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L’Iran al voto, diviso fra identità e modernità

(11 Giugno 2009)

Quarantasei milioni di aventi diritto al voto, oltre il 70% sotto i trent’anni, un ingombrante presidente uscente e tre candidati tutti quotati anche se uno solo, Mir Hossein Moussavi, può passare dal ruolo di out sider a quello di neo leader. Sono le elezioni iraniane, una sfida che poche nazioni al mondo attualmente possono vantare, con una partecipazione passionale e finora composta e alcune novità che s’affiancano ai due volti d’un soggetto entrato di forza nell’attenzione del mondo non solo mediorientale. I riflettori sono puntati sulle speranze di cambiamento mosse dall’ex primo ministro Moussavi, azero di sessantotto anni, non certo nuovo alla politica che proprio il padre della Repubblica Islamica Khomeini lanciò nel 1981 contro Vellayati, il candidato dell’ayatollah Khamenei. Questo sponsor antico e prezioso Moussavi cerca di giocarlo a suo favore anche verso il tradizionalismo tanto presente nel Paese. Lui è un uomo pacato, non dotato di carisma eppure cercherà di attirare anche i voti della tradizione e, in base al programma di risanamento economico, quello dei ceti poveri soffocati dalla disoccupazione.

Forte del sostegno muliebre, della pittrice Zahra Rahnavard che non ha esitato a comparire al suo fianco e in diversi casi a sostituirlo nella campagna elettorale introducendo un gioco di coppia tipico del presidenzialismo statunitense, Moussavi è stato preferito dal fronte riformista al teologo Khatami. Le aperture modernizzatici nel primo quadriennio presidenziale di Khatami avevano prodotto speranze, ne era seguito un secondo più ambiguo che, unito alle aperture filoccidentali e a una sorta d’ipoteca americana sulle nuove spinte, hanno risvegliato fantasmi e rilanciato la fierezza patriottica di cui s’è servito Ahmadinejad per l’elezione del 2005. In quella tornata elettorale a favore dell’attuale presidente molto giocò l’astensione di ampi settori che sembrano tornati attivi, tanto che oggi i riformisti sostengono come solo una nuova fuga dalle urne salverà Ahmadinejad dalla sconfitta. L’ottimismo diffuso nei giorni di campagna elettorale fra i fan del fronte riformatore, che comprende soprattutto studenti e donne dei centri urbani, dovrà fare i conti con l’ampia fascia rurale del Paese, zoccolo duro dei conservatori.

Il leader uscente lo sa e al modello della continuità della Rivoluzione islamica ha fatto esplicito riferimento ben oltre le figure dei fratelli pasdaran. Lui come centinaia di migliaia di ex giovani iraniani è un reduce della guerra contro l’Iraq che col suo milione di morti e di vite sacrificate per la causa è un evento ancora ben presente nella memoria popolare. I martiri di quel conflitto, cui nel cimitero di Teheran è dedicata una fontana che getta acqua di color sangue, per la mentalità simbolica del popolo sciita rappresentano una realtà che non si può rimuovere. E orienterà la scelta elettorale di tante donne di campagna coi chador neri (immagine più consona nella tradizione religiosa dei vezzosi hijab multicolori indossati da liceali e universitarie) che contano mariti e figli morti e ne ricevono sostegno economico alla memoria. Naturalmente in questa divisione più fra città e campagna che fra generazioni, perché esistono molti giovani vicini all’ideale identitario dei Guardiani della Rivoluzione, giocheranno questioni di alto profilo.

L’economia innanzitutto, visto che crisi e disoccupazione assillano la piccola e media borghesia come i bisognosi e diseredati. Su questo terreno le mosse di Ahmadinejad sono state contraddittorie, la sua aggressività in politica estera viene criticata da molti perché può ricondurre il Paese a quell’isolamento subìto nei primi anni della Rivoluzione khomeinista per l’embargo Usa e occidentale. Proprio su questo Moussavi ha attaccato il presidente in carica e lui ha reagito nei comizi e nei contraddittori televisivi usando i toni forti che ne contraddistinguono la dialettica populista. Ha accusato l’avversario di essere come Hitler che ripetendo all’infinito menzogne raggiungeva lo scopo di farsi credere. Sulla politica estera e sui contrasti con Israele Moussavi e il suo staff hanno insistito e sottolineato che le uscite antiisraeliane di Ahmadinejad rispecchiano un pensiero suo, non quello della nazione. Nessuna critica ha però ricevuto la linea statale solidale col popolo palestinese in lotta contro il sionismo, ritenuta giusta da tutti gli iraniani. E neppure il programma nucleare, visto da tanti come un diritto della nazione che l’Occidente cerca di frustrare o limitare e che qualsiasi prossimo presidente non dovrebbe ridimensionare. Su tale argomento la popolarità di Ahmadinejad è elevatissima, lo hanno dimostrato i bagni di folla nelle zone rurali del Paese dove s’è recato, i cui residenti mai avevano avvicinato nei propri villaggi una così alta autorità statale.

L’esito elettorale è, dunque, assolutamente incerto e quella che l’entourage di Moussavi stesso definisce alla maniera di Havel ‘rivoluzione di velluto’ non è detto che s’avveri. Per quanto la beffa maggiore per un ampio schieramento riformatore può diventare il rivivere speranze che restano incompiute. Nei trent’anni della propria rivoluzione l’Iran sta ancora cercando la sua strada che ormai si discosta sia dal modello khomeinista prima maniera, metà stato confessionale metà sistema antimperialista d’ispirazione marxista, sia dall’inquietante passato di regimi paraoccidentali come quello dello Shah sotterrato dalla Repubblica Islamica. Una terza via portatrice di giustizia sociale, prosperità e garante dell’identità sciita è un sogno ancora da raggiungere.

11 giugno 2009

Enrico Campofreda

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