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Falluja

Falluja

(5 Aprile 2010) Enzo Apicella
L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto l'aumento delle malformazioni congenite a Falluja, bombardata con il fosforo nel 2004

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Iraq! Iraq!

(24 Agosto 2009)

Se non dici le cose in modo da irritare, tanto vale che non le dici per niente.
La gente non si preoccupa di cose che non la preoccupano.

(George Bernard Shaw, 1856-1950)

Due mature signore che si presumono quale una giornalista, quale una saggista, abusivamente, ignorando la lezione di tutti i conoscitori onesti e competenti di quella regione assaltata dall’imperialismo israelo-occcidentale, l’indimenticabile Stefano Chiarini in testa, si occupano di Medioriente e di Islam con piglio tanto razzista e protervo quanto gradito ai gangster locali e internazionali che imperversano da quelle parti. La mia risposta, è necessitata dal fatto che la prima, svolgendo le sue mistificazioni amerikane sul “manifesto”, ha un uditorio di sinistra di un qualche rispetto che ancora le stende ai piedi l’attenuante del sequestro subito in Iraq. L’altra starnazza nel coro dei polli ingabbiati per essere cucinati alla mensa imperiale. Ma tale pigolìo, per quanto strepitato, non supera di molto i recinti del suo pollaietto milanese. Tuttavia, avendo fatto circolare l’osservazione che il sottoscritto se ne frega della resistenza irachena e afghana, preferendo in questa fase smascherare la, a costei cara, sommossa degli yuppie iraniani, a beneficio dei suoi quattro lettori estendo anche a lei la mia risposta.

C’era una volta un giornalista – diranno subito i miei piccoli lettori – che fin dal 1977 fa l’inviato in Medio Oriente e frequenta l’Iraq, fino a conoscerne la Resistenza nell’aprile e poi nel novembre del 2003, ininterrottamente da allora fino a quando non gli volevano mettere la divisa da embedded altrimenti ti spariamo o sequestriamo chiamandoci Al Qaida. Sull’Iraq della sovranità ed equità, dell’aggressione per conto terzi degli ayatollah, della prima e seconda guerra del Golfo, questa vissuta sul posto, della disfatta, devastazione, sterminio, della fenomenale Resistenza, mai doma per quanto occultata dalle leccate mediatiche all’imperatore nero, ha realizzato quattro docu-film, scritto migliaia di articoli, parlato in tutti i suoi libri, conferenziato in centinaia di convegni, per portare a migliaia di persone il maglio con cui disintegrare i macigni deposti sulle loro conoscenze e coscienze dalla disinformazione imperialista.
A cominciare dal martirio dei dirigenti che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere, dal gentiluomo Tariq Aziz al vicecapo Izzat Ibrahim, ora leader della Resistenza. Poi in buona parte processati e impiccati per mano di gaglioffi venduti e dei loro prosseneti USraeliani. Non sono medaglie che mi appendo al petto. Sono sputi in faccia a chi mette in dubbio la mia lealtà a questo popolo fondatore di civiltà, irriducibile nemico dei necrocrati imperial-sionisti, trincea della resistenza umana ai cavalieri dell’apocalisse, amico mio. E qui mi si consenta, e anche se non mi si consente, vado a tre anni fa allorchè, con ogni iracheno perbene, tremavo di commozione e collera davanti a teleschermi che rimandavano l’immagine di un topo di fogna vestito da giudice e di un uomo ritto e indomabile, come lo era stato nei trent’anni in cui aveva costruito il paese più vivo, militante, progredito e socialmente giusto, insieme a Cuba, del Sud del mondo. Saddam è morto come è vissuto. Aggredito da avvoltoi e chiaviche, in piedi a rappresentare la dignità e il coraggio del popolo iracheno, della nazione araba. Le nostre democrazie radicalmente fasulle hanno definito “dittatura” la soluzione fisiologica per una società che per due millenni era dovuta sopravvivere politicamente e culturalmente a dominii lontani e dispotici, rintanandosi nella sfera della tribù e della micro-organizzazione sociale sotto l’unica autorità consentita: il capotribù, l’uomo più valido e più saggio, il padre riconosciuto. Da lì si pretendeva che il paese facesse un salto e si portasse a dopo la rivoluzione francese e ai privilegi della democrazia borghese. Per tenere testa alle potenze che incombevano affamate e preoccupate, Saddam, l’Iraq, hanno dovuto correre. Correre all’inseguimento di un equilibrio di forze e di sviluppo che garantisse la vita e la battaglia antimperialista.

