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(30 Settembre 2009)
Nel braccio di ferro sul nucleare iraniano fra l’iniziale mano tesa di Obama, l’apertura di Ahmadinejad condizionata però a non rinnegare i propri programmi, i pericoli della minaccia militare e un reale uso indiscriminato delle armi su ampia scala in Medio Oriente, quello che può preoccupare è l’indirizzo di chi persegue, e non da oggi, una netta politica guerrafondaia nella regione. Un soggetto che ha il volto giovanile dei propri soldati, quello cinico dei suoi leader, mire nient’affatto celate di espandersi occupando militarmente territori di altre nazioni (Libano, Siria) o sottraendo coi coloni ulteriore terra alla Cisgiordania. Si tratta d’Israele. Gli Stati Uniti da decenni glielo permettono proteggendolo politicamente e armandolo al punto di trasformarlo in una temutissima potenza militare dotata di arsenale atomico. Le strutture come l’Aipc, cuore pulsante della lobby ebraica, tengono da decenni sotto scacco presidente e parlamento statunitensi e tutto questo ha orientato verso un’instabilità aggressiva l’irrisolta causa palestinese e la contrapposizione con tutto il mondo arabo, anche quello più filo occidentale. Inoltre la cosiddetta guerra al terrorismo mondiale lanciata dall’amministrazione Bush, da cinque anni colpisce in un’area ad altissima instabilità prevalentemente i civili di Iraq e Afghanistan incrementando la resistenza di queste popolazioni cui l’Occidente vuole imporre, secondo il rituale mai morto dell’imperialismo, il proprio controllo militare e una leadership a lei gradita. Tutto ciò non fa che aumentare la linea del tanto peggio radicata nella regione.
Anche la gestione Obama, che apriva mesi or sono spiragli di novità e ripensamenti sul recente passato, si ritrova spesso a promettere passi cui non seguono fatti concreti come l’armai risibile stop agli insediamenti di coloni da parte d’Israele che invece li incrementa. Il dito puntato sull’Iran e sulla sua possibile proliferazione nucleare a scopi militari rappresenta l’ultimo atto che ha visto per tutto il XX secolo gli Stati Uniti incarnare il ruolo del gendarme del mondo. Contrapposto com’era al blocco sovietico e poi cinese per poi subirne comunque l’escalation atomica, per fortuna sempre e solo usata come deterrente. Ancora negli anni Settanta, quando i Paesi Nato lanciavano l’allarme contro le bombe del comunismo mondiale essi stessi proseguivano esperimenti atomici nelle basi del Pacifico. La classica ipocrisia di chi grida al pericolo distruzione distruggendo. Non è un segreto che tutti gli alleati negli angoli strategici del mondo abbiano visto ciascun presidente degli Stati Uniti armare i suoi fedeli servitori anche quando si chiamavano Saddam Hussein. L’Iran negli anni Cinquanta, reso suddito col colpo di stato ordito dalla Cia per riportare sul trono un epigono della dinastia Palhavi, tristemente nota per essere sanguinaria attraverso la polizia politica Savak e affamatrice del popolo, è da trent’anni una nazione che s’è scrollata di dosso il giogo economico e militare dell’imperialismo Usa. Come molta parte dell’Oriente l’ha fatto percorrendo la strada della ribellione attraverso quegli strumenti politici che il credo religioso islamico s’è dato.
L’ha fatto attraverso una durissima e contraddittoria lotta che ha visto posizioni laiche e marxiste venire sconfitte e perseguitate ma essere anche riprese da certo fondamentalismo. La politica sociale di Khomeini, ad esempio, si rifaceva all’ampia fascia di teorie di Shariati la cui morte nel 1977 non gli consentì di assistere al processo di rivoluzione islamica. La società iraniana, come già le fasi dei governi riformisti di Khatami e la recente ondata verde dei giovani riformisti anti-Ahmadinejad hanno mostrato, vive da tempo tensioni e contraddizioni ma fra spinte innovatrici e tradizionaliste rivela l’intento di preservare l’orgoglio nazionale evitando di tornare a prostrarsi a un volere occidentale che parla il solo linguaggio dello sfruttamento capitalistico. Così nell’ipocrita polemica sul nucleare, che prevede ovviamente un uso civile e potenzialmente militare proprio come fanno da decenni americani e loro alleati, è facile constatare che fra l’orgoglio combattente di Ahmadinejad e Hassan Qashqavi e le pur moderate idee dell’oppositore elettorale Moussavi ci sia una comunione d’intenti per difendere il futuro economico-politico iraniano che non vuol tornare a servire Washington come ai tempi dello sciah. Nell’Iran d’un domani, magari prossimo, al quale pensano gli stessi ayatollah con l’ingresso d’un più malleabile Qalibaf (anch’egli sconfitto ai seggi) al posto del presidente pasdaran, chiunque vestirà quella carica punterà a difendere gli interessi nazionali e la volontà di supremazia nella regione. E s’opporrà al cappio delle sanzioni, palese ricatto d’un ordine mondiale a senso unico incentrato su una falsa democrazia.
E’ il nuovo volto dell’assetto internazionale con cui i vecchi dominatori statunitensi ed europei devono fare i conti, in tempi che s’accorciano sempre più, nonostante i singulti delle guerre di conquista che come in Iraq e Afghanistan se non saranno le ultime potrebbero diventarlo. Giovedì a Ginevra il gruppo dei 5 più 1 (Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Cina) che vaglierà la situazione del secondo sito di arricchimento d’uranio iraniano “scoperto” nei pressi della città santa di Qom, costituisce un fronte tutt’altro che unito. Fra gli europei la Germania si sta smarcando da acquiescenza e obbedienza totali ai voleri d’oltreoceano mostrate finora. La Russia è scettica sulla proposta delle sanzioni e la Cina, che ha molti affari in ballo con l’Iran, non è da meno. Perciò Obama rischia di mettere in atto minacce assolutamente impotenti e per non perdere la faccia necessita di soluzioni diverse che non siano le follie degli scenari di guerra percorsi dal suo predecessore. Dovrebbe anche cominciare a meditare su un panorama che sta cambiando e a seguito dello spostamento nel lontano Oriente del fulcro produttivo e del potere economico in tempi non lunghissimi porterà in quei luoghi anche il centro degli assetti strategico-militari del mondo che verrà. Con buona pace del vecchio e obsoleto Occidente.
29 settembre 2009
Enrico Campofreda
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