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Il referendum “estensivo” sull’art. 18: le ragioni di un sì

di Michele di Schiena*

(18 Maggio 2003)

* Michele Di Schiena, oggi Presidente Emerito di Cassazione, ha fatto per decenni il giudice del lavoro a Brindisi e con la sua competenza tecnica e la sua sensibilità politica ha voluto tratteggiare le ragioni che spingono a votare “SI” per l’estensione dell’art. 18 il prossimo 15 giugno.

In particolare, poi, si svelano alcune mistificazioni - molto utilizzate anche a sinistra – che prefigurano scenari catastrofici per le aziende e per i lavoratori in caso di vittoria del “SI”.



“Ciò che i profeti del turbocapitalismo celebrano, predicano e chiedono è che l’impresa privata sia completamente liberata da regolamentazioni governative, senza intromissioni da parte dei sindacati, senza pastoie sentimentalistiche sui destini dei lavoratori e di intere comunità e senza precisare nulla sulla distribuzione della ricchezza … Permettere al turbocapitalismo di avanzare senza ostacoli significa disintegrare la società in piccole élite di vincitori e masse di perdenti” E’ questa la confessione di Edward Lutwak (“La dittatura del capitalismo”, ed. Mondadori, 1999), il noto esperto di cose del Pentagono che durante ogni guerra imperversa sui nostri teleschermi per illustrarci con sconvolgente sincerità le “magnifiche sorti e progressive” delle politiche economiche e militari statunitensi. Ha ragione l’ineffabile Lutwak a disegnare, fra mille contraddizioni, una tale immagine dell’imperante capitalismo e ad aggiungere che la disperazione da esso provocata comporta inesorabilmente la repressione dei “perdenti insubordinati”. Una repressione che si esprime, all’interno dei singoli stati, con la cancellazione di diritti essenziali, l’abbattimento delle tutele sociali ed il restringimento degli spazi di libertà per i dissenzienti e, sul piano internazionale, con le guerre “preventive” rivolte a controllare masse di diseredati ed a sintonizzare sugli interessi del “pensiero unico” culture diverse e popoli disobbedienti.

Ed è proprio questo il disegno perseguito nel nostro Paese dall’attuale maggioranza con tutte le sue scelte e specialmente con quelle, in politica interna, sul versante della legislazione sociale e del diritto del lavoro. Un progetto che il governo Berlusconi sta portando avanti secondo le linee tracciate dal famoso “libro bianco” con l’obiettivo di attuare un complesso di controriforme rivolte a smantellare l’intero sistema di tutele in favore dei lavoratori: l’indebolimento del ruolo del sindacato, l’estensione della precarietà, la crescente “privatizzazione” del sistema di collocamento, la derogabilità di molte norme generali e dei contratti collettivi ad opera di contratti individuali peggiorativi frutto spesso di facili ricatti occupazionali, il ridimensionamento del controllo di legalità da parte dei giudici. Ed ancora e soprattutto: la progressiva cancellazione dell’art. 18 sui licenziamenti, già pesantemente intaccato dalla modifica concordata con quel “patto per l’Italia” che fra tanti arretramenti comprende anche quello per il quale le imprese con meno di 16 dipendenti potranno assumere a piacimento con permesso di licenziamento arbitrario.

E’ chiaro allora che il referendum del 15 giugno chiama direttamente in causa la responsabilità politica di una vasta area di cittadini figurativamente collocabili in tre sfere concentriche di interessi convergenti verso lo stesso obiettivo, quello appunto dell’estensione a tutti i lavoratori dell’art. 18. La sfera dei dipendenti delle imprese minori più direttamente toccati dalla consultazione referendaria i quali possono ottenere con effetto immediato il riconoscimento di una valida garanzia contro l’arbitrio finora ingiustamente negata. Una seconda fascia costituita da tutti i lavoratori (compresi i precari ed i disoccupati) che col loro voto positivo possono infliggere un duro colpo alla politica di questo governo in materia di lavoro che esalta oltre misura la libertà d’impresa con la compressione dei diritti e l’attacco alle tutele sociali. Ed una terza sfera formata da tutti coloro che credono in un “nuovo mondo possibile” e che con il loro “sì” al quesito referendario possono provocare una modifica legislativa in controtendenza rispetto alle politiche liberiste e di grande valore simbolico all’interno del nostro Paese e forse anche fuori di esso. La scelta astensionistica motivata dall’esigenza di perseguire per via parlamentare l’obiettivo dell’estensione dei diritti appare ingiustificata ed oggettivamente convergente sulle posizioni di chi (Governo e Confindustria) vuole umiliare il valore politico e simbolico della scelta referendaria.

Ma va anche spesa qualche parola per fare un po’ di chiarezza contro la disinformazione e l’allarmismo su un punto che deve essere messo nel dovuto rilievo. Il referendum per l’estensione a questi lavoratori (che sono oggi la maggioranza dei lavoratori dipendenti) del diritto alla reintegra nel posto di lavoro nel caso di licenziamento illegittimo avanza una domanda di elementare giustizia: quella che i dipendenti in questione non vengano privati del lavoro, e di tutto ciò che il lavoro socialmente ed umanamente rappresenta, nel caso di una espulsione priva di qualsiasi valida giustificazione. Nel caso cioè di una “cacciata” senza una ragione grave, la cosiddetta “giusta causa”, consistente in rilevanti mancanze del lavoratore e senza neppure – ipotesi sulla quale spesso si sorvola – la presenza del cosiddetto “giustificato motivo”, determinato sia da mancanze meno gravi e sia da ragioni organizzative. Ipotesi quest’ultima nella quale la magistratura fa rientrare tutte quelle situazioni che, tenuto anche conto delle limitate dimensioni di certe imprese, risultano tali da giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro. Costituiscono allora un mistificante travisamento dei fatti le tante lacrime strumentalmente versate sugli insopportabili lacci che legherebbero le aziende minori in caso di successo referendario. Ciò che verrebbe veramente colpito sarebbe solo la prepotenza e l’arbitrio.

Perché mai un datore di lavoro arrogante, prevaricatore e dispotico, titolare di una piccola impresa, non dovrebbe essere obbligato a reintegrare un dipendente ingiustamente licenziato? La risposta sta forse in logiche molto lontane dai principi della Carta costituzionale e lontane anche dai valori di qualsiasi cultura d’ispirazione cristiana.

Brindisi, 14 maggio 2003

Michele di Schiena

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