">

IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
La pagina originale è all'indirizzo: http://www.pane-rose.it/index.php?c3:o1587

 

Archivio notizie:: Altre notizie

Ritorno al futuro per gli anticapitalisti

Appunti per un’analisi di fase del “movimento” e qualche domanda

(20 Maggio 2003)

1. Il girotonto della società civile.

Inutile divagare: ora come ora, il “movimento di Seattle” è stato di fatto annesso dal girotondismo.

La Cgil, con la massa del suo apparato organizzativo, è diventata il centro di gravità attorno a cui orbitano le soggettività più o meno organizzate, che dal ’99 in poi hanno animato le piazze italiane.

L’originario tentativo dei disobbedienti di “dividersi la torta” con le componenti più moderate (alla Cgil lo sciopero generale, a loro quello “generalizzato”) si è rivelato un patetico quanto fallimentare escamotage. E’ fallita miseramente, infatti, la loro pretesa di rappresentare il cosiddetto “cognitariato postfordistico” precarizzato, lasciando ad altri la rappresentanza del “lavoro classico”, nell’intento di giocare sul tavolo della grande politica, facendosi forti dei soggetti sociali rispetto ai quali volevano costituirsi come il “moderno principe”.

Ancora una volta il problema centrale si rivela quello di essere capaci di incidere in profondità sulla contraddizione capitale/lavoro. In mancanza di questa capacità, ogni pretesa di radicalità diviene mera testimonianza o, peggio ancora, insulso velleitarismo. Così come velleitario è appunto stato il tentativo dei disobbedienti, tutto formalistico (come loro solito!), di smarcarsi rispetto all’oggettiva “istituzionalità” dell’ultimo corteo per la pace.

L’unico risultato da essi ottenuto è stato quello di apparire, alla fin fine, come corpo estraneo rispetto alla massa di quel movimento per la pace che, tramite slittamenti progressivi, era pervenuto di fatto a definire il nuovo orizzonte semantico del fiume carsico nato con l’evento di Seattle, del 1999, e dispiegatamente sviluppatosi in Italia, dopo le giornate di Napoli e di Genova del 2001.

Né le cose sembrano essere molto migliori a livello internazionale. L’epocale insorgenza dei 110 milioni di manifestanti scesi in piazza in tutto il mondo il 15 febbraio è stata misconosciuta, nella sua reale valenza, e depotenziata al rango di una manifestazione di un’inedita quanto improbabile “società civile globale”. Laddove il concetto stesso di “società civile” è infatti intrinsecamente mistificatorio, giacché esso rappresenta il sociale in modo affatto indistinto, come astratto agglomerato di atomi, totalmente irrelati, che si contrappongono fittiziamente alle istituzioni politiche. Tale “contrapposizione” reca in sé la valenza effettuale, semmai, di una giustapposizione, che non esclude, ma anzi richiede necessariamente una ricomposizione, dal momento che la società civile, proprio in quanto sinonimo di una massa indistinta di atomi, non ha una sua struttura interna e necessita perciò di una forma esterna che non può che provenirle, appunto, dalla mediazione politica. In tal modo - ed è questo il dato rilevante e pernicioso di tutta la faccenda - si occulta il fatto che la cosiddetta società civile è frantumata al suo interno sulla base di specifiche materiali discriminanti di classe; e che, in forza di tali discriminanti, all’interno del “generico ammasso” della società civile, si intrattengono relazioni assai differenziate con la sfera della politica. Tant’è che, in questo ben determinato contesto storico, di fatto è la sola classe borghese che trova il suo proprio completamento/autoriconoscimento nella politica, costitutivamente intesa come sfera istituzionale, separata e falsamente “universale”, preposta al compito di assicurare le normali condizioni di riproduzione della valorizzazione capitalistica, con ogni mezzo necessario.

A partire da siffatti presupposti, è facile capire perché questa presunta “società civile globale”, in ultima istanza, non possa che limitarsi a richiedere, tutt’al più, il ripristino di meccanismi di regolamentazione multilaterale delle relazioni internazionali: laddove il “multilateralismo” rappresenta solo un pallido succedaneo della democrazia. E tale richiesta, in buona sostanza, non può a sua volta che rivelarsi o come la velleitaria nostalgia di un passato oramai irriproducibile o, peggio ancora, come il fiancheggiamento oggettivo degli interessi di alcune frazioni capitalistiche, aspiranti a riesumare organismi internazionali presuntivamente “legittimati” a mettere la mordacchia al potere politico-militare (oggi concentrato nelle mani degli Usa e univocamente orientato, quindi, alla tutela dei loro soli interessi), od a modificare gli attuali equilibri di esso a vantaggio di nuove, nascenti “polarità” imperialistiche.

2. Poli imperialistici e lotta di classe.

A tal proposito abbiamo ripetuto fino ad annoiare noi stessi che non esistono imperialismi “buoni” e imperialismi “cattivi”. Da questo punto di vista, l’ancor stentato polo europeo differisce da quello americano soltanto per il fatto di non avere alle sue spalle un omologo potere politico-militare. Esso ha dunque degli elementi di forte debolezza nei confronti del suo antagonista.

Ma detto ciò, si apre un problema: dal punto di vista della lotta di classe è indifferente il fatto che il mondo sia dominato da un unico polo imperialistico, o da più poli in competizione tra di loro? Noi non lo crediamo assolutamente. Pensiamo infatti che un mondo dominato da un’unica superpotenza, in grado di risolvere i propri problemi interni ed esterni, permettendosi di bombardare impunemente chiunque, ovunque e in ogni momento, non rappresenti certo il contesto più favorevole per far avanzare la lotta di classe. Senza contare cosa ciò significhi dal punto di vista della gestione dell’ordine interno, nell’ambito dei singoli stati: un potere ormai assai marginalmente interessato ad un’egemonia politica (in senso gramsciano), ma unicamente proteso ad affermarsi come puro dominio militare, porta con sé una dose massiccia di repressione interna, sia per ciò che riguarda il gendarme stesso, sia per i suoi eventuali vassalli.

