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Dignità operaia

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(9 Marzo 2012) Enzo Apicella
Oggi sciopero generale dei metalmeccanici convocato dalla Fiom e manifestazione nazionale a Roma

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Antagonisti per non essere complici

Sintesi della relazione di Giorgio Cremaschi all’Assemblea del 15 maggio della Rete28Aprile

(20 Maggio 2009)

Siamo di fronte a una gestione complessiva della crisi che assume sempre di più le caratteristiche di una brutale operazione di classe nella quale i ricchi diventano più ricchi, i lavoratori e i poveri più poveri e l o spazio in mezzo è solo coperto dalla carità sociale. Abbiamo sentito per alcuni mesi i pianti sull’eccesso di guadagno del capitalismo, le dichiarazione che affermavano “mai più come prima” e così via. E’ vero esattamente il contrario, l’economia punta a ripartire con lo stesso modello di prima più selvaggio e ingiusto di prima.

L’enorme uso del finanziamento pubblico è servito a sostenere la finanza e la Borsa. Sul piano sociale non c’è alcuna operazione di distribuzione del reddito mentre si preparano tagli, licenziamenti, attacco ai diritti e ai contratti di lavoro. E’ così sicuramente in Europa ed è ancor di più così in Italia, ove il “libro bianco” del ministro Sacconi rappresenta la summa ideologica di un modello sociale nel quale i principi scritti nella Costituzione sono tutti cancellati. Dall’eguaglianza all’equa retribuzione, all’utilità sociale del capitalismo privato, allo stato sociale, alla sanità, ai servizi pubblici, alla scuola pubblica e così via. Il “libro bianco” del ministro del Lavoro parla di “universalismo selettivo”. Questo vuol dire la rinuncia totale all’idea stessa dell’eguaglianza sociale. Significa selezionare i diritti sulla base della capacità di spesa e delle necessità di profitto delle imprese. Significa considerare l’ingiustizia sociale un dato inevitabile che si può solo amministrare, con maggiore o minore compassione, ma sempre cercando di governare alimentando la guerra tra i poveri.

- Con la legge sulla sicurezza il governo Berlusconi esprime il più grave e brutale attacco ai diritti umani e ai diritti del lavoro che si sia verificato in Italia dal 1945 ad oggi. E’ un’operazione ideologica e sociale a tempo stesso, tesa a costruire nel paese, per la prima volta dal 1938, il consenso popolare a una cultura fondamentalmente razzista. Non è grave solo l’insieme dei provvedimenti, che tra l’altro ripristinano parti importanti del vecchio codice Rocco sulle libertà di manifestare – e rispetto ai quali si conferma un’autentica stupidaggine la decisione della Cgil di sottoscrivere a Roma un protocollo limitativo della libertà di manifestare – ma ancora più grave è la motivazione di fondo che le ispira. Sostenere nell’Italia di oggi che queste misure servono a impedire l’Italia multietnica significa dire che ci sono milioni di lavoratori e lavoratrici con i loro familiari che non avranno mai l’accesso ai diritti costituzionali di tutti noi, significa un apartheid coperta dal fard. Contro questa legislazione non è più tempo di parole ma di atti. Bisogna organizzare la disobbedienza civile, fare delle Camere del Lavoro uno strumento di disobbedienza e trasgressione di questa legge.

- La scelta della discriminazione, la rinuncia all’eguaglianza aggredisce a fondo tutti i diritti e le conquiste delle donne, quelli civili, ma anche il diritto al lavoro e alla parità. E’ il concetto stesso di emancipazione che viene messo in discussione. Le ristrutturazioni industriali colpiscono l’occupazione femminile, la riportano a marginalità e precariato estremo, lo stesso avviene per i tagli nei servizi pubblici nella scuola. I tagli allo stato sociale rendono ancora più pesante un carico del lavoro familiare. Tutto questo si scarica sulla salute, sulla vita e sui diritti delle donne.

