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Torino/G8. La pesante mano del capitalismo "sostenibile"

(21 Maggio 2009)

Qualcuno avrà sentito un brivido lungo la schiena, vedendo ciò che è successo al G8 dell’Università di Torino, un brivido che fa tornare indietro la memoria a Genova, otto anni fa. Non per numeri, certo, nemmeno per composizione e finalità politiche, bensì per la risposta delle forze dell’ordine ad un appuntamento di movimento internazionale contro l’aziendalizzazione delle università.

La tre giorni di iniziative (17-18-19 maggio) ha visto dall’inizio un continuo tentativo di innalzare la tensione. Già sabato, prima dell’inizio delle contestazioni, il rettore Ezio Pelizzetti disponeva di blindare Palazzo Nuovo, che doveva essere il luogo fisico di raccolta e incontro degli studenti. Lunedì 18 maggio due compagni greci e uno italiano sono stati fermati dopo cariche che hanno colto quasi di sorpresa i manifestanti. Si è arrivati poi al culmine l’ultimo giorno quando il corteo di 10.000 persone circa è arrivato sotto il Castello del Valentino, dove si teneva l’incontro organizzato dalla Conferenza dei Rettori delle università italiane (CRUI). Qui il tentativo di bloccare i cordoni di polizia nelle strade laterali e sfondare verso il Castello è fallito in pochi minuti, a causa del deciso e pesante intervento della polizia che ne è seguito (un numero altissimo di agenti, blindati, fumogeni e lacrimogeni). Altri due ragazzi sono stati fermati senza troppa gentilezza, tanti feriti e notizie alquanto preoccupanti sulla gestione del dopo manifestazione.

C’è un chiaro messaggio politico che va raccolto. L’Università assume un ruolo strategico nell’accumulazione capitalista e di conseguenza nella definizione dei nuovi equilibri geopolitici che sorgeranno dopo questa crisi. Il processo di Bologna rappresenta questo: l’aziendalizzazione e la privatizzazione delle Università, la trasformazione dei Rettori in Capitani d’Impresa della conoscenza, pronti ad utilizzare il proprio potere all’interno dell’istituzione per favorire ed essere favoriti da gruppi capitalistici, finanziari, imprese, multinazionali, fornendo ad esse le possibilità di attuare processi produttivi innovativi, subalterni agli interessi privati nell’economia dei paesi del primo mondo in difficoltà (i biocarburanti di Obama, per esempio) con un sempre più alto tasso di accumulazione. Qui rientra anche la barzelletta del “capitalismo sostenibile” che aleggia in un certo mondo accademico: una maggior razionalizzazione delle risorse naturali per garantire la riproduzione nel tempo del modo di produzione capitalistico (la crisi fa paura seriamente, incluse quella energetica ed ambientale).

Come comunisti dobbiamo saper leggere questi fenomeni, e ricollegarli al sempre maggiore livello repressivo verso i lavoratori e i ceti popolari. La crisi i capitalisti la sentono (o meglio, la temono- ma i lavoratori la vivono) e, come ha ben spiegato una affatto superata analisi marxista, sappiamo che l’unico modo di arricchirsi è l’estrazione di plusvalore dal lavoro, anche di quello intellettuale. E i lavoratori, siano essi in Italia, nell’Est Europa o in qualsiasi paese che si imbatte nei capitalisti nostrani, devono stare zitti e mosca e “lavorare”. Lo Stato è pronto nell’utilizzare senza remore il proprio braccio pesante al servizio dell’economia capitalista. L’utilizzo del manganello e della repressione per soffocare dissenso e disagio sociale fanno riaffiorare brutte pagine di storia che il nostro paese ha già conosciuto, e che hanno visto i comunisti in prima linea nella difesa degli spazi di agibilità democratica e nell’organizzazione delle classi popolari.

Torino 19 maggio 2009

Rete dei comunisti (Torino)

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