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Pinelli. Nessuna pace con lo Stato

(12 Maggio 2009)

Torniamo indietro. A quel dannato 15 dicembre del 1969, il giorno che Giuseppe Pinelli venne ammazzato nella questura di Milano, nella stanza del commissario della “squadra politica” Luigi Calabresi.
Tre giorni prima una bomba di Stato aveva fatto strage di 17 persone nella banca dell’agricoltura di piazza Fontana. Immediatamente era scattata la caccia all’anarchico: decine e decine di compagni erano stati fermati e portati in questura e sottoposti a martellanti interrogatori. Giuseppe Pinelli, partigiano, ferroviere, sindacalista libertario, attivo nella lotta alla repressione, era uno dei tanti. Uno dei tanti che in quegli anni riempivano le piazze per farla finita con lo sfruttamento e l’oppressione.

Il copione venne preparato con cura ed eseguito a puntino. Un sistema politico e sociale che aveva imbalsamato la Resistenza, represso la protesta operaia e contadina, stava traballando sotto la pressione delle lotte a scuola e in fabbrica.
La strage di piazza Fontana, la criminalizzazione degli anarchici, l’assassinio di Giuseppe Pinelli furono la risposta dello Stato al movimento del Sessantotto e del Sessantanove.
Solo la forza di quel movimento impedì che il cerchio si chiudesse, che gli anarchici venissero condannati per quella strage, la prima delle tante che insanguinarono l’Italia.
Quelle stragi, maturate nel cuore stesso delle istituzioni “democratiche”, miravano ad imporre una svolta autoritaria, a dittature feroci come quelle di Grecia, Argentina, Cile. Basta con la favola dei “servizi segreti deviati”! Gli stragisti sedevano sui banchi del governo. Uomini dei servizi e poliziotti come Calabresi obbedivano fedelmente alle direttive dello Stato.
La stessa scelta della lotta armata, che pur buona parte degli anarchici non condivise per il suo carattere avanguardista e militarista, scaturì dal timore che un nuovo fascismo fosse alle porte. Fu anche una risposta alle stragi e alla repressione.

Dopo 40 anni lo Stato cerca di assolvere definitivamente se stesso, mettendo sullo stesso piano i carnefici e le vittime. Non è un caso che il protagonista sia Giorgio Napolitano, che, come il suo collega Violante, riscrive la storia mettendo sullo stesso piano le ragioni dei carnefici e quelle delle vittime.
Invitare alla stessa cerimonia la vedova di Pino e quella del suo assassino è il segno di una storia che si vuol chiudere all’insegna di una pacificazione impossibile, vergognosa, inaccettabile. L’umana pietà per i morti, per tutti i morti, non può mutare di segno allo scontro irriducibile che, in quegli anni, contrappose sfruttati e sfruttatori, oppressi ed oppressori, servi dello Stato e suoi irriducibili nemici.

Nella notte tra il 6 e il 7 maggio, nel Centro di Identificazione e Espulsione (CIE) di Ponte Galeria a Roma una donna si è impiccata nei bagni. Si chiamava Nabruka Mimuni, era un’immigrata tunisina in Italia da 20 anni. Quel giorno avrebbe dovuto essere deportata ma ha scelto di morire dove aveva deciso di vivere. Nabruka è stata uccisa dalle leggi razziste della democrazia italiana.
Poco più di dieci anni fa una legge dello Stato istituì le prigioni per migranti, i Centri come quello dove è morta Nabruka. In tanti sono stati uccisi da quella legge: migliaia e migliaia inghiottiti dal mare dove viaggiano le carrette dei senza carte.
Quella legge portava anche la firma di Giorgio Napolitano. Lo stesso che oggi versa lacrime di coccodrillo sui morti di quarant’anni fa.
Tra qualche decennio nessuno ricorderà Nabruka e i tanti come lei. Se così non fosse un presidente della Repubblica dall’animo gentile vorrà un incontro tra i parenti di Nabruka e quelli di Napolitano?
Vorrà che i parenti degli assassini facciano pace con i parenti delle vittime?
Non c’è altra democrazia che la democrazia reale, quella fatta di stragi, morti nelle piazze, nelle questure, nelle prigioni, sui posti di lavoro dove, per legge, chi uccide se la cava con una multa.

Nessuna pace con lo Stato!

Federazione Anarchica Torinese – FAI

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