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(15 Agosto 2012) Enzo Apicella

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Un confronto aperto ma senza sconti con la sinistra anticapitalista e i comunisti

(2 Luglio 2009)

Sintesi dell’intervento di Sergio Cararo (Rete dei Comunisti) all’incontro-dibattito del 27 giugno con Paolo Ferrero (PRC), Cesare Salvi (Socialismo 2000); Marco D’Ubaldo (Cobas); Luigi Marino (PdCI); Nando Simeone (Sinistra Critica) tenutosi al Meeting internazionale di Roma

In questa discussione dovremmo partire da una battuta fatta da Giorgio Cremaschi ad un convegno tenutosi prima delle elezioni ed al quale erano presenti anche alcuni che sono qui oggi: “Nello stesso giorno un operaio può essere un crumiro o un lottatore, dipende da quello che trova a disposizione in quel momento”. Dobbiamo partire proprio da qui, da quello che i partiti della sinistra mettono a disposizione di chi sta subendo gli effetti della crisi. Se sono la destra e la Lega o se è una opzione anticapitalista organizzata e combattiva.

La ripetuta sconfitta elettorale alle europee di giugno dopo quella dell’aprile dello scorso anno, ha confermato che sono saltati i rapporti tra i partiti della sinistra e il suo blocco sociale di riferimento e che la stessa internità dei comunisti alla classe non può più essere data per scontata.
Ci sembra ormai chiaro che non sono stati presi in considerazione i segnali di estraniamento e rottura che venivano dai settori popolari e dai lavoratori ma neanche quelli che venivano dal “popolo della sinistra” costituito dagli attivisti che pure in questi anni hanno dato vita a mobilitazioni importanti contro la guerra, nelle vertenze territoriali e sul piano sindacale.
Il primo segnale era stato quella manifestazione del 9 giugno 2007 in cui questa rottura si era visualizzata nettamente sulla politica estera del governo Prodi in occasione della visita di Bush a Roma. In quella occasione titolammo con l’interrogativo “Una sinistra senza popolo?” un numero di Contropiano segnalando la divaricazione tra i quartieri generali dei partiti che sostenevano il governo Prodi isolati in una piazza e il partecipato corteo dei movimenti che sfilava da un’altra parte. Poi ci sono state le elezioni di aprile e la verifica negativa dell’Arcobaleno. A maggio avevamo provato ad aprire un primo confronto su questi segnali avanzando anche delle proposte che abbiamo “congelato” alla luce del risultato del congresso del PRC a Chianciano che sembrava voler avviare un percorso diverso da quello ultrapoliticista della fase precedente. I fatti e le scelte operate anche in questi mesi ci hanno detto invece che è continuata quella che abbiamo definito una “marcia sul posto” cioè l’illusione di essere in movimento rimanendo invece sostanzialmente fermi.

Ci sembra però che si manifesti non solo una crisi di progetto ma anche quella del modello di organizzazione dei comunisti e dei militanti della sinistra ormai inadeguato. Il partito di massa non regge senza la dimensione istituzionale ma questa dimensione ha trasformato i partiti in apparati elettorali (in cui i gruppi parlamentari contano più delle strutture di direzione) e limita l’attivismo dei militanti alla propaganda. L’idea dominante secondo cui l’esistenza in vita nella politica e nel conflitto sociale è certificata solo dalla dimensione istituzionale oggi viene demolita dal fatto che questa dimensione parlamentare non esiste più ed è possibile che non esisterà più per un indefinito periodo di tempo. Dunque le abitudini su cui si sono formati migliaia di compagne e compagni negli ultimi quaranta anni non esistono più.
Agire politicamente in una condizione extraparlamentare impone dunque una rivoluzione culturale anche nella concezione dell’organizzazione e della militanza. Noi non liquidiamo affatto il terreno elettorale come terreno della lotta politica ma riteniamo che la prevalenza dell’elettoralismo sia una malformazione genetica che va rimossa dalla cultura politica della sinistra anticapitalista e dei comunisti nel nostro paese.
Vogliamo ribadire anche a tante compagni e compagni quello che abbiamo detto e scritto prima delle elezioni sia in occasione di confronti pubblici sia sulle nostre pubblicazioni. La fine della dimensione istituzionale non può essere vista come la “fine della storia” e dunque come buon motivo per andarsene a casa. Forse chi ha fatto della politica il suo mestiere può cercare di riciclarsi in altri apparati (spesso anche indipendentemente da qualsiasi ragionamento o adesione politica), ma chi vive una condizione materiale precisa, chi fa il ferroviere, l’insegnante, l’operaio o lo studente, chi è precario o ha perso o rischia di perdere il lavoro, sta dentro una condizione materiale di esistenza, di esigenze e bisogni che non consente di ritirarsi perché la crisi economica ti viene a stanare anche dentro casa, e in quel caso è meglio affrontare la crisi collettivamente piuttosto che individualmente.

