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(4 Agosto 2010) Enzo Apicella
Oggi si vota alla camera la sfiducia nei confronti di Giacomo Caliendo, sottosegretario alla giustizia

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Considerazioni sui prossimi referendum

(24 Aprile 2009)

Siamo arrivati al dunque. Il governo Berlusconi ha deciso che il “giorno delle elezioni” non ci sarà, è stata esclusa ogni possibilità di accorpamento tra le elezioni europee, le elezioni amministrative e i tre quesiti referendari che riguardano la attuale legge elettorale, il cosiddetto “porcellum”, il nostro sistema di voto che priva fra l’altro l’elettore della facoltà di esprimere preferenze proprie.

Il referendum si terrà probabilmente il 21 giugno, la data dei ballottaggi delle consultazioni locali. Molti personaggi politici dello schieramento dell’opposizione sottolineano, quasi esclusivamente e in modo particolare, un unico effetto; accusano le forze di maggioranza solo di sperperare almeno 170 milioni di euro, soldi che, dicono, sarebbero potuti andare in favore delle popolazioni colpite dal terremoto in Abruzzo. Ma trascurano di mettere in evidenza la natura reazionaria dei quesiti referendari, e però sventolano davanti al muso del corpo elettorale la banderilla rossa diversiva dell’indignazione per lo spreco a tutto sfavore degli sfortunati Abruzzesi.

Berlusconi, molto furbescamente aveva promesso, nelle ore immediatamente successive, di valutare l’eventualità di un’unica convocazione elettorale, per poi tirarsi indietro affermando che tutto era andato in fumo per evitare di compromettere la sopravvivenza dell’esecutivo. La Lega Nord era contraria all’accorpamento perché spera che i referendum non raggiungano il quorum. La spiegazione di questo, qualche passo più avanti.

In seno alla maggioranza ha prevalso la volontà di non aprire un fronte conflittuale con il Carroccio. La Lega ha fatto pressione per mantenere gli orientamenti iniziali e ha vinto la sua partita. Chiamare alle urne nello stesso giorno i cittadini avrebbe potuto fungere da traino per il raggiungimento del quorum.

A conferma di ciò le parole pronunciate tra le macerie d’Abruzzo dal presidente del Consiglio: sarebbe stato “da irresponsabili” far cadere il governo. “Avremmo avuto, a seguito di una situazione per noi favorevole, il risultato di far cadere la maggioranza di governo. Dunque anche qui abbiamo dovuto rinunciare a quello che per noi era un fatto positivo. Dispiace che certi la interpretino come debolezza del presidente del Consiglio e del PdL, quella di aver ceduto alla precisa richiesta di una parte della maggioranza che non avrebbe accettato e avrebbe fatto cadere il governo”.

Tanto, a Berlusconi e ai suoi sodali, che si voti prima, dopo, che i referendum ottengano il quorum o no, interessa minimamente: tutti i venti sono a suo favore. La legge attuale comunque lo favorisce, e se passassero i sì referendari per il PdL e Berlusconi andrebbe ancora meglio: potrebbe una volta per tutte sottrarsi al cappio che la Lega Nord gli fa ondeggiare davanti, quando Bossi vuole raggiungere risultati politici favorevoli agli interessi Leghisti.

Il segretario del Pd Dario Franceschini attacca: “Berlusconi si piega ancora al ricatto di Bossi”. Secondo Gianfranco Fini, nelle vesti istituzionali di Presidente della Camera dei Deputati: “Sarebbe un peccato e uno spreco se per la paura di pochi il governo rinunciasse a tenere il referendum il 7 giugno, spendendo centinaia di milioni che potrebbero essere risparmiati”.

Da notare che entrambi i personaggi politici non fanno alcun accenno al contenuto dei quesiti referendari, e se ne guardano bene!

È necessario, a questo punto, prendere in considerazione i tre quesiti, e trarne alcune conseguenze.

Il Primo (modulo colore verde) e il Secondo quesito (modulo bianco) riguardano il premio di maggioranza alla lista più votata e innalzamento della soglia di sbarramento (attualmente al 4%).

