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(2 Gennaio 2012) Enzo Apicella

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Le lotte contro la crisi.

Una piccola riflessione dal quadrante italico dello scontro globale.

(10 Aprile 2009)

Le manifestazioni di Londra, contro i responsabili della cupola mondiale del capitalismo riuniti nel cosiddetto G/20 e quelle di contestazione al Vertice della NATO hanno confermato una interessante tendenza che, da alcuni mesi, è percepibile in tutta Europa.
Con modalità differenti si sta concretizzando un articolato (e plurale) moto sociale il quale inizia a reagire – per quanto contraddittoriamente – all’incrudimento degli effetti generali della crisi economica.
Dalle straordinarie settimane di lotta in Grecia dopo l’assassinio di Andreas Grigoropoulos fino ai riot di Londra e di Strasburgo di questi giorni, si sono succeduti in Francia, in Germania, in Spagna e persino in molte città dell’ex Europa Orientale momenti di mobilitazione i quali hanno rappresentato l’indisponibilità di larghi settori della società a voler subire, passivamente, i costi politici, economici e sociali di questa crisi.
In questo panorama, sicuramente differente, complesso ed impossibile da interpretare schematicamente, brilla il profilo basso incarnato del conflitto, in questo momento, in Italia. E’ un dato questo, incontrovertibile, da comprendere, da analizzare e da discutere per ritrovare, anche nel nostro paese, quei percorsi possibili per la ripresa generalizzata di forti movimenti di lotta che, in altre fasi, hanno, felicemente, segnato lo scontro di classe.

Nel paese dove molti, fino a qualche decennio fa, ritenevano allocasse il più grande Partito Comunista dell’Occidente stiamo attraversando un periodo in cui il conflitto stenta ad esplodere e dove le pur diffuse vertenze e mobilitazioni non riescono a dotarsi di quel collante politico indispensabile per iniziare a configurare quei meccanismi di difesa collettiva e materiale che potrebbero permettere l’esemplificazione pratica di quello slogan (..noi la crisi non la paghiamo!) che tanto successo riscuote. Certo dall’autunno ad oggi non sono mancati, in molti segmenti sociali, i momenti di lotta ed alcune grandi manifestazioni che hanno simboleggiato una diffusa ostilità alle politiche del governo del Cavaliere ma dobbiamo ammettere che, mentre iniziano a palesarsi le prime conseguenze materiali della crisi, non si scorge ancora quella grande risposta conflittuale di cui necessiterebbe l’attuale situazione. In molti comparti dove iniziano a moltiplicarsi le ore di cassa integrazione, in ciò che residua delle grandi concentrazioni operaie, nel settore pubblico, nell’universo della precarietà si prende atto della crisi ma questa condizione non genera, automaticamente, sussulti di lotta e di sacrosanta rabbia. La stessa Onda, al di là del positivo ruolo che ha assunto in un importante segmento della società come la scuola, la formazione e la ricerca non si è intrecciata, oltre il dato simbolico, con le altre espressioni del conflitto le quali, in forme ed intensità sicuramente più blande, hanno animato l’autunno e l’inverno scorso.

Le ragioni di una evidente difficoltà.

Si avverte, dunque, una oggettiva complicazione delle forme del conflitto le quali meritano di essere ulteriormente inchiestate. Proviamo, schematicamente e soprattutto problematicamente, ad individuare alcuni snodi politici che potrebbero essere tra i fattori del profilo basso del conflitto in Italia in questo scorcio della mondializzazione capitalistica:

• La genesi e la storia del capitalismo italiano unitamente alla “recente” formazione dello stato unitario nazionale (appena 150 anni) non hanno consentito al capitale tricolore di svolgere, al meglio, la sua funzione imperialistica tarpandone le ali nella crescente competizione globale. Nel contempo queste specifiche caratteristiche hanno determinato l’enuclearsi di una struttura economica e finanziaria del paese la quale, dentro un quadro globale di evidente difficoltà internazionale, riesce, ancora, ad essere, in parte, al riparo dagli effetti più rovinosi delle conseguenze della crisi. Del resto gli ultimi dati attinenti la fiscalità dello stato e la plateale evidenza di grandi aree di evasione fiscale, solo per citare uno dei fattori più eclatanti del “caso Italia”, sono la dimostrazione di come le statistiche ufficiali, particolarmente nel nostro paese, sono falsate e sbilanciate a favore dei profitti e delle rendite. Qualcuno, commentando, le decisioni del G/20 che dichiarano guerra ai paradisi fiscali ha fatto notare che tra i più grossi paradisi fiscali figura…l’Italia!

• Nel nostro paese gli effetti della crisi economica si stanno manifestando in maniera articolata e con accentuazioni diversificate. Nel Nord l’aumento della cassa integrazione ed il dilagare della precarietà sono avvertiti in maniera più drammatica producendo ulteriore smarrimento e disorientamento tra i lavoratori. In questo contesto la crescita del sentimento leghista (ben al di là dei confini organizzativi della stessa Lega Nord) e di comportamenti razzisti sono, sicuramente, riconducibili a questo profondo mutamento sociale. Nel Meridione d’Italia la crisi pur innestandosi su un tessuto economico meno strutturato, è, momentaneamente, attutita da una società in cui vige un mercato del lavoro dove si miscelano, sapientemente, lavoro nero e grigio, reti familiari di protezione ed una modalità della governance fondata su uno uso disinvolto della spesa pubblica e degli ingenti finanziamenti provenienti dall’Unione Europea. Inoltre l’economia criminale, pur agendo, da tempo, in uno spazio transnazionale e caratterizzandosi come una nuova forma di accumulazione originaria del moderno capitalismo, garantisce, comunque, una ricaduta economica a vasto raggio specie nelle aree metropolitane e tra le fasce giovanili.