A tale proposito, su un punto vale la pena soffermare l’attenzione. Sicuramente la protesta per la pace non sarebbe stata così ampia, senza le contraddizioni interimperialistiche che caratterizzano anche questa ennesima riemersione della tendenza bellicistica, costitutivamente intrinseca al capitale. La copertura mediatica della guerra è stata certamente mistificante. Ma lo sarebbe stata in modo assai maggiore se la società dello spettacolo non avesse dovuto tener conto dei conflitti che si sono aperti tra i suoi stessi padroni. Un’informazione simile a quella imposta in America quali effetti avrebbe avuto, se fosse stata estesa su tutto il globo?!?

Detto questo, ci troviamo però di fronte ad una serie di pesanti difficoltà. Per esempio, è evidente che, in barba a tutte le proprie più o meno “sinistre” tifoserie, la crescita di un polo imperialistico europeo inevitabilmente comporterà un vertiginoso aumento delle spese militari, ad ulteriore discapito della già calante spesa sociale. Ma questo non è tutto: ci troviamo infatti di fronte ad una serie di altri perversi paradossi. Come non avere una qualche considerazione positiva, rispetto alla crescita del polo cinese che si configura, tra l’altro, quale uno dei più grossi tentativi di far uscire una parte cospicua dell’umanità da uno stadio di “sottosviluppo” estremo, e nel contempo non inorridire di fronte ad un sistema che unisce in sé il peggio del “dispotismo asiatico” e del più sfrenato liberismo accumulativo (si vedano le terrificanti condizioni di lavoro nelle “zone economiche speciali”, in cui anche la morte degli operai, blindati dentro le fabbriche, a seguito di incendi occasionali, assurge a spot pubblicitario testimoniante la grande capacità di controllare la forza-lavoro da parte del Partito “““Comunista””” Cinese)?!?. Come non constatare l’oggettiva funzione di coagulante di un’identità antimperialista, svolta dell’islamismo, e non inorridire al contempo, di fronte all’oscurantismo di cui esso è portatore? E, su una scala assai diversa, come non esprimere solidarietà nei confronti della Cuba castrista, che da decenni assicura un livello di vita decente alla sua popolazione, nonostante l’accerchiamento del colosso americano, e nell’identico momento non criticare con assoluta fermezza l’idiotismo repressivo che ha contraddistinto il regime negli ultimi tempi (senza poi considerare, quella ragion di stato nel cui nome, in forza anche del ricatto della pressoché obbligata tutela sovietica, la revolucion cubana trovò ben presto la sua normativizzazione disciplinare)?

Il dilemma, posto nei suoi termini più generali, è dunque: come evitare di indulgere nel “tanto peggio tanto meglio”, quando si ragiona nei termini dell’obiettivo finale e, all’opposto, come evitare di “lavorare per il re di Prussia”, quando si cerca di perseguire l’interesse immediato del proletariato, dovendo in quest’ultimo caso addivenire a qualche forma di compromesso, con il conseguente rischio di rafforzare le capacità di regolazione interna del sistema?!

D’altronde, si tratta dello stesso problema che pone la battaglia per il salario (nella sua accezione più ampia). Tale battaglia è infatti ineludibile, visto che da essa dipende il livello di vita del proletariato, ma è anche una battaglia che, di per sé, rimane sostanzialmente interna al sistema.

Da questo punto di vista, però, è possibile trarre una un’indicazione fondamentale: la risoluzione della contraddizione non può essere trovata nei termini della contraddizione stessa. Infatti, lavoro salariato e capitale sono due “opposti” che si richiamano necessariamente, due poli dialettici: entrambi possono esistere soltanto in funzione dell’altro. Il rafforzamento del “polo proletario”, di per sé, è una premessa necessaria, ma non sufficiente per risolvere la contraddizione; affinché ciò possa accadere, il lavoro salariato deve saper giungere a negare se stesso come tale, con ciò, negando al contempo l’intero rapporto dialettico che lo lega al capitale. L’antagonismo esprimentesi sul terreno del salario non giunge a spezzare la logica sistemica di questo, sinché non riesce a riconoscersi come espressione di una radicale autonomia di classe, fuori e contro le compatibilità sistemiche del ciclo accumulativo della valorizzazione.

Allo stesso modo, le crisi interimperialistiche costituiscono certamente un elemento di destabilizzazione del fronte capitalistico e del ciclo complessivo del valore, ma non contengono in sé la soluzione dei conflitti necrogeni che ineluttabilmente innescano: esse aprono contraddizioni, ma non offrono di per se stesse il principio risolutivo di alcunché. La soluzione, ancora una volta può venire soltanto dal proletariato che, negandosi quale indispensabile fattore dei rapporti di produzione capitalistici, può giungere a trasformarsi in agente storico sociale, liberando se stesso nello scardinamento/abolizione di quei rapporti, all’interno delle molteplici frazioni imperialistiche in conflitto tra di loro (il famoso passaggio dalla classe in sé alla classe per sé, alla classe, cioè, come soggetto collettivo rivoluzionario).

Ciò detto, ovviamente, tutta la configurazione concreta dell’azione rivoluzionaria rimane ancora da definire. Ma prima di giungere a questo occorre compiere un ulteriore passaggio concettuale. Per uscire dalle secche in cui il “movimento” si è attualmente arenato non possiamo che porre al centro della riflessione ciò che in questi anni è stato costantemente rimosso: dove vogliamo arrivare? Dobbiamo insomma fare uno sforzo per rimettere al centro del dibattito i concetti di rivoluzione e comunismo.

E’ ovvio che non si tratta di preparare “ricette per l’osteria dell’avvenire”. Progettini belli e pronti non ci interessano. Ma qualcosa sul tema dell’“altro mondo possibile e necessario” occorrerà pur dirlo! Al contrario (come abbiamo più volte segnalato, da quando denunciammo il “Grande Inciucio” consumatosi dietro le quinte del pur oceanico raduno del Social Forum Europeo di Firenze), l’impressione generale è che, nonostante lo slogan che ha caratterizzato il “movimento” da Seattle in poi, l’immaginario collettivo antagonista sia di fatto incapace di innalzarsi al di sopra del contingente, quasi che non sia in grado di andare oltre il presente, se non nella forma di un qualche parziale aggiustamento di natura micro-assistenziale (vedi le Ong), o di un velleitario ritorno a forme di… regolazionismo neo/post/cripto-keynesiano.