- Pochi mesi fa un gigantesco movimento di lotta di studenti e insegnanti ha risposto all’attacco alla scuola pubblica che questo governo ha scatenato, portando alle estreme conseguenze uno sgretolamento del diritto all’istruzione e alla formazione che era già cominciato con i governi precedenti. Ora questo movimento è entrato in una fase di difficoltà e anche di riflusso. Anche se la mobilitazione continua con lo sciopero attuale di oggi della scuola, dei Cobas e con quelli che prepara la Cgil. Ma l’attacco alla scuola pubblica non si è fermato, la privatizzazione dell’istruzione, l’ulteriore avanzamento della scuola di classe, il modello americano ultraselettivo e basato sulla ricchezza della scuola e dell’università, continua ad avanzare e con esso la privatizzazione dello studio e della ricerca.

- A coronamento di questi processi economici, sociali e culturali, c’è la costruzione di un regime del consenso al governo e alla sua maggioranza, fondato sempre di più su meccanismi autoritari e sull’intollernza e la soppressione del dissenso. La vicenda del terremoto è stata utilizzata chiaramente dal governo Berlusconi sulla falsariga di come il presidente Bush ha utilizzato l’11 settembre. Un modo per costruire un’ideologia della compattezza nazionale che non ammette critiche, non ammette obiettivi. Chi solleva i problemi della materialità delle condizioni dei terremotati, chi mette dubbi sulla ricostruzione e sul suo finanziamento, diventa un nemico del paese, uno sciacallo. Questa ideologia nazionale, del siamo tutti nella stessa barca, diventa lo strumento per la costruzione del regime e la soppressione della critica, come mostra lo scandaloso atteggiamento servile della stampa italiana verso la vicenda del divorzio di Berlusconi. Una volta forse si è esagerato a parlare di regime, adesso non se ne parla più perché un regime autoritario intollerante, fondato su populismo e impresa, si sta costruendo. Anche il prossimo referendum sul sistema elettorale rischia di rafforzare il regime, contribuendo, se avrà successo, a costruire una legge elettorale peggiore da quella utilizzata da Mussolini nel 1924. La politica internazionale, il massacro in Afghanistan, le scelte della Fiat, su cui si è esercitato un campanilismo di stato ridicolo e inquietante, stanno costruendo un’ideologia nazionale che noi dobbiamo contrastare sul piano culturale e sul piano dell’azione. Anche per questo dobbiamo riprendere i contatti con tutti i movimenti e i pensieri critici, cominciando con la partecipazione, nelle forme in cui sarà possibile, alla contestazione del G8 a L’Aquila.

- Sul piano sindacale c’è un intreccio profondo tra l’accordo separato del 22 gennaio e il sistema contrattuale - autoritario e aziendalista al tempo stesso – che ne emerge, e i processi in atto nella realtà del mondo del lavoro. E’ quello che il ministro del Lavoro ha chiamato il passaggio dalla concertazione alla “complicità” sindacale. Mai definizione fu più appropriata, mai questa definizione ci dà così chiare ragioni per rifiutare questo modello sindacale. La vicenda Alitalia è diventata il terreno di sperimentazione di una vera e propria politica antisindacale, magari sottoscritta in condizioni suicide anche dalla Cgil. Come fece Ronald Reagan nel 1980 con i controllori di volo, l’attacco ai diritti del sindacato, alla contrattazione collettiva è partita da quella che stata presentata come un’area di privilegio dei lavoratori e di strapotere dei sindacati. Nella stessa operazione che sta conducendo il ministro Brunetta nel mondo del lavoro pubblico, ove non si vogliono semplicemente fare contratti nazionali più bassi e imporre regole più dure ai lavoratori. Si vuole liquidare la contrattazione collettiva, tornando al premio individuale deciso dal capo. Si torna all’epoca Monsù Travet. Mentre si esaltano le consulenze e la casta dei manager che alla fine emerge, come tutti i ricchi, più ricca arrogante e prepotente di prima. Così avviene in Fiat e in Fincantieri. In Fiat si prepara un attacco frontale all’occupazione e al lavoro che sarà giustificato spiegando che o si accetta di chiudere un paio di stabilimenti oppure si chiude tutto, così come si è detto in Alitalia. In Fincantieri si è per la prima volta sperimentato l’accordo del 22 gennaio, distruggendo il principio stesso del consenso nella contrattazione in un Gruppo nel quale gli accordi erano sempre stati decisi dai lavoratori e, soprattutto, definendo il premio sulla produttività che sembra scritto da Sacconi e Bonanni. Tutti i prossimi appuntamenti di lotta della Fiat e di Fincantieri devono diventare appuntamenti di lotta di tutti noi.