Tutto questo andava cancellato dalla percezione di chi avrebbe potuto schierarsi con Saddam, come si era schierato con Fidel. E’ stata lanciata una demonizzazione di massa, sulla base di mistificazioni e attribuzione di orrori, che ha fatto breccia ovunque. Dalla dimostrata bufala dei curdi gassati (lo furono, ma dagli iraniani), allo sterminio dei comunisti, dagli oppositori personalmente uccisi, alle fosse comuni. Che si incominciarono a trovare solo mesi dopo l’occupazione e sempre colme di sunniti e resistenti, uccisi poco prima. Di analogo ricordo solo lo stravolgimento in caricatura sanguinolenta di uno dei più saggi ed equi imperatori romani, Nerone, colpevole agli occhi del patriziato latifondista e usuraio e degli storiografi cristiani di aver governato bene. Da pagano, da laico e da amico della plebe. Dirmi che mi disinteresso della resistenza irachena, come di quella di ogni popolo o classe irriducibile alla schiavitù, è come dire che il mio bassotto Nando si disinteressa della sua cuccia. Enfasi? Retorica? Magniloquenza? Pazienza. Mi sono scontrato, a onorare Saddam rettificandone le calunnie, con più sbigottimento, indignazione, contestazione, scandalo, misure repressive, di quante guardie del Cardinale abbia affrontato D’Artagnan, o, più sul tema, di quante ingiurie abbiano subito i disvelatori delle menzogne su 11 settembre e conseguente “guerra infinita al terrorismo”. Un po’ di retorica ci può stare.

L’abominevole donna del “manifesto” ci ha testè offerto un’articolessa intitolata “Ritorno a Baghdad” che Hillary Clinton si è precipitata ad appendere nella bacheca del Dipartimento di Stato, a dimostrazione che anche in un “quotidiano comunista” si sostiene quello che lei, Obama, il Generale Odierno, capintesta in Iraq, e tutta la congrega del regmie-fantoccio, dichiarano: il paese torna alla normalità, le sue democratiche istituzioni funzionano e vanno definite tali e non più greppie di una banda di delinquenti comprati e installati dall’occupante, Baghdad è viva e se la spassa insieme a noi. Naturalmente, uscita dai martirologi da sequestro che per quattro anni le sono stati dedicati da torme di prefiche mediatiche e politiche, la ritornante, riconoscente agli Usa per essere stata lei solo ferita, anziché ammazzata come Calipari e il famoso “quarto uomo” in macchina con lei, contribuisce con il suo soffio da embedded alla diffusione delle fetide ventosità esufflate dai briefing di Odierno, e dagli eleganti borborigmi d Obama. Non ha messo il naso fuori dalla Zona Verde, non ha fatto un passo a Baghdad senza robocop attorno, ma il quadro è inconfutabilmente idilliaco. Nel frattempo tre marines sono stati uccisi dalla Resistenza a Basra, nel profondo Sud che si pensava appaltato tutto a sciti collaborazionisti e Iran, il ritmo degli occupanti caduti (sia militari che mercenari privati) è tornato alla media di uno al giorno, le forze di liberazione, tuttora egemonizzate dal Baath di Izaat Ibrahim Al Duri, vice di Saddam e dal Fronte Islamico laico, con la fuga dei soldati Usa dai centri e nelle loro basi, colpiscono con potenza crescente militari e forze di polizia del regime fantoccio. La proclamazione della “sovranità”, fatta giorni fa dal regime e dai suoi padrini-padroni, tra comparse festanti, uniformate e bandierate, è stata il fatto comico planetario dell’anno. Ha coinciso con un’offensiva guerrigliera, vindice dell’autentica sovranità del paese calpestato e stuprato, dall’estremo nord di Mosul, attraverso l’incontrollabile provincia centrale di Anbar e Baghdad, all’estremo sud di Basra. Il fatto è che il giochino del generale Petraeus, predecessore di Odierno e oggi impegnato a polverizzare afghani e pakistani, che consisteva nel sottrarre forze alla Resistenza per riciclarle in “Consigli del risveglio” e di autodifesa dai trapanatori sciti, è stato disintegrato da contraddizioni che l’ottusità spocchiosa dei big occidentali suscita, o non capisce.