Il Primo ed il Secondo quesito (valevoli rispettivamente per la Camera dei Deputati e per il Senato) si propongono l’abrogazione del collegamento tra liste e della possibilità di attribuire il premio di maggioranza alle coalizioni di liste.

Con l'approvazione del Terzo quesito (modulo rosso) la facoltà di candidature multiple verrà abrogata, sia alla Camera che al Senato.

In caso di esito positivo del referendum, la conseguenza è che il premio di maggioranza viene attribuito alla lista singola (e non più alla coalizione di liste, che viene vietata!) che abbia ottenuto il maggior numero di seggi.

Immediatamente salta agli occhi che rimane nella futura legge elettorale ancora la sottrazione all’elettore della facoltà di esprimere preferenze, facoltà che resta strettamente di competenza delle segreterie e delle consorterie partitiche.

Il premio di maggioranza non va più ad una possibile coalizione, vista l’abrogazione del collegamento di liste, ma i 340 seggi, cioè il 53,9% del totale dei seggi della Camera dei Deputati e il 55% dei seggi al Senato vengono attribuiti alla lista che raggiungesse lo zero virgola uno per cento di voti in più di ciascuna delle altre, anche se tali voti dovessero corrispondere solo al 30, al 25% dei voti, o meno.

Data poi la soglia di sbarramento superiore al 4%, in Parlamento arriverebbero al massimo cinque formazioni, con la lista vincente che potrebbe governare indisturbata, senza alcun bisogno di alleati. Al momento attuale, e io prevedo per tanti anni, il pallino lo ho stretto nelle sue mani Berlusconi, e ciao Bossi!, e ciao Lega Nord!, che tanto i neofascisti di Alleanza Nazionale si sono già a tempo giusto incistati nel Partito delle Libertà.

L’attuale legge elettorale, la porcata di Calderoli, aveva inferto al sistema democratico una ferita profonda; se passano questi referendum, questo golpe referendario, la Costituzione formale rimane invariata ma i suoi contenuti vengono definitivamente svuotati, vengono messe in atto prassi che contorcono il significato dei suoi principi e demoliscono i suoi istituti.

Le forze politiche tutte, di destra e di centro, attraverso le campagne di “voti utili” e di “soglie di sbarramento”, hanno innescato un processo irreversibile per liquidare per via istituzionale ogni possibilità di rappresentanza parlamentare di ogni alternativa di sinistra. Il bipolarismo tanto invocato dalle forze di destra e di centro si sta tramutando in bipartitismo, con un forte partito vincente, il cui leader ha le potenzialità e la capacità della piena manipolazione del consenso attraverso i suoi tanti mezzi di comunicazione di massa, e un mezzo partito, coacervo di democratici moderati e liberisti, facente funzioni di foglia di fico al vulnus democratico.

Il sistema elettorale risultante dall’approvazione dei quesiti referendari si dimostrerebbe addirittura più arbitrario della stessa legge Acerbo con cui si instaurò il regime fascista.


Giunto al potere nel 1922, Benito Mussolini manifestò subito la volontà di modificare il sistema elettorale e di conseguenza indire nuove elezioni per la costituzione di una Camera sostanzialmente a lui favorevole (nelle elezioni del 1921 erano stati eletti solo 35 deputati fascisti).

La legge elettorale del 18 novembre 1923, n. 2444, meglio nota come legge Acerbo (dal nome del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo, che ne fu l’estensore materiale), rispondeva a questa fondamentale esigenza.

Si introdusse un sistema che prevedeva la introduzione del Collegio Unico nazionale nel territorio dello Stato, attribuendo due terzi dei seggi alla lista che avesse riportato la maggioranza relativa, mentre l'altro terzo sarebbe stato ripartito proporzionalmente tra le altre liste di minoranza su base regionale e con criterio proporzionale.

Bisogna sottolineare che non era prevista alcuna soglia di sbarramento, e quindi una qualche voce veniva concessa anche ad oppositori di non rilevante rappresentanza.
La legge dopo un dibattito, che vide le opposizioni divise, fu approvata dalla Camera il 21 luglio 1923 con 223 voti a favore e 123 contrari.