- L’attacco ai diritti si diffonde in tutti i luoghi di lavoro con i licenziamenti e con le minacce, in un clima intollerabile che in ogni posto di lavoro riduce la libertà delle persone, vuole intimidire e creare subordinazione. Altro che valorizzazione del lavoro: la crisi è l’occasione per un regolamento dei conti conclusivo con tutti i diritti e la contrattazione collettiva, per una vendetta sociale che mette al centro i tagli al costo del lavoro, la differenziazione salariale, le gabbie salariali, la liquidazione del salario certo, come condizione per la ripresa economica. Avevano detto che non si poteva fondare la competizione solo sul costo del lavoro? Bene, è esattamente quello che stanno facendo con più rabbia, arroganza e prepotenza di prima.

- La precarietà è diventata uno strumento fondamentale, come abbiamo sempre detto, di governo del rapporto di lavoro. Oggi essa viene amplificata con la crisi e trasformata in uno strumento ideologico potente: la guerra dei poveri come sistema di governo. La precarietà e l’incertezza dei lavoratori fa sì che si cerchi di spiegare che per avere più sicurezza bisogna togliere i diritti a chi ancora ce li ha e impedire a chi ne ha meno, emigranti prima di tutto, di minacciare i tuoi. Ci sono due ministri, Brunetta, Maroni e Sacconi, che in qualche modo hanno svolto questa funzione ideologica, uno contro il privilegio dei pubblici, l’altro contro la minaccia dei migranti, il terzo con l’esaltazione del salario legato alla produttività e l’attacco alla contrattazione collettiva. Come ha detto Berlusconi eseguono ordini superiori, cioè l’idea di trasformare la società nel modello che Berlusconi ha sempre propagandato nelle sue televisioni e nei suoi programmi.
Per questo bisogna avere la consapevolezza che quello che abbiamo di fronte non è il rischio di un semplice arretramento ma quello di una sconfitta storica, nella quale non veniamo semplicemente costretti a rinunciare a questo o quel punto, ma a noi stessi: a quello che pensiamo, a quello che siamo , a quello che vogliamo essere. Ed è per questo che non possiamo minimamente permetterci il lusso di essere moderati.

- La crisi ha dimostrato l’estrema funzionalità della precarietà del lavoro ai processi di ristrutturazione. Essa ha permesso di liquidare i precari nel pubblico e nel privato o, comunque, di non considerarli alla pari di tutti gli altri lavoratori. Ora c’è il rischio che eventuali momenti di ripresa economica avvengano con un enorme espansione del lavoro precario sotto tutelato. Per queste ragioni è giusto affrontare la questione della precarietà del lavoro, peraltro come abbiamo sempre fatto, e riproporre il problema dell’estensione dei diritti fondamentali. Ma per estrema chiarezza questo è l’esatto contrario dei vari progetti del contratto unico che si stanno definendo. Respingiamo alla radice l’idea che per estendere i diritti ai precari bisogna mettere in discussione ancora una volta l’articolo 18. Quindi no al progetto Ichino e no anche a quello meno sfacciato di Boeri. L’articolo 18 va semplicemente esteso, non è un peso in una società giusta, lo è per una società che vuole mettere in discussione la Costituzione della Repubblica.