Circa 90mila cittadini sunniti, tra i quali anche combattenti contro l’occupazione che hanno giudicato prioritaria la lotta contro la macelleria dei caporioni manovrati da Tehran per ridurre fisicamente il peso della maggioranza non scita (sunniti, cristiani, assiri, curdi, caldei) del paese, erano entrati in questi “consigli” contro assicurazione Usa che poi sarebbero stati inseriti nel “regolare” esercito iracheno. Per i sunniti era questione di vita o di morte, venivano abbattuti come quaglie ai checkpoint per avere sul documento il nome sunnita Omar. Una forte componente nelle forze statali non legata mani e piedi agli ayatollah doveva costituire un contrappeso allo stivale persiano che arrivava in Iraq con lo zaino pieno di direttive per il governo-vassallo, armi per i tagliagole delle milizie di Moqtada al Sadr, Maliki, El Hakim, e scatoloni di schede già votate nelle varie tornate-farsa. Tehran, nella crisi da sovraespozione militare ed economica di Washington, rischiava di diventare il nemico principale, mentre per gli Usa si trattava di ridurre a più miti consigli la foia espansiva del alleato-rivale. Per gli stessi obiettivi i dietrologi di Pentagono e Dipartimento di Stato hanno poi allestito la sollevazione della frustrata borghesia filo-occidentale di Tehran Alta: era auspicabile, non solo per placare –o alimentare - la frenesia bellica di Israele, ma per sistemare le cose irachene in modo meno pro domo iraniana, un soggetto meno ostico e autonomo, meno nazionalista, del presidente Ahmadinejad, una coppia fidata, collaudata, intima di Langley, come Mir-Hossein Musavi e il corrotto, riccattibilissimo satrapo Alì Rafsanjani. Discorso che poteva andar bene a sunniti e statunitensi, ma certamente non alla cupola della setta integralista installata dal duo Usa-Iran a Baghdad. Non solo l’innesto delle milizie sunnite nell’esercito confessionalmente pulito fu negato, ogni promessa di riabilitazione e riammissione nelle strutture dello Stato dei cosiddetti “saddamiti” rimangiata, ma le milizie di Maliki e soci pretesero il disarmo dei consigli e presero ad arrestarli e decimarli. Simultaneamente sono tornate a esplodere le bombe nei mercati e nelle moschee con centinaia di vittime civili. Il modulo è quello “11 settembre”, attivato mediante la distruzione della cupola d’oro di Samarra, nel 2006: attentati nelle aree affollate scite in modo da riscatenare quella guerra civile con la quale gli uni – Usa – speravano che lo scontro anti-occupante si spostasse tra le comunità confessionali, e gli altri – Tehran e gli sciti – contavano di completare la liquidazione dei sunniti, in chiave Gaza, visti come l’acqua del pesce della Resistenza nazionale. Anche stavolta colpite da autobombe sono soprattutto le zone a varia denominazione scita e una Sgrena ne darebbe subito la responsabilità a sunniti e Al Qaida (l’ectoplasma cui danno sostanza gli agenti Cia e Mossad e il cui nome viene ormai affibbiato a qualsiasi singulto anti-occidentale da Caracas a Pyongyang).

