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(20 Settembre 2009) Enzo Apicella

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La trappola

Sull'acquisto di 131 caccia-bombardieri F-35

(22 Aprile 2009)

La questione dell’acquisto, da parte dell’Italia, di 131 caccia-bombardieri F-35 per una somma di più di 14 miliardi di euro, rischiava di passare quasi inosservata. Il governo, con la complicità dell’opposizione, era riuscito a spostare l’attenzione, facendo un gran chiasso, sulla questione dell’accorpamento del referendum alle elezioni europee. Non c’è dubbio: l’inchiostro di seppia per sottrarre alla vista le decisioni più gravi non manca mai. Ora, però, le proteste cominciano a farsi sentire.

Ancor meno si parla delle gravissime conseguenze a lungo termine di questo “affare”. Probabilmente, a livello governativo e dei dirigenti dell’opposizione ne sono consapevoli, ma per loro vale il motto: Dopo di me il diluvio. Quanto ai parlamentari Yesmen dell’una o dell’altra combriccola, di destra o di “sinistra”, è probabile che neppure si pongano il problema.

Per comprendere questa questione può essere utile un confronto della situazione odierna con la storia precedente dell’imperialismo italiano. Certamente, non v’è molto in comune tra le velleità abissine dell’Italia dell’Ottocento, le avventure imperiali di Mussolini e la politica estera d’oggi, ma su un punto il nesso è chiaro: come allora, l’imperialismo italiano fabbrica con le sue mani trappole da cui è impossibile uscire, se non con un costo di vite umane ed economico altissimo. La cosa ci preoccupa perché a farne le spese saranno, come al solito, i lavoratori e le masse sfruttate, se non sapranno lottare per far fallire queste sporche imprese.

Non è il caso di soffermarsi qui sulle velleità di conquista dell’Abissinia a fine Ottocento, perché le sconfitte resero subito evidente l’inadeguatezza dei mezzi usati. Più complessa è la riflessione sulla rete in cui il fascismo si gettò a capofitto. Col più spietato terrore e con ampio uso dei gas, l’imperialismo italiano riuscì a conquistare l’Etiopia. Contrariamente a ciò che sostiene il mito delle “grandi democrazie occidentali antifasciste”, l’opposizione della Società delle Nazioni fu più che altro apparente. Le sanzioni non includevano il petrolio, e non fu impedito l’uso del canale di Suez. Gli Stati Uniti, con la scusa della neutralità, negarono le armi all’Etiopia, che non poteva fabbricarne, ma vendettero camion e materiale strategico all’Italia. Chi invece mandò armi al Negus fu Hitler, non certo per spirito anticolonialista. Quanto all’atteggiamento del governo francese, basti citare una nota del diario di Ciano del 24 dicembre 1938, in cui si riferisce di un incontro con lord Perth, l’ambasciatore britannico: “Parliamo dell’impegno che la Francia aveva con noi di appoggiare la nostra azione per la conquista dell’Abissinia. Egli dice che Laval andò a trovarlo e gli disse che tale impegno concerneva soltanto le questioni economiche. Ciò è falso. Ho detto a Perth che i francesi erano del tutto al corrente dei nostri propositi di conquista territoriale. Gli ho narrato anche un mio colloquio con Flandin (ex presidente del consiglio francese, n.d r.), a Parigi, nel maggio 1935, quando egli mi diede anche alcuni consigli circa il modo in cui sarebbe stato conveniente dare inizio al conflitto. Egli suggeriva di provocare una rivolta di Ras contro il Negus che avrebbe potuto darci il pretesto di intervenire”. In una lettera del 23 gennaio 1936 a Mussolini, Laval sostenne, arrampicandosi sugli specchi, che l’espressione “mani libere” da lui più volte usata in un incontro a Palazzo Farnese, si riferiva alla penetrazione economica, e che il duce aveva equivocato sul vero significato dell’espressione.

Quanto la Società delle Nazioni fosse interessata all’indipendenza abissina, si vede dal fatto che già il 15 luglio 1936 le sanzioni furono abrogate.

Se Mussolini aveva ottenuto l’Etiopia grazie a una benevola pseudo - opposizione delle potenze occidentali, doveva essere chiaro che non avrebbe potuto conservarla se fosse entrato in guerra contro di esse. Il controllo dell’Africa Orientale era possibile se le navi italiane potevano passare da Suez, o, almeno, da Gibilterra. Rompere con l’Inghilterra (e con la Francia) voleva dire perdere l’impero.