3. Il “movimento” dal no-global al no-liberism.

Da questo punto di vista, sorvolando sull’equivoca parola d’ordine “no-global” (pregna di valenze ed allusioni almeno originariamente esposte, addirittura, al rischio di… regressività), la stessa critica al neo-liberismo era già di per sé fuorviante: essa nascondeva il sottinteso che l’altro mondo possibile fosse pur sempre esperibile all’interno di un orizzonte immutabilmente capitalistico, ma soltanto più regolamentato e temperato. Il neo-liberismo appariva ed appare, infatti, come una delle tante forme possibili di capitalismo - la più selvaggia e crudele -, cui si potrebbe “legittimamente” contrapporne un’altra più umanitaria.

Il passaggio dal “movimento no-global”, a quello “no-liberism”, sino poi a quello “no-war”, ha segnato sicuramente un trend estremamente positivo da un punto di vista quantitativo, ma al contempo ha rappresentato un andamento non lineare, nel progredire verso la messa a fuoco dei problemi reali all’ordine del giorno.

Il primo, benvenuto scarto verso l’anti-neoliberismo, manifestatosi con irrefutabile evidenza nelle giornate di Nizza e poi, soprattutto, di Napoli e di Genova (2001), recò al suo interno un forte, propositivo ritorno sulla scena della contraddizione capitale-lavoro (e prova ne fu il ruolo sempre più centrale che, per tutta una fase, l’universo del sindacalismo di base esercitò, qui da noi, all’interno delle dinamiche - purtroppo, non certo sempre trasparenti, né esenti da vetusti autoreferenzialismi elitari e politicistici -, che soprassedettero all’indizione degli appuntamenti metropolitani su cui, di volta in volta, il movimento seppe validamente scegliere se riconoscersi o meno). E proprio questo dato, a nostro avviso, seppe garantire la sostanziale, positiva “tenuta del movimento”, pur di fronte allo scatenarsi di una sempre più determinata campagna di criminale criminalizzazione repressiva, da parte di “Lor Signori”, giunta al suo apice, su scala planetaria, con la dichiarazione della “guerra preventiva, totale ed infinita”, da parte del boss dei boss di Washington, seguita al provvidenziale (per lui) attacco alle Twin Towers.

Quando poi, dopo la campagna contro l’ex compagnuccio di merende Bin Ladem, si cominciò a delineare la vera consistenza irrefutabile e tragica dei deliri di potenza del vaccaro texano, le condizioni, in Italia, erano andate lentamente modificandosi: sull’onda dei “tremilioni” che avevano costretto de facto Cofferati (uno dei leader più “destri” che la Cgil abbia mai avuto) a rivestire suo malgrado i panni del “capopopolo incazzoso”, sia pur fuori tempo massimo ed in chiave meramente antiberluskoniana, ed anche a seguito del milione dei “girotontisti” attivatisi all’ombra di una ridiscesa in campo del “partito degli scalfariani”, si era andato riattivando lentamente, dentro il “movimento”, un processo di oggettivo sdoganamento della “sinistra istituzionale”.

E’ inutile rinvangare qui gli errori che di volta in volta ha commesso, a fronte di ciò, la stessa “sinistra anticapitalistica del movimento” (i nostri comunicati sono sempre stati puntualmente eloquenti nel merito). Il fatto certo è che, questo sotterraneo processo di smottamento verso un livello sempre più esplicito di interlocuzione più o meno “ufficializzata”, con i “sinistri di governo”, giunse a palesarsi nel modo più evidente, con il già citato Grande Inciucio consumatosi a Firenze, dove - scrivemmo -

"Il governo ha fatto bene il suo sporco lavoro: ha imposto all'"opposizione" di uscire allo scoperto, corresponsabilizzandola direttamente nella gestione di quell'ordine pubblico su cui è riuscito ad appiattire l'"evento" di Firenze, anche grazie al pretesto offertogli dalle solite rodomontate dei soliti noti specialisti della disobbedienza ridotta a spettacolino. Dal suo canto, il centro sinistra ha potuto accollarsi questa responsabilità perché in grado di trovare aree d'interlocuzione dentro al "movimento". In ampi settori di questo alligna ancora la chimera di un'"Europa dei diritti", in grado di imbrigliare gli spiriti animali del mercato e controbilanciare l'espansione imperialistica statunitense. L'esperienza di "Porto Alegre 2" non è passata invano: l'araba fenice della "terza via" persevera nel suo sempre più penoso tentativo di risorgere!"
[dal Comunicato di “Vis-à-Vis” del 03-11-02, LA QUARTA GUERRA MONDIALE E' COMINCIATA].

D’altronde, trascorsi appena una dozzina di giorni, avemmo modo di denunciare che

"Dopo la riuscita manovra del "Grande Inciucio fiorentino", consumatasi nella notte fra il 30 e il 31 ottobre, sulla cui base la "sinistra di governo" fu corresponsabilizzata alla normativizzazione del Social Forum Europeo, adesso si rilancia la posta: quella "sinistra", ben lungi dal poter riposare sugli allori di una "vittoria" giocatasi nella logica "bipartizan" della ideologia dell'"unità nazionale" contro lo spettro di un sociale sempre più recalcitrante, rispetto alla colonizzazione della politica istituzionale, deve continuare a farsi carico del "comune" interesse dell'"azienda-paese".
Una vittoria di Pirro, quindi, che non deve consentire al nuovo asse "Prodi-Cofferati-Bertinotti" di monopolizzare il successo ottenuto nell'impedire il ventilato (ad arte!!!) "sacco di Firenze".
Il servizio d'ordine dell'apparato cigiellino è stato prontamente surclassato dalla sbirraglia in toga: quando di tratta di "ordine" gli unici servizi adatti alla bisogna rimangono sempre quelli "segreti", fedeli servitori, ben sperimentati nel corso di lunghi anni di interventi più o meno "deviati"!"

[dal Comunicato di “Vis-à-Vis” del 15-11-02, CONTRO IL TERRORISMO DI STATO SIAMO TUTTI SOVVERSIVI!!!].