Ma a volte quel comodo due più due, che fa il quattro dell’ottuso ”senso comune”, deborda e fa cinque e scompiglia l'ordine previsto. Alla luce delle elezioni amministrative previste per Novembre, rimangono altre due motivazioni della ripresa stragista, assai più attendibili: rilanciare la guerra confessionale per la definitiva liquidazione di una presenza politica sunnita che ha dato segni crescenti di vita e, oggi prioritario, stabilire a forza di massacri chi debba accaparrarsi i pezzi più succulenti di territorio, risorse, potere mafioso, potere contrattuale con le compagnie petrolifere occidentali che sbavano attorno ai giacimenti. Già due anni fa, alla vigilia di altre elezioni, il partito Dawa di Al Maliki e lo SCIRI (Consiglio Supremo Islamico) di Al Hakim avevano massacrato di botte l’organizzazione Al Mahdi di Moqtada al Sadr, tanto da farlo scappare a Qom, dov’è rimasto per scamparla e diventare ayatollah. Siccome questo canaio di botoli furiosi minacciava di lacerare il sostrato sul quale poggia il domino miliziano, economico, istituzionale, bancario, dell'Iran, ecco che Ahmadinejad, tolto di mezzo il prosseneta amerikano Musavi, sta impiegando il massimo impegno per ricostituire l’unità scita in Iraq.

E’ di questi giorni una serie di pressanti appelli del governo iraniano a ricomporre le fratture e tornare a riunirsi nell’ Alleanza Unita Irachena d’antan. Quella che dal 2003 al 2007, prima di spappolarsi nelle contese per l’osso, aveva governato compatta il genocidio confessionale dei sunniti e la liquidazione politica e fisica del precedente personale statale e alla quale va attribuita la maggior parte delle stragi di civili degli ultimi mesi. Nei trafiletti dei sinistri, a cui oggi è ridotta la cronaca della tuttora massima tragedia umana del mondo, una Gaza estesa per venti volte e per sei anni, si fa astutamente un fritto misto di quanto avviene tra i due fiumi: la bomba che massacra 70 civili nella riottosa Sadr City (già Saddam City) viene amalgamata all’azione dei guerriglieri di Ramadi che ha liquidato sette sbirri dei fantocci, all’autobomba di Mosul contro una caserma di militari fantoccio e all’IED che a Basra ha fatto saltare per aria tre marines. Questo indistinto borbottio di una guerra a bassa intensità (ma con più vittime di quelle ad altà intensità) che butta tutto insieme, non analizza niente. Soffia aliti di vita apparente nello spettro Al Qaida, come da briefing bushobamiano, sparge sull’interrotta mattanza i petali di una prosa accondiscendente, se non collaborativa, serve a non farci capire niente. E, non capendo niente, uno dopo un po’ si stanca di occuparsene.

La resistenza irachena è tornata, dopo essersi sottratta al “surge” di Petraeus (in cui, come a Gaza, si sparava su ogni cosa si muovesse o apparisse), a colpire quotidianamente, festeggiando così il ritiro formale delle truppe Usa nei propri acquartieramenti e smascherando con questo autentico inno alla sovranità vera la miserabile messinscena con banda dei fantocci e dei loro apologeti mediatici sinistri. Se gli americani si ritirano, ma mantengono 50mila effettivi nelle basi, 130mila mercenari per le strade e un “consigliere” Usa sulla spalla di ogni dirigente iracheno, si dice a Tehran, se contemporaneamente la Resistenza antimperialista riprende vigore e magari si esprime anche politicamente, diventa assoluta l’urgenza dell’unità tra i tentacoli sciti della piovra persiana. E negli ultimi giorni è stato un gran frullare di tonache e turbanti tra Baghdad e Tehran. Si sono visti e rivisti Al Sadr e Al Hakim, Maliki e Ahamdinejad, tutti costoro e Ali Khamenei, guida suprema, i ministri degli esteri e i presidente delle assemblee parlamentari, i capi partito e i bonzi dell’economia. L’unità sembra ristabilita. Pare che abbia avuto un ruolo decisivo quel farabutto di Ahmed Chalabi, perseguito in Giordania da una condanna a vent’anni, triplo agente Cia-Mossad-iraniano. Non durerà, perché tra questi predoni del bene pubblico (gli Usa installano solo criminali, poiché ricattabili, nei finti governi proconsolari, dal Pristina a Kabul, da Ramallah a Roma) le sfere del rispettivo ladrocinio finiscono sempre con l’essere stabilite a mazzate, in spregio a qualsiasi raccomandazione dei vicini. Intanto, però, i sunniti e gli sciti patrioti se la dovranno vedere con questo blocco antinazionale, puntellato dal potente sponsor vicino, oltreché con gli squadroni della morte Usa, composti da Navy Seals e Delta Force che, su ordine di Bush perpetuato da Obama e addestrati da specialisti israeliani, continuano a scorrazzare per l’Iraq con licenza di uccidere e torturare chiunque non accetti la sovranità da morti viventi riconosciuta dall’assassino alla vittima.