- L’accordo separato sul sistema contrattuale implica delle scelte immediate. Non si può dire di no all’accordo e poi applicarlo. Per questo diciamo di no a tutte le piattaforme unitarie che in qualche modo applicano il loro accordo, come fa quella degli alimentaristi. Se si vuole reggere il no all’accordo separato e se si è davvero convinti della sua gravità, allora bisogna renderlo impraticabile, far sì che le aziende capiscano che hanno sbagliato perché invece che regolare il nuovo sistema aumenta il conflitto e anche le contraddizioni. Se invece si pensa semplicemente a qualche piccolo aggiustamento, allora si sta preparando a firmarlo.

- La questione della precarietà, l’attacco ai diritti del lavoro e all’occupazione, l’attacco al contratto nazionale e alla contrattazione collettiva sono parti di un disegno che non punta semplicemente a farci arretrare ma a cambiare la natura stessa del sindacato. Che deve trasformarsi da agente contrattuale in complice, sostenuto dallo Stato, delle scelte delle aziende. E’ un aziendalismo di stato, finanziato dagli Enti bilaterali e dal privato sociale quello che si vuole imporre. L’esaltazione della responsabilità dei sindacati americani, che accettano di non scioperare alla Chrysler fino al 2015 e che entrano nel consiglio di amministrazione semplicemente perché non hanno più la sanità e la pensione - che l’azienda non pagava – è la dimostrazione di ciò che si vuole fare: si vuole cambiare la natura costituzionale del sindacato in Italia e su questo si sta costruendo un consenso vasto che arriva da una parte rilevante degli schieramenti politici e naturalmente comprende Cisl e Uil.
Per questo noi consideriamo il no della Cgil all’accordo separato un no costituente, non un incidente di percorso, ma la scelta di dire di no a un modello sindacale e quindi, conseguentemente, quella di costruirne un altro. Sappiamo che in Cgil c’è chi pensa a una tesi diversa, anzi opposta, ed è per questo che consideriamo un fatto di assoluta moralità politica che nel congresso queste due posizioni si misurino nella maniera più netta e chiara.

- In questo momento di crisi i lavoratori hanno paura, ma sentono anche il senso pesante dell’ingiustizia. I rischi dello smottamento verso posizioni moderate e anche reazionari ci sono sempre durante la crisi, ai giornalisti e agli intellettuali che oggi – anche a sinistra – si divertono a spiegare come mai gli operai sono reazionari, vogliamo ricordare che non c’è bisogno di fare troppa sociologia. Nel 1938 la grande maggioranza degli operai stava con Mussolini, ma nel 1943 gli scioperi alla Fiat lo facevano cadere. Nascondersi verso le difficoltà, le passività, gli egoismi dei lavoratori è il massimo di immoralità per i gruppi dirigenti. Per questo noi diciamo che questo congresso dovrà davvero discutere dei gruppi dirigente. E’ necessario che la Cgil coerentemente rischi rispetto alle proprie idee e che non abbia paura del confronto aperto con i lavoratori e, soprattutto, che esca da ogni forma di protezionismo concertativo. Questa è la questione dell’unità. Nessuno di noi è contro l’unità sindacale, è uno strumento necessario per ogni lotta, per ogni vertenza. Siamo contro questa unità degli apparati così come si è configurata in quest’ultimo Primo Maggio uno degli più inutili e ipocriti primo maggio della storia della Repubblica. L’unità sindacale per noi è democrazia e partecipazione, è diritto dei lavoratori a decidere su chi li rappresenta e su cosa devono contare gli accordi e la contrattazione. L’unità sindacale come autoritarismo di vertici è il contrario dell’unità che è nella storia della Cgil. D’altra parte oggi sono in gioco due modelli sindacali diversi: quello della Cisl e quello del sindacalismo democratico e conflittuale. Non ci può essere un compromesso tra questi due modelli, uno dei due cancellerà l’altro. E noi vogliamo che sia cancellato e sconfitto quello che oggi propone la Cisl.