4. Il movimento dal no war al peace & love.

Lo slittamento, infine, dello stesso movimento per la pace, dall’iniziale "no war" al più generico pacifismo, ha segnato l’ultimo passaggio. Il "no war" infatti (ma potremmo risalire al "not in my name" che, in opposizione alla guerra afgana, esprimeva un chiaro chiamarsi fuori), con la sua diretta opposizione al conflitto interstatuale, a quella guerra cioè che - con Von Clausewitz - è solo "la politica con altri mezzi", conserva un carattere potenzialmente allusivo ad una presa di distanza, o almeno ad una qualche implicita disillusione, nei confronti della politica tout court (espressa con qualsiasi mezzo), “rimandi” che sono, invece, totalmente assenti nell’inconcludente buonismo di quel "peace & love", trasudante dall’invocazione di una pace “senza se e senza ma”.

Uno “slittamento” che ha non solo reso possibile il definitivo sdoganamento della sinistra istituzionale, ma ha alimentato ulteriormente la già elevata confusione sulla complessa e “scivolosa” questione delle modalità d’azione dei movimenti e delle pratiche del conflitto. Ed è essenziale, a tale proposito, denunciare le mistificanti e distorcenti operazioni ideologiche (in senso marxiano) di chi vorrebbe imporre una scelta “integralisticamente non-violenta” quale unica forma legittima di conflitto e opposizione. Come se una tale imposizione - sia detto per inciso - non fosse a sua volta, in quanto tale, una vera e propria “violenza” perpetrata ai danni di chi in quella scelta non si riconosce.

L’ultimo parto letterario di Bertinotti, a ciò dedicato, nonché il revisionismo vergognosamente falsificante che supporta l’ossimoro insostenibile di “Carta”, secondo cui si pretende leggere la violenza armata della resistenza, come fondamento di una predicazione di “non violenza senza sé e senza ma” ("ora e sempre non violenza" !?!), che sarebbe sancita addirittura dalla Costituzione, proprio da quella resistenza nata, stanno a dimostrare questa ulteriore “svolta”.

Ma la demistificazione non basta!

Al di là delle operazioni ideologiche, infatti, la spinosa questione delle forme di lotta che si possono e devono assumere, a fronte di una violenza repressiva da parte dello stato sempre più spesso arbitrariamente “preventiva” (vedi Genova), rimane non solo aperta ma, purtroppo, anche scarsamente presente nelle riflessioni e nel dibattito interni al “movimento”. Una sorta di tabù, insomma, come testimoniano anche le enormi differenze nelle risposte date quest’inverno all’inchiesta di Cosenza (basata su reati di opinione e associativi) e quella di Genova (basata, invece, su episodi di resistenza alle violenze delle forze dell’ordine). Disparità giudiziarie ora peraltro “rivisitate” in una prospettiva di esplicito quanto repentino inasprimento repressivo, anche nei confronti degli inquisiti coinvolti nella prima “ondata cosentina”; ciò, evidentemente, in funzione di quel generale processo di radicalizzazione dello scontro sul “fronte interno”, che i singoli “stati-gendarme” stanno via via portando avanti in stretta sinergia con la “guerra infinita” scatenata su scala globale dall’imperialismo yankee.

Già in altre occasione abbiamo espresso la necessità di rivendicare un diritto di resistenza nei confronti del potere, quando esso sospende, come è accaduto a Genova, lo “stato di diritto e le garanzie democratiche”, per reprimere quell’intollerabile alterità che, con la sua critica pratico-teorica di massa, mette concretamente in forse il suo stesso dominio. Un diritto di resistenza, è bene essere chiari, che niente ha a che vedere con

"il diritto di disobbedire alle leggi che si ritengono ingiuste. In quest’ultimo caso, infatti, la contestazione puntuale di una singola norma non inficia affatto il sistema di norme in quanto tale, anzi: a tale sistema necessariamente rimanda, perché presuppone la necessità di sostituire la legge ritenuta ingiusta con un'altra considerata più equa, con ciò spostando soltanto i confini della legalità esistente, senza però contestarne l'intrinseca natura comunque sostanzialmente quanto arbitrariamente impositiva. Rivendicare il diritto di resistenza significa invece affermare la radicale autonomia del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario oggi nascente; un’autonomia che, nelle sue più coerenti ed estreme conseguenze, nega l’obbligo di obbedienza nei confronti dello stato e di tutte le sue leggi"
[dal Comunicato di “Vis-à-Vis” del 01-01-03, Le vie del “movimento” non sono infinite].

D’altra parte, come spesso i filosofi della politica hanno riconosciuto, lo stato e l’ordinamento giuridico in cui esso articola la propria costituzione formale, altro non sono, dietro la loro presunzione di neutralità sociale e astoricità, che una formalizzazione di rapporti di forza o, più specificatamente, la sedimentazione normativizzata di specifici rapporti di classe. Tale “concretizzazione normativa” può essere più o meno flessibile, a seconda delle circostanze, ma mai a tal punto malleabile da poter tollerare di veder messi in discussione i rapporti sociali di produzione su cui essa è fondata, sia pur in modo occulto.

Rivendicare il diritto di resistenza - e non ci stancheremo mai di ripeterlo - nulla ha a che fare con i deliri “lottarmatistici”: le bombe e le pistole sono le solite armi di una rinnovata strategia della tensione che, come sempre, si avvale anche dei soliti “imbecilli manipolati” o, più precisamente, degli usuali “manipolati perché imbecilli”.

La rivendicazione del diritto di resistenza presuppone, al fondo, la demistificazione della supposta neutralità sociale dello stato e dell’ordinamento vigente, nonché il fatto che, con l’avanzare delle lotte ed il balenare di un “nuovo mondo”, il “vecchio mondo” metterà in campo tutte le armi di cui potrà disporre per conservare se stesso. O forse pensiamo che padroni e padroncini di questo mondo siano così gentili da consentirci di costruirne indisturbati un altro, dove per loro non ci potrà comunque essere alcun posto ?