Ciò che una embedded non può, non vuole vedere
Oggi l’Iraq è un paese con due milioni di vedove di guerra, 5 milioni di orfani, 2 milioni di sfollati e 4 milioni di rifugiati all’estero che sopravvivono nell’indigenza più assoluta, in minima parte tenuti dall’UNHCR con la bocca sopra la linea di galleggiamento. Un altro milione e mezzo è stato spazzato via da 13 anni di sanzioni. In totale tra morti ammazzati e espulsi dal circuito della cittadinanza, dal futuro, quasi vent’anni di guerra imperialista all’Iraq hanno sottratto dieci milioni di persone su 25: il 40% di una nazione. Forse soltanto Re Leopoldo del Belgio, con i suoi 20 milioni di congolesi trucidati, era riuscito a far meglio. L’80% degli iracheni, secondo la riduttiva statistica ONU, ha subito ferimenti, sequestri, morte. Non c’è famiglia irachena che non abbia vissuto la scomparsa, l’incarceramento, o la soppressione dopo tortura di uno dei suoi membri. Jewad, il cui pallone finì in un fosso su un cadavere, quando aveva nove anni, non riesce più a guardare un pallone. L’incombenza dei rastrellamenti e degli arresti arbitrari da parte di milizie o guardie, dopo quelli dei 60mila incarcerati senza processo e senza avvocati dagli Usa, è costante per qualsiasi cittadino che si muova oltre le muraglie “israeliane” erette dai pulitori confessionali attorno al suo quartiere o villaggio. Tra i profughi all’estero, tenuti al margine di società, lavoro, scuola, sanità, si è inevitabilmente sviluppato la “prostituzione di sopravvivenza”. Le irachene vengono chiamate tout court “profughe puttane”. Il loro mestiere è agevolato dal fatto che nel loro paese “liberato”, in carcere o per strada, avevano già subito stupri. C’è qualche ginocrate del femminismo anti-velo che si inalberi? E dove è il mondo intellettuale, che si muove come un uomo allorchè un “dissidente”, con mensile stipendio Usa per sabotaggi vari, viene processato a Cuba, di fronte, non solo alla decimazione dell’intellighenzia e tecnocrazia irachena, ma alla dissipazione e distruzione dei beni culturali del più antico popolo civile della Terra? L’umanità ha perso e sta perdendo parte dei primi millenni della sua vicenda. I marines si portano in tinello il fregio di Nabucodonosor e tavolette cuneiformi strappate alle mura di Niniveh. Il traffico a tonnellate di reperti, poi, lo fanno i fiduciari dei grandi musei.

La disoccupazione in Iraq fluttua intorno al 60%, il 40% dei professionisti, tecnocrati, accademici ha lasciato il paese, o è stato ammazzato. 2.500 medici sono stati assassinati e le strutture sanitarie sono ridotte in rovina. Il compito di disintegrare il tessuto culturale e sanitario è affidato alle squadre speciali israeliane esperte in esecuzionni extragiudiziali mirate. Si diffondono epidemie di ogni genere, 10mila sono i casi di colera, 75mila, secondo l’OMS, sono gli affetti da Aids, morbi sconosciuti sotto Saddam. Nessuno si cura di tenere il conto della gente divorata dall’uranio (400 tonnellate nel ’91, 2000 durante l'attacco Shock and Awe), o dei bambini che – grazie a esso - nascono senza apparato genitale e con l’unico occhio sul gomito. Di diabete, parto e infarto si muore come le mosche grazie alle prolungate soste imposte ai checkpoint su modello israeliano. A nove anni dall’aggressione alla popolazione arriva solo il 50% dell’energia necessaria e solo acqua contaminata. La diarrea, in queste condizioni spesso mortale, è endemica tra i bambini. L’Eufrate, arteria di vita e fonte di alimentazione, è ridotto a un fetido fiumiciattolo, depauperato dalle non innocenti dighe turche e inquinato dagli scarichi e dalla sostituzione dei pesci con carogne umane.