- Il congresso dovrà quindi scegliere una linea di rinnovamento democratica della Cgil che sia anche un profondo elemento di sburocratizazione nella vita e nella pratica dell’organizzazione. Occorre un sindacato che stia davvero in mezzo ai lavoratori, che soffra con loro in ogni momento. Occorre un sindacato di lotta. L’alternativa alla complicità è il rifiuto delle compatibilità definite dall’attuale regime di potere. Se questo è antagonismo ebbene sì, bisogna essere antagonisti per non essere complici. Occorre una grande campagna sulla democrazia sindacale che deve diventare vincolo effettivo nei comportamenti concreti di tutti i dirigenti sindacali a tutti i livelli. Il cambiamento profondo della Cgil, a seguito di una lotta politica tale quella che noi vogliamo intraprendere, non è un’esigenza interna dell’organizzazione è una necessità delle lavoratrici e dei lavoratori. La Cgil è un loro patrimonio, se essa diventasse una seconda Cisl, sarebbe una catastrofe per chi lavora, prima ancora che per la vita interna dell’organizzazione. Per questo diciamo conclusivamente basta con la retorica dell’unità, che d’altra parte è solo quella con Cisl e Uil e trascura altre parti del movimento sindacale, pensiamo al sindacalismo di base, con il quale invece crediamo si debbano costruire rapporti nuovi, visto che su alcuni temi di fondo, a partire dal no all’accordo del 22 gennaio, siamo molto più vicini che con Cisl e Uil.

- Occorre una nuova piattaforma sociale e sindacale che rappresenti lo strumento fondamentale delle lotte, delle contrattazione e degli accordi dei prossimi anni. Occorre una piattaforma che esca dal quadro delle compatibilità, dei patti di stabilità che stanno distruggendo i diritti sociali e il lavoro. Le caratteristiche fondamentali di questa piattaforma dovranno essere:
• una politica economica fondata sul ritorno in campo dell’intervento pubblico progressivo, che crei occupazione e diritti sociali, che intervenga sul serio per lo sviluppo del Mezzogiorno, di cui alcune regioni dissero di essere semplicemente sganciate dal resto del paese; un vero e proprio piano per il lavoro.
• Una profonda redistribuzione della ricchezza, realizzata con la lotta all’evasione fiscale e con l’introduzione di tassazione alle ricchezze e ai patrimoni;
• La riduzione dell’orario di lavoro come strumento per redistribuire la crescita della produttività;
• L’estensione dei diritti dello stato sociale, a partire dai migranti;
• Lo smantellamento della finanziarizzazione dell’economia e della precarizzazione del lavoro;
• Nuove forme di sostegno al reddito anche con l’estensione del salario sociale.

Il Congresso dovrà definire questa nuova piattaforma, che dovrà definitivamente ribaltare la vecchia politica dei due tempi – prima lo sviluppo e poi la redistribuzione. Dobbiamo scegliere la redistribuzione della ricchezza come leva per la ripresa economica e lo sviluppo. Se vogliamo ripartire dobbiamo ridistribuire la ricchezza che c’è oggi, non quella ch produrremo domani. Occorre quindi affrontare la questione dei salari, ma anche quella delle pensioni. Si prepara il più brutale attacco al sistema pubblico e alle condizioni di vita dei pensionati italiani. Dobbiamo rafforzare il sistema pubblico, abbandonare l’ipotesi della privatizzazione delle pensioni anche con una profonda autocritica sindacale su tutto il sistema dei fondi. La nostra proposta è molto semplice: superare il sistema dei fondi pensionistici integrativi privati e portare all’Inps e agli enti pubblici le pensioni integrative. Non vogliamo trovarci tra qualche anno come in Argentina che i fondi devono essere nazionalizzati perché sull’orlo del fallimento. I salari dovranno crescere nei contratti nazionali più dell’inflazione, le condizioni di lavoro dovranno essere tutelate. Sarà necessaria una politica fiscale severa, brutale, verso le ricchezze, il velinismo si combatte anche tassando davvero chi lo finanzia e lo mantiene.