E purtroppo, proprio questa illusione da “anime belle” sembrerebbe essersi ormai diffusa in larghe fasce del “movimento”. Come denuncia giustamente il Cobas di Taranto, in un recentissimo suo comunicato “sulle inchieste di Cosenza (e Taranto, passando per Genova)” [11-5-03]:

"ci sembra un segnale da non sottovalutare la mancata riuscita del presidio convocato in concomitanza con l’udienza in Cassazione [a Roma il 7 maggio 2003]. […] Ci lascia abbastanza perplessi il fatto che ancora oggi la “tattica dello struzzo” sia così fortemente adottata, anche se mai rivendicata apertamente. […] Sta diventando insopportabile lo sfacciato doppiopesismo di chi pur continuando a proclamarsi anticapitalista ed antisistema, pur continuando a parlare di “processo di fase” che “porterà ad un allargamento del conflitto”, continua invece ad eludere le occasioni di confronto sui contenuti, in nome di improbabili “inciuci” col centrosinistra. […] Non saremo certo noi a lanciare anatemi e scomuniche verso chi compie scelte filoistituzionali, a patto che queste scelte siano consapevoli e ce ne si assuma tutte le responsabilità e conseguenze. E che soprattutto non diventino terreno di scambio".

Un terreno quanto mai inquinato da una logica strumentalmente perversa, nella sua pretesa di costringere il “movimento” dentro le paludi di una presunta “Grande Politica”, in cui esso non può che finire schiacciato sotto manovre e giochetti politicistici da esso difficilmente incontrollabili e - come la situazione attuale tende purtroppo a dimostrare - inevitabilmente causa dello svilimento, della sua stessa valenza progettuale, a mera variabile dipendente di processi concertativi tutti interni alle dinamiche degli apparti istituzionali (partitici e/o sindacali che siano) e, quindi, affatto subalterni alle vigenti compatibilità sistemiche.

D’altronde, se sul fronte giudiziario si è potuti giungere alla citata suicida passività, tale esito non può non ricollegarsi proprio alla deriva complessiva che il “movimento” ha oggettivamente percorso, con spesso inconsapevole inerzialità.

Nella battaglia per la pace che gradualmente è andata assorbendo la totalità delle sue energie mobilitative, il vero nemico - quel capitale che nella battaglia antiliberista era comunque presente - è via via scomparso: la guerra ha assunto sempre più le sembianze di un mero accidente della storia, legato, nella “migliore” delle ipotesi (veicolata da settori non immuni rispetto alle litanie democraticistiche dei “sinistri di governo”), alla stupida arroganza dell’attuale amministrazione statunitense, o, nella peggiore (diffusa nell’“area cattolica”, mai così vicina al proprio leader maximo d’oltre Tevere), ad una qualche oscura e maligna tara della stessa natura umana.

5. Anticapitalismo: anno zero?

La pur giusta aspirazione ad allargare il fronte della protesta ha finito, insomma, per annacquare i contenuti anticapitalistici della protesta per la pace. Da parte di tutte le componenti più coerentemente antagonistiche del “movimento” si sarebbe dovuto continuamente ribadire che il neoliberismo non è altro che l’unico capitalismo oggi possibile, dopo trent’anni di stagnazione della valorizzazione e la conseguente ricerca, allo stesso tempo spregiudicata e disperata, di nuove fonti di profitto; così come si sarebbe dovuto denunciare instancabilmente il fatto che la guerra non è altro che la prosecuzione del neoliberismo con altri mezzi, dopo che il neoliberismo stesso si è mostrato incapace di risolvere la crisi strutturale che attanaglia il capitale e che sta conseguentemente riacutizzando i conflitti interimperialistici.

Tutto questo non è stato detto, o comunque non a sufficienza. In molti hanno preferito lasciare la parola ai neofiti di un pacifismo asfittico e/o moralisticheggiante, già patrocinatori della “guerra umanitaria” dei Balcani (come i “sinistri di governo” o lo stesso papa), e nascondere la propria pochezza dietro sermoni tanto più aulici quanto più criticamente inconsistenti. Perché? Per opportunismo politico? Certamente! Per confusione teorica, data l’accozzaglia di pseudoteorizzazioni che si sono affastellate in questi ultimi vent’anni? Di sicuro! Ma forse c’è anche qualcos’altro, di più profondo. Se è vero quanto abbiamo detto a proposito del rapporto tra capitalismo, neoliberismo e guerra, allora la giusta fermezza con cui il “movimento” ha saputo schierarsi al fianco del popolo iracheno, condannando l’aggressione imperialistica del Dr.Strangelove Bush Jr. e stigmatizzando, al contempo, il dispotismo del satrapo Saddam (degno esempio degli innumerevoli governi fantoccio “insediati” dagli Usa, nel corso della loro storia), lascia comunque aperto un inquietante interrogativo: “noi” con chi stiamo? per che cosa ci battiamo?

Purtroppo, da questo punto di vista, è come se ci trovassimo all’“anno zero”. E’ inutile nasconderci, infatti, che la caduta del blocco sovietico è giunta a rappresentare, nell’immaginario collettivo, la “quasi-dimostrazione” dell’impossibilità di un’alterità complessiva di sistema. E noi ci troviamo quindi nella scomoda situazione di dover rivendicare la spinta ideale che ha mosso grandi masse di rivoluzionari anche all’estremo sacrificio, per tentare di costruire un mondo diverso, e al contempo di dover criticare, senza ambiguità alcuna, i mezzi e gli esiti che quel tragico ma pur grandioso esperimento ha portato con sé.

Dobbiamo insomma marcare una netta differenza rispetto a quell’esperienza storica, senza mai dimenticare, tuttavia, le ben difficili circostanze concrete in cui essa ha avuto luogo. Dobbiamo essere in grado di distinguere le responsabilità soggettive, imputabili alla deriva in salsa politico-istituzional-statolatrica innescata dalla Seconda Internazionale, sia sul versante socialdemocratico riformista, che su quello giacobino rivoluzionario del leninismo e della sua estrema degenerazione staliniana (e su questo occorre sanzionare delle nette distinzioni, anche per non cadere nella trappola dell’automatica “filiazione Marx-Lenin-Stalin”), dalle condizioni oggettive che in larga parte hanno drammaticamente condizionato gli esiti di quelle vicende storiche, infrangendo l’illusione nefasta di una politica erettasi ad autonoma facitrice della storia, al di là e contro le surdeterminanti specificazioni concrete di questa.