Non c’è pratica, che per diritto spetti ai cittadini, la quale non costi un salasso in pizzo. Visto che tutti si strappano i capelli per l’uccisione della giornalista russa, fomentatrice di balle a uso occidentale in Cecenia, si capisce perché non vi sia tempo, neanche per i famigerati Reporters Sans Frontieres di obbedienza Cia, per enumerare i 116 giornalisti e operatori iracheni uccisi dal 2003 ad oggi. E neanche i 73 inviati stranieri, ammazzati perlopiù dai marines con fucilata in fronte. Non per nulla un addetto stampa come il colonello Ralph Peters ha scritto una direttiva per il JINSA (Istituto Ebraico per Affari di Sicurezza Nazionale), in cui è detto: "Le guerre future richiederanno censura, blackout informativi e, per finire, attacchi militari contro i media di parte”. Direttiva che in Israele si pratica da tempo. L’ha imparata pure il bravo presidente palestinese Abu Mazen, che ha cacciato da Ramallah i giornalisti di Al Jazeera perché avevano riferito di un documento che il numero due di Fatah, Faruk Kaddumi, nemico del collaborazionista fantoccio, aveva illustrato ad Amman e in cui si proverebbe la complicità di Abu Mazen, del suo sgherro Mohammed Dahlan, di un sottosegretario Usa e di Ariel Sharon nell’avvelenamento di Arafat. Del tutto verosimile.

Un’altra attività produttiva costruita ex novo da pupari e pupi è quella del traffico di organi. Con un terzo della popolazione sotto la soglia della povertà e i proventi del petrolio risucchiati nelle tasche esclusivamente dei grassatori locali e delle multinazionali, sempre più persone si vendono un organo per tirare avanti un altro paio di mesi. Per misurare il fenomeno basta mettersi davanti a uno degli ospedali privati (prima erano pubblici e invidiati dagli europei), tipo la clinica Al Khayal di Baghdad. Vi sostano in permanenza i falchetti della mediazione, accolgono gli sventurati che per far vivere la famiglia hanno deciso di mutilarsi, un rene frutta 3mila dollari, ma i clienti abbondano anche a livello internazionale e l’acquisto di quel rene può venir pagato al sensale 15mila dollari.
Fuori da qualsiasi circuito che offra trucchi per sopravvivere sono rimasti i 40mila palestinesi, un tempo ospitati, nell’Iraq libero e solidale, in un bel quartiere costruito per loro. Non dava Saddam, fino all’ultimo giorno prima dell’arrivo dei barbari, il 9 aprile, a ogni famiglia palestinese che avesse perso un martire 10mila dollari e 20mila per ricostruire la casa abbattuta dalle ruspe israeliane? Ne sono stato testimone diretto. Ridotti a poche migliaia per le esecuzioni di massa subite come punizione per essere stati cari a Saddam, i superstiti sono stati collocati fuori dal mondo. Non dal pianeta, giacchè li hanno accampati nella terra di nessuno tra Iraq, Siria e Giordania. Da lì, dove sono abbandonati a se stessi, al deserto, alle tarantole, alle epidemie, alla fame e alla sete, con qualche goccia proveniente da agenzie ONU, non possono muoversi, né avanti, né indietro, Oltre 4mila palestinesi, considerati meno dei disperati ma resistenti cittadini di Gaza, stanno lì da anni, da quando i tagliagole sciti li avevano cacciati rubandone le case. Attendati in cinque campi con intorno filo spinato e poi il nulla del deserto, senza che nessuna alba gli faccia balenare mai anche solo una scheggia di luce.

