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La ragione e la forza. Il movimento contro la guerra a un bivio.

volantino distribuito a Roma il 12 Aprile

(14 Aprile 2003)

"Ce l'abbiamo fatta!". Così gridano le forze angloamericane, soddisfatte dell'impresa. Ci si inorgoglisce per aver ulteriormente devastato un paese già sottoposto ad un'altra tempesta di fuoco (nel '91) e affamato da anni di embargo. Di più, si mena vanto per aver vinto -peraltro non definitivamente- una guerra di conquista segnata da una sproporzione di forze incredibile. Non c'è da sorprendersi.

L'arroganza è naturale in un momento in cui -al di là della odiosa solfa sugli yankee che portano la libertà dove non c'è- i motivi della guerra vengono esibiti senza pudore.

Non si parla forse di una "transizione irachena alla democrazia" gestita direttamente dai vincitori? Da tempo non si propugnava una politica così smaccatamente colonialista. Il punto è che agli USA serve un avamposto per nuove imprese militari. Essi non vogliono fermarsi a Baghdad e, in tal senso, hanno già provveduto a minacciare Siria e Iran. Attraverso la loro forza militare, gli States vogliono imporre un nuovo ordine al Medio Oriente, al fine di indebolirvi la presenza di altre potenze. Si pensi all'oro nero.

Per gli USA non si tratta solo di appropriarsene direttamente, ma anche di controllarne le rotte, per decidere chi vi possa accedere. Ma non c'è solo questo. Washington ritiene decisivo impedire che l'EURO diventi moneta di riferimento per il Medio Oriente, nonchè attaccare gli interessi vitali della Russia, che sta aiutando l'Iran a definire il suo programma di armamento nucleare. Ciò che colpisce, in questa situazione, è che i progetti americani non sembrano trovare un argine.

Che fare dunque? C'è chi richiama il movimento contro la guerra al realismo. Si dice che esso per incidere, debba convergere su un obiettivo concreto, sostenendo l'Europa. Si sostiene che solo una UE più unita e rafforzata possa rappresentare un freno allo strapotere yankee.

Ma il movimento può fare propri questi discorsi? Evidentemente no. Il superamento delle divisioni in seno all'UE, non porterebbe a quella Europa sociale che molti velleitariamente auspicano. Lo dimostra il dibattito attuale. Francia, Belgio e Germania stanno spingendo per la realizzazione di una difesa comune europea. Ma l'attuazione di questo progetto porterebbe con sè un vertiginoso aumento delle spese militari a scapito di quelle sociali. Il rafforzamento dell'UE lo pagherebbero anzitutto coloro che già vivono una condizione di precarietà. E non solo. L'esercito europeo servirebbe a condividere -su un piano di parità- nuove imprese belliche con gli USA, riservandosi di agire per proprio conto laddove gli interessi UE non risultino ricomponibili con quelli yankee. Si verrebbe a delineare, quindi, un autentico imperialismo europeo, sul modello di quello che la Francia già esercita in Africa. Parigi, infatti, è coinvolta in più d'uno dei conflitti che dilaniano quel continente. In Costa d'Avorio -in occasione dello scoppio di una crisi interna- è intervenuta militarmente, giungendo sino ad imporre una nuova compagine governativa. Nella Repubblica Democratica del Congo -in uno Stato ricco di risorse minerarie e colpito da una guerra che coinvolge diversi paesi africani- la Francia sostiene alcune fazioni in lotta, significativamente avverse ad altre appoggiate dal colosso americano. Proprio quest'esempio rivela che lo scontro in atto per il controllo dei mercati e delle fonti di ricchezza si estende ben oltre lo stesso Medio Oriente.

In tale contesto, il movimento non può seguire un "realismo" che lo porterebbe a sostenere una potenza contro un'altra. Esso deve invece compiere un salto di qualità, legandosi più nettamente alle lotte sociali.

Alle lotte che, nel cosiddetto "Occidente sviluppato", invocano la fine della precarietà e a quelle che, nei paesi-satellite del sistema capitalistico mondiale, combattono uno sfruttamento che s'approssima alla schiavitù. Gli effetti del realizzarsi di questo passaggio sarebbero dirompenti. Il movimento userebbe meglio la sua forza, quella che ha saputo far mobilitare attorno al rifiuto della guerra le piazze di tutto il mondo, creando le basi oggettive per l'unità, su scala planetaria, tra gli sfruttati.

Un'unità che, nelle nostre metropoli, possiamo iniziare a cementare nella quotidianità, nell'azione comune con gli/le immigrati/e, con chi -nella sua terra d'origine- ha assaporato gli amari frutti dell'imperialismo, confrontandosi col volto più feroce del sistema economico che domina il pianeta.

Corrispondenze metropolitane - Collettivo di controinformazione e di inchiesta (Roma)

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