Il punto dirimente di quella che riteniamo una necessaria rivoluzione culturale è l’indipendenza politica, di classe e organizzativa.
Indipendenza politica dal Partito Democratico innanzitutto sia a livello nazionale che locale. A Bologna una nuova rottura frontale tra il PRC e i movimenti sociali si è consumata proprio in queste ore in occasione dell’insediamento della giunta Delbono contestata dai movimenti di lotta per la casa che hanno visto sgomberare una occupazione prevalentemente operaia in una città come Bologna.
Indipendenza politica significa rompere e sottrarsi apertamente al bipartitismo coatto che, se lo abbiamo stoppato insieme con il boicottaggio del referendum del 21 giugno, agisce in modo ancora più forte sul piano delle amministrazioni locali come regioni, comuni e province.
Ma indipendenza significa anche indipendenza organizzativa e soprattutto sul piano sindacale. Riteniamo che i due maggiori partiti comunisti debbano smettere definitivamente di pensare che il sindacalismo sia l’ennesima bizzarria dell’anomalia italiana (anche perché il fenomeno non esiste nelle stesse dimensioni negli altri paesi europei).
I sindacati di base sono lo strumento dell’organizzazione del blocco sociale antagonista perché la Cgil non accetta e non accetterà mai questa funzione e l’influenza della sinistra anticapitalista e dei comunisti sulla Cgil è irrilevante. Tra l’altro non è secondario rammentare che la Cgil sta firmando molti dei contratti incardinati nei parametri dell’accordo del 22 gennaio siglato da Cisl, Uil e Ugl.
In secondo luogo non è secondario sottolineare come il sindacalismo di base nel nostro paese è l’unica esperienza in crescita e con potenzialità ormai visibili in una situazione di crisi, logoramento e difficoltà di tutte le forze della sinistra.

Infine vogliamo anche spiegarci bene sulla questione dell’unità dei comunisti. La domanda da porci ed a cui rispondere è: quali sono i fini dell’unità dei comunisti in un solo partito? Il partito in sé non è un fine ma uno strumento per raggiungere il fine che si è deciso di perseguire.
Alla luce dell’esperienza storica italiana e di quello che sono diventati oggi i partiti comunisti nel nostro paese, dobbiamo dare oggi delle risposte su quali sono gli obiettivi strategici: è il ritorno alla programmazione economica neokeynesiana o è la riapertura della prospettiva del Socialismo nel XXI° Secolo come alternativa alla crisi del capitalismo come ci indica il processo in corso in America Latina? E’ dunque un progetto riformista o un progetto di alternativa politica? E’ la speranza nascosta che in qualche modo tutto ritorni alla condizione prima del 13 aprile 2008 o quella di una nuova sfida strategica da ingaggiare dentro la crisi del capitalismo? Rispondere a queste domande è il passaggio dirimente e preliminare per qualsiasi confronto sull’unità dei comunisti.

In conclusione, vogliamo sottolineare come un anno fa avevamo avanzato una proposta politica per la sinistra anticapitalista e i comunisti. Si trattava di un programma minimo su sette punti che rendesse i contenuti stessi il “soggetto politico” su cui coordinare l’iniziativa comune delle forze della sinistra anticapitalista e dentro di questa (e non fuori) dei comunisti.

- i primi due punti riaffermavano l’indipendenza politica dal PD e la consapevolezza che il sociale oggi sta prevalendo sul politico a causa dell’arretratezza di quest’ultimo. E’ questa una consapevolezza decisiva per approcciare la questione sindacale che riteniamo centrale
- il sostegno al sindacalismo di base come opzione rilevante ai fini della ricomposizione di un blocco sociale anticapitalista
- La questione democratica sulle forme della rappresentanza (il sistema proporzionale come unico modello della rappresentanza democratica), la difesa e l’estensione delle libertà sindacali e la fine delle discriminanti antisindacali, la messa al bando della legislazione d’emergenza che ci trasciniamo come “normalità” dagli anni Settanta
- La lotta alla guerra e al ruolo imperialista dell’Italia (Afghanistan, Libano, l’alleanza strategica con la NATO e con Israele)
- La resistenza attiva all’oscurantismo del Vaticano e dell’egemonia reazionaria
- La dimensione sociale e anticapitalista della questione ambientale

Siamo pienamente consapevoli di non essere autosufficienti in questo percorso. Siamo a favore di un confronto con pari dignità e senza supponenza alcuna e proponiamo che su tutti o su alcuni di questi puntisi possa sperimentare e mettere in campo una alleanza anticapitalista con dentro i comunisti. Un’alleanza inedita nelle forme ma antagonista nei contenuti.
Dentro questo processo di re-insediamento sociale e di ricostruzione di un blocco sociale anticapitalista riteniamo di dovere e potere collocare la ricerca, il confronto teorico e la rielaborazione di un punto di vista comunista della realtà.

27 giugno 2009

La Rete dei Comunisti

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