Se la conquista dell’Abissinia provocò nelle potenze un’opposizione solo di facciata, più serie conseguenze ebbe la partecipazione italiana alla guerra di Spagna a sostegno di Franco. I problemi sorsero soprattutto con la Francia, ma non si giunse a una vera rottura. I sottomarini italiani affondavano le navi russe che portavano rifornimenti ai repubblicani. Mosca denunciò questi atti di pirateria, Londra e Parigi convocarono una conferenza internazionale a Nyon in Svizzera, e furono istituite pattuglie navali per controllare il Mediterraneo. Roma e Berlino protestarono, e navi italiane e tedesche furono ammesse al pattugliamento, mentre Mosca ne rimase fuori. Ciano scrisse nel suo diario: “Blondel e Ingram mi hanno rimesso una nota che ci dà soddisfazione sostanziale... Il Duce ha approvato la mia risposta e il comunicato alla stampa: accettiamo una conferenza tecnica per modificare le clausole di Nyon secondo i nostri desideri. E’ una bella vittoria. Da imputati siluratori a poliziotti mediterranei, con l’esclusione degli affondati russi”(1) Si noti che da poco tempo il regime si era macchiato dell’assassinio di Carlo e Nello Rosselli. C’è forse bisogno di cercare in un carteggio segreto tra Churchill e Benito le prove della connivenza tra democrazie occidentali e fascismo?

E l’atteggiamento dell’idolo di tutti i democratici, Roosevelt? Da una relazione dell’ambasciatore italiano a Washington Suvich del luglio 1937: “Il Presidente ... mi ha detto che egli era un ammiratore del Duce che considerava il vero restauratore dell’unità del paese e della nuova grandezza dell’Italia... mi ha detto che Mussolini deve passare alla storia non soltanto come il restauratore delle fortune della sua patria ma anche come il costruttore di una migliore forma di convivenza tra i popoli.”(2)

Ancora nel luglio1938 Chamberlain scriveva a Daladier: “... io considero la solidarietà italo – britannica come la chiave di volta della nostra politica estera e che io non permetterei mai a me stesso di essere allontanato da questa convinzione dal desiderio di stabilire amichevoli relazioni con altri paesi... ”. Basta, dunque, con l’oscena favola delle democrazie occidentali antifasciste! Abbiano un regime democratico o totalitario, gli imperialisti sono sempre pronti ad accordarsi contro i lavoratori e i popoli sfruttati, e se si fanno guerra, non è per portare la libertà, ma per spartirsi il bottino.

Nella conferenza di Monaco, le potenze cominciarono a fare a pezzi la Cecoslovacchia, ma i popoli d’Europa credettero che si fosse salvata la pace. Di qui le manifestazioni spontanee con cui gli abitanti di Monaco accolsero Chamberlain e Daladier (il che la dice lunga sulla pretesa propensione naturale alla guerra dei tedeschi!). Il viaggio di ritorno di Mussolini fu trionfale. Anfuso (capo di gabinetto di Ciano n.d. r.) racconta: “Varcato il Brennero... trovammo che se i bavaresi piangevano di gioia, gli italiani si prosternavano non davanti al Duce fondatore dell’Impero ma all’angelo della pace... Fra Verona e Bologna, scorsi contadini letteralmente in ginocchio al passaggio del suo treno... A Bologna, roccaforte di un fascismo tumultuosamente bellicoso, Mussolini si accorse di essere divenuto santo e ne arguì che gli effetti di Monaco avevano superato le sue previsioni: gli italiani preferivano chiaramente i rami di olivo a quelli d’alloro e la colomba all’aquila”.(3)

La fiducia popolare era mal riposta, perché i briganti imperialisti che guidavano le principali potenze preparavano la guerra. Mussolini scatenò una campagna antifrancese. A livello diplomatico si chiedeva una revisione delle tariffe del Canale di Suez e una forma di condominio per quanto riguardava la Tunisia e il porto di Gibuti, da cui passavano gran parte dei traffici con l’Abissinia, ma, a livello delle manifestazioni di piazza, organizzate per lo più da Starace, si chiedeva anche la cessione della Corsica, di Nizza e della Savoia. Alla fine, la situazione si fece talmente tesa, che lo stesso Mussolini, ritenendo che non fosse ancora tempo di usare il cannone, ordinò l’interruzione della campagna.