Dove sono le associazioni, i comitati, gli appelli, i convegni e i cortei degli amici della Palestina che denuncino questo orrore, questa punizione collettiva senza fine? Anche per i compagni internazionalisti questi palestinesi sono da lasciar perdere perché un tempo sostenuti da Saddam? Incidentalmente, questa accidia non colpisce forse anche Ahmed Sa’adat, il segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, che i pirati israeliani di Sharon rapirono cinque anni fa dalla prigione di Hebron, sotto controllo angloamericano, e condannarono a trent’anni, esclusivamente per il suo ruolo di capo? Ne taceva Arafat, ne tace più che soddisfatto Abu Mazen, ne tacciono le organizzazioni filopalestinesi e gli stessi compagni del FPLP non paiono muoversi un granchè. Negli Usa è stata lanciata una massiccia campagna per la liberazione di questo grande leader della Resistenza laica e panaraba. Forse qualcuno, oltre ai nazisionisti, ha interesse acchè Sa’adat resti fuorigioco. Con lui Marwan Barghuti, leader dell'Intifada, condannato a sei grotteschi ergastoli, che, fuori, in un attimo farrebbe piazza pulita del verminaio ANP.

Questo è l’Iraq che Giuliana Sgrena sul posto e tutti gli altri fuori posto non hanno visto, non hanno voluto vedere. Si sarebbe potuta increspare la fronte di Barack Obama che all’Iraq ha promesso il ritiro, sovranità e tanti buffetti. Cose peraltro garantite in perpetuo da 50 basi, 50mila soldati, 130mila contractors, un controllore USA su ogni sospiro governativo e militare, gli squadroni della morte e, se non basta, Abu Ghraib e le extraordinary renditions in carceri segrete di elementi specializzati, testè confermate da Obama. Purchè continuino le procedure di spopolamento: dove c’è petrolio non c’è bisogno di gente. Soprattutto quando continua a esserci chi promette di combattere fino a quando quella gente e quel petrolio e quella sovranità si ritrovino uniti, a ballare, con i popoli del mondo, sulla tomba dei necrocrati venuti da fuori e che contavano di divorarne la vita con l’aiuto di vermi autoctoni specializzati in putrefazione.

Nel borgo in cui vivo, una giunta comunale classicamente italiota, dal PD all’Udc e a elementi fascisti, ha appeso in giro un manifesto per il parà italiano da poco ucciso in Afghanistan. Il discorso della solidarietà è esteso “all’esercito italiano che da sempre è impegnato nella difesa della pace e della libertà”. Da scompisciarsi di riso nevrotico. Infatti, anche qui non ci resta che piangere, o piuttosto attaccare a questa fandonia storica le vicende dei 150 anni di un esercito difensore di pace e libertà. Da Bava Beccaris a casa sua, alla Libia dove si è fatto spedire da Giolitti e da Mussolini a trattare un popolo come fossero tonni nella tonnara; dall’Etiopia gassata in massa e con i resistenti appesi a tutti gli alberi da Addis Abeba al confine con Gibuti, ai 600mila mandati inutilmente a morire da generali e mercanti di cannone quando l’Austria aveva già promesso Trento e Trieste; dalla seconda guerra servita ad ammazzare e farsi ammazzare a milioni per far felici i soliti psicopatici del dominio mondiale, con particolare prove di efferatezza fascista in Grecia e Albania, all’assalto proditorio e genocida contro una Jugoslavia renitente al Nuovo Ordine Mondiale degli psicopatici; dalla Somalia da spappolare perché zitta zitta riceva le nostre schifezze chimiche e nucleari (con tanto di torture parà a somali e somale) e ci faccia depredare i suoi mari, al duplice assalto all’Iraq e poi all’Afghanistan, al Libano, al Kosovo, tutti inoffensivi, tutti innocenti. Comunque, come è del tutto evidente, sempre nel segno della “difesa della pace e della libertà”. Italiani, brava gente.

Fulvio Grimaldi

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