D’altronde, la rivoluzione, comunque si potrà presentare, non sarà certo un pranzo di gala, e affinché la stessa idea di essa possa apparire al contempo possibile e desiderabile, occorre mostrarsi in grado di ragionare nei termini di un realismo politico che non diventi machiavellismo omologo alla dominante e cinica “ragion politica”, ma sappia costantemente orientarsi verso un’utopia concreta che preveda in sé la rigorosa coerenza tra mezzi e fini.

Non possiamo più dunque tacere sulle questioni di prospettiva generale. Anche perché la colpa più grossa dei vinti è appunto quella di essere stati sconfitti e agli sconfitti non si perdona niente. I processi, così come la “storia” stessa, li fanno sempre i vincitori e gli sconfitti sono colpevoli fino a prova contraria: l’onere della prova sta a loro carico!


Contro di noi, dunque, gioca l’enorme macigno della sconfitta, intesa sia come sconfitta del soggetto collettivo rivoluzionario degli anni ’60-’70, sia, per tragico paradosso, come crollo dello stesso “Socialismo ir/Reale”. A nostro favore gioca, invece, l’oramai conclamata insostenibilità economica, sociale, ambientale e più generalmente umana, dell’attuale sviluppo capitalistico che, nella sua ansia di nuove fonti di profitto, non esita a scatenare una guerra infinita.

E soprattutto, come abbiamo già più volte affermato, giocano a nostro favore quei 110 milioni di uomini e donne scesi in piazza il 15 febbraio:

"Questa comunità umana già ben “concreta”, sia pur appena “in abbozzo”, ha fatto propria e potenziato esponenzialmente la carica di protesta e denuncia di quel “vento di Seattle” da cui in certo senso è stata evocata e in forza del quale si è materializzata. Il Re che già era stato costretto a mostrarsi nella sua orrenda “nudità”, è stato ulteriormente incalzato: la sua logica di dominio e di guerra è stata definitivamente disvelata e rifiutata “senza se e senza ma”! […] Di fronte ad un mercato che non “accoglie” più ma emargina ed espelle, di fronte ad uno stato che non “media” più ma discrimina e reprime, diventa quasi obbligata la scelta di tornare a ritrovarsi, spezzando l’atomizzazione, a mobilitarsi superando la passivizzazione, a criticare rifiutando la colonizzazione… E tanto più tale reazione tende ad incrementarsi, davanti allo sfociare della morte della politica in una ormai dispiegata ed evidente politica della morte, totalmente coniugata nel lessico mortifero di una guerra continua e pervasiva"
[Comunicato di “Vis-à-Vis” del 16-02-03, “15 Febbraio 2003”].

In quell’autentica epocale marea umana, la battaglia contro il neoliberismo e quella contro la guerra alludevano alla lotta di classe contro il capitale tout-court. Ma appunto, alludevano ed alludono soltanto, per ora. Spetta ai monatti sovversivi dell’utopia concreta comunista cercare di fare chiarezza, non certo “dall’esterno”, ma facendosi parte in causa all’interno delle dinamiche di formazione di una nuova soggettività collettiva rivoluzionaria, senza velleitarie e perniciose pretese avanguardistiche e senza rinunciatarie tattiche codistiche!

6. Derive.

A fronte di tale “posta sul piatto” della storia, la mancanza di una prospettiva generale condanna all’afasia e all’immobilismo. In mancanza di essa, infatti, è impossibile articolare i necessari passaggi tattici e i risultati non possono che essere i seguenti: o il velleitarismo massimalistico, che scade facilmente in un “tanto peggio tanto meglio” sostanzialmente incapace di articolazioni contestualizzate della propria azione, in quanto ogni concreta lotta sul terreno dei bisogni, “qui ed ora”, negherebbe a priori l’assoluta quanto indeterminata alterità professata; o, all’opposto, l’appiattimento, più o meno mascherato, sugli snodi tattici del presente, nell’oggettivo implicito assunto di una ineludibile eternizzazione di questo.

Un esempio estremo del primo caso è costituito dalla pratica politica di una certa tradizione anarchica. Abbiamo qui a che fare con l’utopia astratta di una società di individui liberi da qualsivoglia legame sociale. L’individuo stirneriano, l’“unicum”, non vi è che in veste di mera estremizzazione tutta politica del “cogito” cartesiano, a sua volta risultante da una concettualizzazione filosofica sorta per astrazione da quella sfera della circolazione delle merci dove trionfano, come avverte Marx, "libertà, uguaglianza e Bentham". Alla radice di un siffatto “libertarismo” si cela dunque, in buona sostanza, l’atomismo borghese (paradossalmente, proprio come per quella “società civile” tanto cara ai disobbedienti!?!). E, comunque, nessuno scandalo, in realtà: la cultura della libertà individuale è senza dubbio il lascito “ideale” più importante della civiltà borghese. Tutto sta a riconoscerlo e di conseguenza a capire che occorre passare da una posizione in cui la libertà di ciascun individuo è il limite della libertà di tutti gli altri, ad una in cui la libertà di ciascuno è condizione per la libertà di tutti. In altri termini, occorre affrontare e consumare il passaggio dall’individuo borghese astratto, atomisticamente separato da tutti gli altri, all’individuo pienamente sviluppato che non può che essere individuo sociale. Ciò significa che gli esseri umani devono essere in grado di riacquistare il controllo e la gestione collettiva dei rapporti sociali di produzione e di riproduzione. Occorre cioè un surplus di socialità. Ma proprio questo viene negato dal filone di pensiero anarchico qui considerato, che dunque è condannato all’impotenza o, addirittura, a vagheggiare improbabili quanto regressivi ritorni al passato e ad una “naturalità” che, anche se fosse mai esistita, ora è certo definitivamente scomparsa.