Queste smargiassate nascondevano una grande debolezza. L’avventura africana, il coinvolgimento militare e le spese enormi della guerra di Spagna rivelarono in pieno il loro vero significato. Erano involontari regali a Hitler. Mussolini si era proposto di contrastare la crescente influenza della Germania in Mitteleuropa e nella penisola balcanica, e soprattutto di impedirle di occupare l’Austria. Nel luglio 1934, aveva mandato quattro divisioni al Brennero e a Tarvisio per far capire a Hitler che l’Austria fascistizzata era zona d’influenza italiana. Temeva una frontiera comune col potente vicino.

Le avventure etiopica e spagnola resero impossibile all’Italia di contrastare la crescente influenza tedesca nell’Europa centro-orientale. L’Italia non poté più impedire che Hitler arrivasse al Brennero, e la stessa azione di Mussolini per scalzare l’influenza francese nell’Europa centrale finì per favorire il führer.

Il rafforzamento di Hitler ebbe presto risvolti diplomatici. L’accordo firmato a Berlino nell’ottobre 1936 da Ciano e von Neurath riguardava la collaborazione nella questione austriaca, la lotta al bolscevismo, l’appoggio alla reazione franchista in Spagna, i rapporti con i paesi danubiani. Mussolini disse: “... questa verticale Berlino - Roma non è un diaframma, è piuttosto un asse attorno al quale possono collaborare tutti gli Stati Europei animati da volontà di collaborazione e di pace”. Gli imperialisti, più preparano la guerra, più parlano di pace. Da allora, il termine “asse” indicò l’alleanza italo tedesca. Questa lasciava all’Italia ancora una certa libertà d’azione, ma il tempo lavorava per Hitler. Alla fine, Mussolini, seguito da un Ciano sempre più dubbioso, si convinse che la Germania fosse invincibile, e che occorresse salire sul carro del vincitore, entrando in quella trappola alla cui costruzione aveva tanto contribuito. Da qui la firma del “patto d’Acciaio”, assai più impegnativo, nel maggio 1939. Ovviamente, il processo di avvicinamento all’alleanza con Hitler è molto più complesso, tuttavia questo articolo non è uno studio storico, ma una denuncia antimilitarista, e può soffermarsi solo su alcuni episodi.

Torniamo ai nostri giorni e alla questione degli F35. Il primo memorandum d’intesa col Pentagono fu firmato il 23 dicembre 1998 dal governo di Massimo D’Alema (che non si perdeva mai una marcia della pace, persino dopo aver fatto bombardare la Jugoslavia). Era la decisione di partecipare al progetto. Nel secondo (24 giugno 2002), durante il governo Berlusconi, si stabilirono i termini economici. Il terzo, del 7 febbraio 2007 vide la piena adesione al piano di sviluppo. Un articolo di Carlo Bonini metteva in rilievo come il centrosinistra aumentasse le spese militari più del centrodestra, citava una lettera di protesta inviata da sedici senatori dell’Unione a Prodi, nonché il chiarimento del sottosegretario alla difesa Forcieri (DS): “Con questa finanziaria non facciamo altro che riportare la spesa militare al livello del 2004. Prima cioè che il governo di centrodestra tagliasse di fatto la spesa militare di 2 miliardi e mezzo di euro.” (4) Chi spera ancora nell’antimilitarismo dei democratici?

In un articolo sul Manifesto (08/02/07 Dinucci parlava di 11miliardi di euro per i 131 F35, ma prevedeva un aumento fino a 20 miliardi. E’ stato un buon profeta: siamo già arrivati a oltre 14 miliardi, ma la cifra è destinata a salire ancora.

Non si tratta di una semplice compravendita, ma di un legame militare con una potenza che vuole cambiare i rapporti di forza internazionali con la guerra. Molti hanno paragonato il revisionismo militarista di Bush nei rapporti di forza internazionali a quello di Hitler, ma ora Obama ha conquistato una popolarità internazionale paragonabile a quella di Kennedy, e tanti sperano in un cambiamento radicale di politica. Non deve ingannare il nuovo look dato dalla nuova amministrazione. Il presidente è il portavoce della classe dirigente, può liquidare certe direttive politiche che si sono rivelate fallimentari, ma non può cambiare il carattere imperialistico di una grande potenza. C’è un riadattamento del piano imperialistico alle diverse condizioni internazionali. Una potenza minore sarebbe già crollata sotto il peso di simili errori, ma gli Stati Uniti possono ancora provare a realizzare i propri piani, soprattutto finché riusciranno ad avere la complicità di altri stati, a cominciare da quelli della Nato. La guerra in Afghanistan continua e si sta estendendo a vaste zone del Pakistan, e il nuovo governo chiede un maggiore coinvolgimento dei paesi del Patto Atlantico.

