraprese? L’immigrazione, si sa, mai ha avuto priorità per qualsiasi governo ( salvo nella sua valenza economica ), tanto che negli ultimi anni abbiamo avuto: i “patti di sicurezza”, scellerate ordinanze di sindaci politicamente trasversali, l’ipotesi di “campi della solidarietà”, la criminalizzazione etnica, sgombri di campi nomadi, accordi bilaterali con paesi indegni, la persistenza insuperabile degli ex CPT, l’implementazione di task-force per la lotta al “clandestino”, il “pensiero unico” mediatico………… I falsi e strumentali dibattiti sulla “sicurezza” hanno prodotto alterazioni mentali nell’opinione pubblica, sempre più abulica, che preferisce farsi fregare, ottenendo in cambio, il libero sfogo delle sue rabbie e paure, originate invece da malgoverni nazionali e liberismo estremo globale.

    Le città puntano ad essere modelli di attrazione per interessi economico-finanziari, mentre lo stato di degrado ambientale persiste nelle periferie, sempre più private da infrastrutture adeguate, a cominciare dall’edilizia popolare.

    Nel frattempo, alcuni degli organismi di cui sopra, fluttuano tra “urla di indignazione” e fondi elargiti per le loro invisibili iniziative. Intanto, “leader carismatici” d’immigrati, ambiguamente rassicuranti, coltivano i propri orticelli (= NIMBY ) impedendo ogni ulteriore espansione “grandangolare” ai loro “protetti”, ectoplasmi che pur vediamo circolare nelle città, vendere per le strade, pulire cessi, assistere anziani e malati, edificare, riparare, servire e cucinare. Merci, reificanti sé stesse. Merci, con elevato valore d’uso.

    Prodotti di scambio, a basso valore aggiunto. Relegati a degradazione e servilismo, senza possibilità d’”integrazione”, “braccia” competitive, oggetti di repressione, merce di scambio nel mercato del lavoro per la loro condizione di “esercito manuale di riserva”, E’ arrivato il tempo, per l’immigrato, di ripensarsi come soggetto di classe, appartenente ad una classe.

    Emergere dalle sabbie mobili del contesto delle “comunità”, limitate nei contenuti e negli obiettivi, e conquistare, attraverso l’auto-organizzazione, quei diritti di cittadinanza che gli spettano, ma sempre con lo sguardo rivolto alla società che lo contorna.

    Lo slogan “noi la crisi non la paghiamo”, rimarrà tale, se non riusciamo a comprendere che quella investe milioni di altri cittadini sparsi nel mondo, incolpevoli come noi, ma che si vedranno costretti a varcare le frontiere alla ricerca di ciò che il neocolonialismo ha prodotto.

    Ma torniamo all’indiviso.

    Negli ultimi tempi abbiamo avuto i prodromi di ciò che sarà il prossimo futuro: la recessione ( con conseguente incertezza nel futuro e rassegnazione alla precarietà permanente ), devastazioni ambientali, la rafforzata “richiesta” di sicurezza, il consolidamento dell’egoismo sociale ( motivo di “necessari” fenomeni razzisti e xenofobi ), la mercificazione/privatizzazione di quei beni, che secoli di lotte avevano conquistato allo stato sociale e che potranno essere comprati come le offerte ai supermercati. Una reificata “struggle for life” dove competitività, egoismo e desiderio di possesso, renderanno il più debole ancora più inerme e marginale. Una marginalizzazione sempre più escludente e per questo soggetta ad una sorta di privazione solidaristica, che trasmuterà nell’esclusivo riconoscimento dell’appartenenza alla propria “comunità”, al “campanile”, alla “contrada”, piuttosto che alla classe. Fenomeno questo, di cui oggi siamo spettatori inconsapevoli, ma che sta radicalizzandosi, con le opportune differenziazioni, fra i cittadini stranieri e gli autoctoni; fenomeno soggetto ad escludere ogni solidarietà e ricerca condivisa di sicurezza sociale, a favore della sicurezza tout court da una parte e autodifesa dall’altra. Perché il pericolo deriva dall’altro, in quanto “altro”.

    Stiamo parlando di lavoratori, di cittadini di cui abbiamo bisogno, ma che non vogliamo. Di gente, che deve possedere sempre e comunque un lavoro, in un contesto sociale dove la precarietà e l’incertezza dominano i rapporti economici. Di persone, che << …non divorano il nostro benessere, anzi, sono indispensabili per conservalo >> ( M. Frisch ).