Dopo qualche anno, la direzione di marcia autoritaria e totalitaria veniva sempre più accelerata.

(Perché non prevedere che questo possa avvenire anche nella nostra attuale situazione politica?)
Il disegno di legge sulla riforma della rappresentanza politica presentato alla Camera il 27 febbraio 1928 dal ministro della giustizia Alfredo Rocco, introdusse un nuovo sistema elettorale che, negando la “sovranità popolare” e liquidando l’esperienza parlamentare, contribuiva alla realizzazione di un regime autoritario basato sulla figura del Capo del governo.

Il provvedimento approvato alla Camera il 16 marzo senza discussione riduceva le elezioni all’approvazione di una lista unica nazionale di 400 candidati, prevedendo la presentazione di liste concorrenti solo quando la lista unica non fosse stata approvata dal corpo elettorale. La compilazione della lista era compito del Gran Consiglio del Fascismo, dopo aver raccolto le designazioni dei candidati da parte delle confederazioni nazionali di sindacati legalmente riconosciute ed altri enti ed associazioni nazionali. (Testo unico 2 settembre 1928, n. 1993)
Il sistema elettivo fu poi abbandonato nel 1939; la Camera dei deputati venne soppressa ed al suo posto venne istituita la Camera dei Fasci e delle Corporazioni di cui facevano parte coloro che rivestivano determinate cariche politico-amministrative in alcuni organi collegiali del regime e per la durata della stessa.

Ma ritorniamo alle strette vicende della legge Acerbo, quella profonda riforma del sistema elettorale voluta da Benito Mussolini e realizzata nel 1923 da Giacomo Acerbo.

Il 4 giugno 1923 il disegno di legge veniva approvato dal Consiglio dei Ministri sotto la Presidenza di Mussolini, e il 9 giugno il testo redatto da Acerbo veniva presentato alla Camera e sottoposto all’esame della commissione, detta dei “diciotto” deputati, nominata dal presidente della Camera Enrico De Nicola secondo il criterio della rappresentanza dei gruppi.

A comporre la commissione tutto il Gotha politico di quel momento:
Giovanni Giolitti (che fungerà da presidente della commissione) e Vittorio Emanuele Orlando per il gruppo della “Democrazia”, Antonio Salandra per i liberali di destra, Ivanoe Bonomi per il gruppo riformista, Giuseppe Grassi per i demoliberali, Alfredo Falcioni per la “Democrazia italiana” (nittiani e amendoliani), Luigi Fera e Antonio Casertano per i demosociali, Pietro Lanza di Scalea per il gruppo agrario, Raffaele Paolucci e Michele Terzaghi per i fascisti, Paolo Orano (in realtà anche lui fascista) per il gruppo misto, Alcide De Gasperi e Giuseppe Micheli per i popolari, Giuseppe Chiesa per i repubblicani, Filippo Turati per il PSU, Costantino Lazzari per il PSI, Antonio Graziadei per il PCI.

La legge Acerbo prevedeva l’adozione del sistema maggioritario plurinominale all’interno di un collegio unico nazionale.

Ogni lista poteva presentare un numero di candidati pari ai due terzi dei seggi in palio (si noti come, per assurdo, tale meccanismo fu spacciato per democratico in quanto garantiva di converso alle minoranze un terzo dei seggi dell’assise parlamentare, anche nel caso fossero scese al di sotto del 33% dei suffragi), cioè 356 su 535, e la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti avrebbe eletto in blocco tutti i suoi candidati.

(Nota Bene: la lista che avesse ottenuto la maggioranza con una percentuale superiore al 25% dei voti! Se passano i referendum, non è prevista per la lista vincente alcuna soglia minima di vittoria, la lista ramazza il premio di maggioranza del 54% anche con il 10% dei consensi, se vincente. Si tratta di una condizione peggiore per la democrazia di quella proposta dalla legge Acerbo.)
I restanti 179 scranni sarebbero invece andati alle liste rimaste in minoranza, che se li sarebbero suddivisi fra loro sulla base della vecchia normativa proporzionale del 1919.