I nuovi aerei non sono studiati per la difesa del territorio, ma per l’attacco.

Se non fossero usati, si tratterebbe di un’operazione analoga a quelle cui siamo abituati: scuole, palestre, stadi, aeroporti, ecc., costruiti e abbandonati all’incuria, ossia una pura speculazione di costruttori. L’operazione, però, è troppo grande per una simile soluzione, quindi saranno usati. Poiché l’Italia non ha una struttura logistica indipendente, dovrà servirsi di quella statunitense, in operazioni congiunte di carattere coloniale. Le esperienze di Afghanistan e Iraq hanno dimostrato che le brillanti teorie sulla fine del colonialismo, quelle leggermente più realistiche sul neocolonialismo e la teoria negriana dell’impero, sono state smentite dal più brutale ritorno delle occupazioni coloniali. Anche in Europa. Se negli anni trenta le potenze hanno deciso lo smembramento della Cecoslovacchia, per dare un contentino a Hitler mentre preparavano lo scontro bellico generalizzato, negli anni novanta si è portata avanti la disgregazione della Jugoslavia, lasciando via libera al transito del petrolio e della droga. Non si possono escludere operazioni analoghe per Ucraina e Moldavia, approfittando dei contrasti tra filorussi e filoccidentali.

Il crescente impegno militare dell’Italia, non può non avere forti effetti sull’economia, finalizzandola a scopi bellici. Se non si vendono abbastanza automobili o camion, si possono vendere carri armati o sistemi d’arma agli stati. La risposta alla crisi del 1929, pur con diverse motivazioni ideologiche, fu sostanzialmente simile in Hitler e Roosevelt: Il riarmo. La stessa via si vuole seguire oggi, senza porsi il problema delle gravissime conseguenze. Lo stato, in tempi di crisi, fornisce commesse sicure, e la borghesia mette al primo posto sempre il portafoglio.

Dopo la seconda guerra mondiale, l’imperialismo italiano non ha mai messo in discussione l’alleanza con gli Stati uniti, ma, continuando una vecchia tradizione, si permetteva parecchi giri di valzer. Ogni tanto qualche episodio come l’omicidio di Mattei faceva scoprire il dissenso, e possiamo aggiungervi gli incontri tesissimi tra Moro e Kissinger, o l’episodio di Sigonella al tempo di Craxi.

E’ finito il tempo in cui l’Italia poteva guardare da lontano le guerre Usa, limitandosi all’appoggio diplomatico, come per il Vietnam, E’ finito pure quello della presenza limitata, con i cosiddetti caveat. Già da tempo l’Italia è in guerra a tutti gli effetti, e sempre più lo sarà. Oggi la politica estera italiana, su cui concordano tutte le forze parlamentari, si colloca su un binario obbligato. Attenzione, l’Italia non è diventata una colonia, come credono coloro che si augurano una “sana politica nazionale”, e si attardano in simili sogni ottocenteschi. Si tratta di un accordo tra imperialismi, tra i quali notevole peso avrà anche l’Inghilterra, che li legherà sempre più alle sorti dell’imperialismo principale, quello americano, costretto dalla sua storica crisi a lanciarsi in sempre nuove guerre. Ed è probabile che a rompersi le ossa lo precedano i suoi più fragili alleati, forse già in Afghanistan.

Inutile sperare che un cambio di governo parlamentare possa mutare la sostanza di questa politica estera (e interna) guerrafondaia, repressiva, colonialista, nonostante le giaculatorie democratiche. L’unica possibilità di cambiamento è data dal risveglio del movimento operaio, dalla rinascita della lotta di classe.

20 aprile 2009

Note

1) Galeazzo Ciano, “Diario” (21 settembre 1937 e 24 dicembre 1938), pag.39 e 227. La lettera di Laval a Mussolini è riportata in parte in: Giorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna”, Volume nono, pag. 335.

2) Ambasciata d’Italia, Telespresso n.4843/1301. 30 luglio 1937. In Appendice a Renzo De Felice, “Mussolini e il fascismo”, “Lo stato totalitario”, pag. 911.

3) Citati in De Felice, op. cit., pag. 321e 330.

4) Carlo Bonini, “Sorpresa tra le selve dei tagli le spese militare aumentano". "Il governo dell’Unione investe in armamenti più della Cdl.”

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