    Ovunque si discetta di “politiche migratorie”, ma queste non esistono, non sono mai esistite. Sussistono piuttosto necessità e fabbisogni economici dei singoli Stati, a cui fanno da contraltare avversione ed allarme sociale, contro un’ ineluttabile “ movimento che abolisce lo stato di cose presente”. Un inarrestabile esodo epocale, un’incontenibile fenomeno tellurico, che intimorisce e terrorizza. Da un lato l’utilitarismo dei Paesi ricchi e la consapevolezza ( comunque capitalisticamente irrinunciabile ) di aver provocato essi stessi, con politiche guerrafondaie e di rapina, tali avvenimenti; dall’altro la massa dei reietti, che ancora per molti anni infrangerà le frontiere.

    Frontiere sempre più allargate, dilatate e controllate, anche tramite delega a paesi terzi ( spesso antidemocratici e lautamente sovvenzionati per il filtraggio dell’immigrazione ); ed attraverso controlli di spazi internazionali ( mediante l’europeizzazione della lotta all’immigrazione ). Tale modus operandi, ancora agli albori, non potrà, strategicamente, avere efficacia: vuoi, perché continuare a foraggiare economicamente paesi autoritari potrebbe aumentare la loro forza di repressione interna, distogliendoli dalla loro missione; sia perché non sempre è agevole il controllo sull’utilizzo finalizzato dei fondi elargiti. Non può neanche essere sottovalutata la possibilità di una eventuale destabilizzazione delle regioni sottoposte all’arresto forzoso della pressione migratoria, che non sopporterebbero ulteriori flussi ad libitum.

    Se, come affermato, la scelta di controllo esterno delle frontiere è agli albori, la repressione dell’immigrazione irregolare, continua assidua all’interno degli Stati di arrivo.

    Oltre ai consueti mezzi, si utilizza il più sofisticato uso della psicologia di massa, coadiuvata dalla complicità mediatica, che propone l’equazione: criminalità, uguale immigrazione, specie se irregolare. E non è raro ascoltare che, chi entra irregolarmente, non avendo la possibilità di avere un contratto di soggiorno ( dando per acquisita tale conoscenza da parte dello straniero ), certamente lo fa per delinquere. Come se fosse naturale e comodo, affrontare migliaia di chilometri e rischiare la morte per racimolare pochi euro per la sopravvivenza quotidiana.

    Non staremo a ripetere le vicissitudini della “questione securitaria” che hanno visto in prima fila personaggi ed istituzioni della società “democratica”, ma vale la pena ricordare, come il capro espiatorio sia utilizzato per distogliere dai problemi di casa nostra e dai fallimenti di politiche antipopolari, di carenze strutturali e ritardi istituzionali.

    Fino ad oggi la politica non ha voluto risolvere la questione, volgendo piuttosto i suoi passi sul terreno del facile consenso e di retoriche illusorie.

    Ritorniamo al concetto di “movimento”. Un fenomeno sui generis, con cui intendiamo rappresentare la peculiarità di persone che ritengono di esercitare il diritto alla mobilità, da e per, nell’ambito od in prossimità, capaci comunque di esercitare tale possibilità, anche quando diviene obbligo o necessità. La mobilità richiesta dalle proprie condizioni di provenienza o dalle esigenze economiche del paese di arrivo: un movimento continuo, che costringe, chi lo vorrebbe invece imbrigliare e governare, a continui mutamenti in termini di strategie repressive o di gestione, e perciò costretto ad abolire lo stato di cose presente. Anche in termini giuridici: basti ripassare le leggi e le norme applicative susseguitesi nel corso degli ultimi 30 anni.

    Punto di forza la mobilità, perché ingovernabile ed elusiva, ma anche terreno fecondo per il Capitale, quando costringe allo sradicamento territoriale ed alla ricerca della mera identità “comunitaria”, ambedue prodromiche alla non consapevolezza di appartenenza di classe. Diviene quindi fondamento necessario, amplificare tutti quegli episodi dove l’auto-organizzazione dei lavoratori immigrati, anche supportati da organismi e da sindacati autonomi, abbia attivato percorsi di lotta unitaria e sia riuscita a rinegoziare condizioni di vita sia in ambito sociale, che lavorativo.

    Non deve comunque essere dimenticata l’altra parte, quei lavoratori autoctoni, che troppo spesso, superficialmente, considerano l’immigrato come l’antagonista: la frammentazione delle tipologie contrattuali, la sicurezza nei posti di lavoro, il lavoro nero e sottopagato è il reiterato elemento caratterizzante del liberismo, che coinvolge tutti i lavoratori. Perdere tale consapevolezza, significa essere votati tutti alla sconfitta e riteniamo che solo con l’affermazione dei diritti degli immigrati e la loro eguaglianza con gli autoctoni nell’ambito del mercato del lavoro, con la prevenzione e la lotta allo sfruttamento e alla filiera d’illegalità, che esso implica, la lotta ai fenomeni xenofobi e razzistici, si potranno ottenere la riqualificazione salariale per ed il rafforzamento dei diritti.

    Per tutti.

    Luciano Di Gregorio
    RdB-CUB Pubblico Impiego RdB-CUB Immigrati Roma

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