Per quanto riguarda la seconda posizione, quella di chi si appiattisce sul presente, l’esempio migliore è probabilmente quello del cosiddetto “volontariato”, o almeno di una larga maggioranza dei suoi “militanti”: anche laddove praticato in perfetta buona fede, esso può soltanto mettere momentanee toppe ad una nave oramai piena di falle e in procinto di affondare inesorabilmente. Ben altra capacità critica e progettuale impone l’urgenza di una radicale alterità sistemica, a fronte della necrogena corsa verso il baratro di una totale implosione ecosistemica, in cui Monsieur le Capital sta trascinando l’intera umanità!

Un discorso a parte merita poi l’attuale deriva del “negrismo”. Esso è oramai appiattito sull’“opzione europea”, ma camuffa la sua pochezza da riformismo ultraminimalistico (l’ormai mitico “impossessamento dei nessi amministrativi”), facendo vestire al costituendo polo imperialistico europeo tanto i panni del “vero impero”, contrapposto al “golpismo imperialistico” dell’unilateralismo americano, quanto gli abiti del “controimpero”. Il suo assoluto immanentismo di stampo gentiliano tira qui un brutto scherzo a Totonno Negri: costretto ad individuare un comunismo sempre per lui “in atto”, egli finisce miseramente per scambiare la cacca con la cioccolata, salvo poi rimenarcela in extremis con il suo solito, mai davvero ripudiato, deus ex machina del “Partito-Coscienza” di leniniana memoria. Quindi, anche in questa forma, estrema fino ai limiti di un risibile paradosso, si conferma quanto abbiamo cercato fin qui di sostenere: l’incapacità di concepire una prospettiva complessiva che sia radicalmente e qualitativamente altra, rispetto al mondo in cui viviamo (sebbene la sua possibilità reale sia in esso contenuta), ci condanna all’eternizzazione del presente.

7. 13 domande in cerca di risposte

D’altronde, sappiamo bene che rimettere a tema una riflessione sulle coordinate teoriche e pratiche del comunismo è un compito immane che può essere assunto, con una qualche prospettiva di successo, soltanto da un’intelligenza collettiva che, ricoagulandosi all’interno del conflitto capitale-lavoro infine nuovamente dispiegato, giunga ad essere in grado di supportare criticamente la pratica di massa di un nuovo soggetto collettivo rivoluzionario.

Ma siamo altrettanto consapevoli che non possiamo più continuare e “cavarcela” con un pilatesco “ai posteri l’ardua sentenza”. Per i comunisti si impone, qui ed ora, un ritorno al futuro.

Per questo, riteniamo ormai assolutamente necessario ed indilazionabile iniziare a misurarci su questo terreno, affinché una componente coerentemente anticapitalistica possa acquisire visibilità e capacità propositiva all’interno di quel “movimento” che qui ed ora, pur con tutti i suoi limiti (ma anche con le sue “grandezze”: i 110 milioni!), costituisce oggettivamente l’unico vero “laboratorio conflittuale in atto”, il vero protagonista dell’inversione di tendenza che ha spezzato l’afasia sociale di vent’anni di passività ed atomismo. C’è bisogno, dunque, di un processo di pubblica discussione che sappia trovare le sue sedi e i suoi momenti aggregativi, al di fuori di ogni “organizzativismo”, tanto rozzamente astratto quanto ingenuamente “praticone”. Abbiamo la piena consapevolezza, infatti, che, nell’ambito del “grande partito in senso storico della classe”, le differenze sono profonde e radicate. Ma nutriamo anche la certezza che, nell’attuale fase, diventano possibili feconde interlocuzioni per chi sappia far tesoro degli insegnamenti della storia recente. La configurazione di un visibile polo anticapitalistico, articolato e plurale al suo interno, può costituire un primo passo verso la ricostruzione di un immaginario collettivo realmente antagonista. Le soggettività sparse, che hanno animato le piazze italiane, in questi anni, potrebbero finalmente riconoscersi in un concreto percorso di lotta e di ricerca, senza trovarsi costrette a scegliere tra speculari moderatismi (“volontariato” e “disobbedientismo”) o astratti massimalismi (“cripto/neo-emmellismi” e “libertarismi individualistici”). E questo, forse, potrebbe segnare davvero un positivo scarto in avanti, verso l’effettivo inizio del processo di ricomposizione del nuovo soggetto collettivo rivoluzionario che si cela, in nuce, dentro il “movimento dei 110 milioni”: il proletariato universale.

Per parte nostra, quindi, questa volta, invece di terminare tentando come al solito di condensare le nostre argomentazioni con qualche frase “ad alta capacità di sintesi”, ci vorremmo soltanto limitare a porre al centro dell’attenzione alcune “questioncelle” che, a nostro avviso (ma non solo) da troppo tempo vengono sistematicamente ignorate, consapevoli del fatto che porre le domande giuste significa già preparare il terreno per un’adeguata futura risposta.

1. Cos’è la rivoluzione? La presa del palazzo d’inverno? La conquista del potere statale attraverso elezioni? La risultante di riforme più o meno piccole, che si cumulano in modo irreversibile? O, piuttosto, possiamo avanzare l’ipotesi che si tratti di un passaggio processuale, in cui però si verificano momenti puntuali di rottura, anche violenta, e di forte accelerazione, forse individuabili solo a posteriori nella loro reale valenza epocale?

2. Quello che forse si può dire è che oggi si è venuto a creare, ormai, un divario esorbitante, tra la capacità di opposizione delle masse e la potenza repressiva da parte degli apparati statuali dominanti, sia verso l’interno, che verso l’esterno. Se questo è vero, non si può più certamente ipotizzare alcun reale processo rivoluzionario, senza una qualche forma di implosione interna del sistema di comando. Sul genere - a prescindere ovviamente dagli esiti effettivi delle stesse - di quelle che si sono verificate in Urss, dopo la caduta del muro del 1989, o anche in Argentina, nell’autunno del 2002, o durante il maggio del ‘68 francese. E, in realtà, le premesse di un processo “degenerativo” di tal fatta già si danno nella forma di quella che da tempo abbiamo indicato come la morte della politica. Se tale ipotesi è fondata, allora occorre allargare il divario tra “sociale” e “politico”, non già cercare di recuperare le spinte che vengono dal primo, nelle forme del secondo. Ma, presupposta la giustezza di questo principio, come evitare che l’allargamento di tale divario si trasformi in restringimenti degli spazi democratici, fino ai limiti di una gestione totalitaristica del potere ?