Il 21 luglio del 1923, la legge Acerbo veniva approvata alla Camera dei Deputati con 223 sì e 123 no: a favore si schierarono il Partito Nazionale Fascista, buona parte del Partito Popolare Italiano (tra cui Alcide De Gasperi), il Partito Liberale Italiano e altri esponenti della destra, quali Antonio Salandra; negarono il loro appoggio il Partito Comunista d’Italia e il Partito Socialista Italiano.

Il 18 novembre del 1923, anche il Senato del Regno concedeva il disco verde alla legge con 165 sì e 41 no, e la riforma entrava definitivamente in vigore.

Alle elezioni del 6 aprile 1924 il Listone Mussolini (come il “Presidente Berlusconi” negli attuali manifesti elettorali) prese il 61,3% dei voti (il premio di maggioranza, come prevedibile, scattava per il Partito Nazionale Fascista): i fascisti trovarono il modo di limare anche il numero di seggi garantiti alle minoranze, alla cui spartizione riuscirono a partecipare mediante una lista civetta (la lista bis) presentata in varie regioni e che strappò ulteriori 19 eletti, mentre le opposizioni di “centro-sinistra” ottennero solo 161 seggi, nonostante al Nord fossero in maggioranza con 1.317.117 voti contro i 1.194.829 del Listone. Complessivamente, le opposizioni raccolsero 2.511.974 voti, pari al 35,1%.

Questa la tesi sostenuta dallo storico Giovanni Sabbatucci, pienamente condivisibile: “L'approvazione di quella legge fu un classico caso di “suicidio di un’assemblea rappresentativa”, accanto a quelli del Reichstag che vota i pieni poteri a Hitler nel marzo del 1933 o a quello dell'Assemblea Nazionale Francese che consegna il paese a Petain nel luglio del 1940. La riforma fornì all'esecutivo lo strumento principe - la maggioranza parlamentare - che gli avrebbe consentito di introdurre, senza violare la legalità formale, le innovazioni più traumatiche e più lesive della legalità statuaria sostanziale, compresa quella che consisteva nello svuotare di senso le procedure elettorali, trasformandole in rituali confirmatori da cui era esclusa ogni possibilità di scelta”.

L’analisi dettagliata della legge Acerbo dovrebbe risultare di monito a tutti coloro che si propongono di votare “sì” ai quesiti referendari. Ma le lezioni della Storia non sono mai sufficienti. Torniamo ai nostri giorni. Per la verità, anche Veltroni, optava per un sistema elettorale del genere ed era concorde con i promotori dei referendum, evidentemente sognando un destino, che sembra sorridere invece al cammino vincente del Cavalier Berlusconi & Soci.

“Il partito a vocazione maggioritaria, il voto utile, e altre sciagurate farneticazioni rientravano perfettamente in questo disegno. Non aveva capito che marchingegni del genere servono solo alla destra. Contraddicono i principi della democrazia, i democratici li rifiutano e si astengono dal voto”. Come non dare ragione a queste conclusioni di Gianni Ferrara!

Comunque, pervicacemente, l’…ottimo stratega Massimo D’Alema dichiara di concedere un voto positivo, fiducioso che in seguito il Parlamento si azionerà per istituire una legge elettorale secondo il modulo tedesco, e la segreteria del PD, con in testa il buon Franceschini raccomanda di concedere il “sì” perché così si apriranno le voragini delle contraddizioni interne alle forze di maggioranza!

Sarebbe stato più opportuno per loro fermarsi alle critiche di “spendaccionismo” contro l’esecutivo, avrebbero almeno salvato la faccia! Ancora confidano di ribaltare la frittata e di godere loro dei “premi di maggioranza”: ed intanto diventano partecipi del suicidio dell’assemblea rappresentativa del Parlamento Italiano, aprendo irreversibilmente le porte ad un regime di oligarchi autoritari.

Il giorno 21 giugno 2009 disertiamo le urne, e lavoriamo, se possibile, per l’eliminazione del porcellum Calderoliano e per la difesa della Costituzione attraverso un vasto movimento di cittadini consapevoli che la democrazia è in pericolo!

Padova, 22 aprile 2009

Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova

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