- Tutto questo richiede una fortissima indipendenza della Cgil dagli schieramenti politici. La Cgil paga ancora tra i lavoratori il collateralismo con il governo Prodi, che al di là delle chiacchiere, con la sua politica, ha distrutto il consenso dei lavoratori verso il centrosinistra. Prodi non è caduto l’anno scorso, ma nel dicembre del 2006, quando Epifani, Bonanni e Angeletti sono stati travolti dai fischi a Mirafiori sulla finanziaria. La Cgil deve superare ogni collateralismo con il Partito Democratico, senza naturalmente inventarsene altri. Esiste naturalmente il problema della politica, di avere una rappresentanza politica che risponda ai bisogni, alle esigenze, alla disperazione dei milioni di persone che sono colpite dalla crisi. Ma la Cgil deve esercitare questo suo intervento nella politica direttamente, senza deleghe a nessuno. Anche per questo consideriamo davvero fuori misura e tradizione l’intervento che di fatto la Cgil fa per salvaguardare un giornale, a cui vogliamo tutti bene, L’Unità. Non è compito del sindacato salvare un giornale di partito. Sulla questione dell’indipendenza occorre un rigore nuovo anche nel rapporto con i gruppi dirigenti. Chi si candida alle elezioni non può rientrare negli apparati se non viene eletto. Occorre stabilire confini più netti tra noi, i partiti e i meccanismi della politica istituzionale. Il sindacato fa politica da solo, con il consenso e con la democrazia con i lavoratori. I sindacalisti se vogliono fare i dirigenti di partito cambiano mestiere.

- Questo congresso e una sfida decisiva per la Cgil e, come abbiamo fin qui sostenuto, deve avvenire su basi chiare. Non può essere un congresso unanime, come avviene in certi direttivi ove tutti votano la stessa cosa e poi ognuno fa il contrario dell’altro, un congresso così sarebbe un disastro per la Cgil. Gli appelli all’unità dell’organizzazione sono ingiusti perché presuppongono che la democrazia e la chiarezza nel confronto minino, anziché rafforzare, l’unità dell’organizzazione. In Cgil oggi ci sono sostanzialmente due linee. Una che pensa che l’accordo del 22 gennaio sia un incidente di percorso e che occorre operare per ricomporsi su un terreno di sindacalismo moderato e concertativo. L’altra che pensa che dal no a quell’accordo bisogna partire per costruire il sindacalismo del conflitto e della democrazia di cui hanno bisogno oggi i lavoratori. Gli iscritti devono poter scegliere tra queste due linee. Per questo il congresso prossimo non sarà con un documento unico. Non lo sarà comunque perché noi presenteremo una nostra mozione. Ma speriamo naturalmente di non dover dire comunque e che davvero si confrontino le due impostazioni sindacali che hanno percorso la vita della Cgil in questi anni. Per questo chiediamo esplicitamente a Rinaldini, a Podda, a Lavoro Società, a tutte le esperienze della sinistra sindacale nella Cgil di costruire un documento alternativo alle posizioni sostenute dall’attuale segreteria. Non è utile un documento unico pieno di “ma anche”, che autorizzi tutto e il contrario di tutto. Così come non è più accettabile una vita interna dell’organizzazione fondata sugli accordi di potere, sui pluralismi non misurati con il voto, sui patti di vertice.

- La Rete28Aprile ha fatto in questi anni una lunga traversata nel deserto essendo un’area programmatica con grandi idee ma ben poca organizzazione. Ora vediamo un approdo, il congresso. Ci dobbiamo organizzare per essere in grado, possibilmente in un vasto fronte, di far sì che nella Cgil tutti gli iscritti, tute le lavoratrici e i lavoratori siano raggiunti dalle nostre idee e dalle nostre ragioni. Si apre quindi una fase di organizzazione stringente che deve superare tutte le difficoltà e le incertezze di questi anni.

Giorgio Cremaschi

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