Ma l’aspetto che più influenza, materialisticamente, la dinamica della lotta di classe in Italia è da ricondurre al ruolo storico che il riformismo, in tutte le sue varianti, ha esercitato nel corso di almeno 60 anni (prendiamo come riferimento la fine del secondo conflitto mondiale) nelle file del movimento operaio, tra i ceti popolari ed in tutta la società. Da sempre la “sinistra” ha concepito la propria crescita, sia sul piano politico e sia su quello più squisitamente elettorale, esclusivamente in funzione della governance a tutti i costi. Un obiettivo condiviso, anche in fasi in cui il peso della “sinistra” era molto forte, in funzione degli interessi generali del capitalismo nazionale italiano tentando, magari, di espungere gli aspetti più violentemente antisociali per destinarli a possibili politiche di redistribuzione.

Questo processo storico e politico del riformismo ha fatto lievitare, dentro i comportamenti sociali della “nuova” e “vecchia” composizione di classe, la cosiddetta logica del minimo sforzo la quale, nelle varie epoche del conflitto, ha ritenuto possibile raggiungere compromessi, più o meno onorevoli, tra capitale e lavoro senza mai mettere veramente in discussione i rapporti sociali dominanti. Non possiamo negare che il raggiungimento di questo compromesso, molte volte, ha richiesto una lotta durissima con costi umani anche alti. Molte riforme e conquiste del lavoro sono costate lacrime e sangue. Questo risultato, però, si è potuto dare in una fase in cui il capitalismo era ancora in costante crescita ed in grado di distribuire alacremente e stabilmente i suoi sovrapprofitti formalizzando, in alcuni momenti, patti sociali subito poi calpestati e stracciati appena gli indicatori della crisi volgevano al brutto. Ma tale dispositivo, ripetuto per decenni, e con risultai concreti sempre minori, ha minato, nel proletariato tutto, la consapevolezza del proprio generale potenziale di lotta ed ha diffuso, a piene mani, illusioni di vario tipo le quali, assieme ai continui processi di ristrutturazione che il capitale ha continuamente dispiegato per garantire la sua valorizzazione, hanno accelerato tutti i fattori di disgregazione e frantumazione dell’unità politica e materiale della classe con esiti rovinosi riscontrabili fino ai giorni nostri.

E’ evidente – quindi – che uno scenario di questo tipo non agevola l’esplosione e, soprattutto, la continuità organizzata di radicali (nei contenuti programmatici e nelle conseguenti forme di lotta) movimenti sociali nei posti di lavoro e nei territori.

La bancarotta politica della “sinistra”

Se come accennato la “sinistra” ha sempre coltivato l’araba fenice del governo della modernizzazione capitalistica questa prospettiva non poteva non approdare alla catastrofe politica ed elettorale della primavera scorsa. Ad oltre un anno da quella mazzata non abbiamo assistito a nessun tentativo vero di bilancio critico ed autocritico di una fallimentare esperienza. A partire dal PRC e dal PdCI i quali ripropongono, in micro, l’ennesimo raffazzonato cartello elettorale per le prossime elezioni europee, stiamo registrando la solita coazione a ripetere di una modalità di azione che ripropone continuisticamente tutti i vizi teorici di una sinistra che ha smarrito la propria funzione sociale, quella storica e quella immediata. Un anno di dibattito incancrenito attorno ad una non meglio “unità dei comunisti” non ha dato vita a nessuna tendenza controtendenziale, prima di tutto nelle società, ma sta generando una sorta di disarmo politico di migliaia di militanti che corrono il concreto rischio di una nuova dispersione di soggettività politica.

Riteniamo, invece, che le ragioni dei comunisti, o meglio di una soggettività comunista agente, sia tutta da riqualificare in una funzione di orientamento, di sollecitazione all’autorganizzazione e, sia detto senza nessuna ipocrita remora, di egemonia politica e culturale verso larghi settori della società. Una attività di questo tipo dovrebbe farci superare quella concezione che ritiene l’agire comunista come un fattore di generica (ed astratta) propaganda. Inoltre l’internità ai cicli di lotta dovrebbe essere il banco di prova e la verifica concreta di ogni ipotesi politica. Il contrario, quindi, del politicismo e di ogni velleità soggettivistica, comunque ammantata.

Ed è con una attitudine militante di questo tipo, fuori ed oltre ogni rigurgito eurocentrico che porta a considerare il nostro paese l’ombelico del mondo, che, dall’Italia, possiamo guardare, studiandoli, i movimenti di lotta degli altri paesi auspicando e contribuendo fattivamente alla rivitalizzazione del conflitto nella nostra Italietta. Una battaglia politica militante e pubblica la quale, travalicando ogni dato simbolico e spettacolare, deve trascrescere dagli steccati nazionali e posizionarsi in uno spazio necessariamente multinazionale.

Napoli, 8/4/09

Michele Franco

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