3. E, in generale, qual è il rapporto con il potere? È sufficiente dire, come fanno gli zapatisti, che non siamo interessati alla conquista di esso? Dietro questa affermazione, peraltro sicuramente condivisibile nella sua aspirazione di fondo, non si nasconde forse la sottovalutazione del potere repressivo degli apparati statuali e degli interessi materiali da essi difesi, che non scompariranno certo da un giorno all’altro?

4. Riteniamo ancora fondata l’idea marxiana della necessità di una fase di transizione in cui si dovrà utilizzare, in qualche modo, il potere statuale in forma anche repressiva, nei confronti della borghesia? Se la risposta è positiva, come conciliare il necessario utilizzo della forza da parte proletaria e l’altrettanto necessario ed indilazionabile avvio del processo di superamento/abbattimento dello stato? In altri termini, più generali: si può accettare un qualche livello “di compromesso” tra l’organizzazione sociale ereditata dal passato e quella “altra e necessaria” che si vuole costruire?

5. Certamente molto dipenderà dalle circostanze concrete in cui ci si trova ad agire, ma altrettanto importante è la meta cui si vuole arrivare. Da questo punto di vista, una questione appare preliminare. La forma-valore è un rapporto sociale determinato dall’impossibilità di una gestione collettiva e cosciente della società; se ciò è vero, la complessità raggiunta dal mondo contemporaneo implica la necessaria permanenza, anche nel lungo periodo, della merce e del denaro, come indispensabili e prioritari “veicoli” di relazione sociale, oppure riteniamo l’umanità capace di una gestione collettiva e consapevole di sé, in termini di comunità universale, tale da eliminare la necessità di questa forma alienata/nte di “rapporti tra gli individui”?

6. Riteniamo ancora che la gestione collettiva della società implichi forme ampie di pianificazione? Se la risposta è positiva, tale pianificazione non dovrebbe porsi su livello macroregionale, data anche la destrutturazione delle economie nazionali e delle economie di sussistenza agricole? Alcune cose a tal proposito possono essere dette. Dal punto di vista tecnico-economico, le vecchie obiezioni contro la pianificazione sono oggi fortemente indebolite. L’ultima e più fondata critica di parte borghese era costituita dall’impossibilità di avere un meccanismo informativo che sostituisse quello dei prezzi. Con l’informatica questo problema è sostanzialmente superato. D’altra parte, non è oggi possibile ipotizzare che la flessibilità tecnica degli impianti produttivi consenta una programmazione che si autocorregga, permettendo anche meccanismi di capillare partecipazione collettiva, in grado di perfezionare “ex post” la pianificazione stabilita “ex ante”?

7. Il problema vero rimane, comunque, quello del rapporto tra pianificazione e democrazia. Come conciliare processi di decisionalità collettiva, nella forma della democrazia diretta, con la gestione efficiente della cosa pubblica, per di più su scala transnazionale? Come armonizzare l’autogestione, a livello delle singole unità produttive, con una pianificazione che deve coordinare e dunque avocare a sé una parte della decisioni relative alle stesse unità produttive?

8. La questione dell’autogestione rimanda direttamente ad un ulteriore problema: come eliminare l’estraneità del produttore rispetto al suo prodotto e al processo produttivo? L’alienazione derivante dal partecipare ad un processo di cui non si conoscono i meccanismi complessivi e di cui non si condividono le finalità è intimamente correlata ad una divisone del lavoro che non può essere abolita “per decreto”, senza fare un enorme passo indietro nell’efficienza produttiva complessiva. La divisione del lavoro che verrà ereditata sarà fortemente determinata da fattori non meramente tecnici, ma più genericamente sociali, con le conseguenti gerarchie in termini di potere e di soddisfazione relativa all’atto lavorativo stesso. Come mantenere nell’immediato i vantaggi di tale divisione del lavoro, ereditata dal passato, e avviare nel contempo un processo di diffusione delle conoscenze e di fluidificazione delle mansioni lavorative, in grado di incidere in profondità sui meccanismi dell’alienazione direttamente esperibile nell’atto lavorativo?

9. I problemi cui si è accennato presuppongono un’altra questione fondamentale: il comunismo deve essere mera redistribuzione di una ricchezza prodotta fino al livello consentito dall’attuale sviluppo delle forze produttive (il che implica misure, anche sensibili, di limitazione del consumo per le parti più ricche del pianeta, al fine di ottenere una più equa allocazione delle risorse), o deve essere piuttosto produzione e distribuzione in forme nuove di ricchezza, che prevedano l’ulteriore sviluppo delle forze produttive? Anche per chi, come noi, propende per la seconda ipotesi, il concetto stesso di “ricchezza” deve essere messo in questione, dovendo esso subire una profonda mutazione semantica rispetto alla valenza di senso che lo connota nella società del capitale antropomorfizzato. Ci limitiamo ad accennare di seguito due necessari cambiamenti in questo ambito: la questione del tempo libero e quella del consumo.

10. Per quanto riguarda il primo punto, riteniamo che la ricchezza nel comunismo dovrà significare, innanzitutto, ricchezza di tempo libero, cioè tempo di lavoro che diviene parte sempre più esigua del tempo di vita. Ma come è possibile conciliare tale liberazione dal lavoro, con l’effettiva liberazione dal bisogno di ben oltre sei miliardi di esseri umani? Di certo, non si può tornare a regolare il ricambio organico tra uomo e natura sulla base di “arcadiche” condizioni precapitalistiche. La liberazione dal lavoro deve dunque portare con sé anche la liberazione del lavoro dagli angusti limiti borghesi, che lo vedono attualmente subordinato alla valorizzazione capitalistica, tanto nella sua quantità complessivamente erogata, quanto nella sua concreta subordinata esecuzione, nell’ambito di un’organizzazione predeterminata in modo affatto eteronomo.

11. Se questo è vero allora diventa di grande importanza un ulteriore problema: cosa significa appropriarsi delle conquiste tecnico-scientifiche dell’epoca borghese, senza sottostare agli impliciti compiti cui esse sono storicamente subordinate? La scienza e la tecnica sviluppate nell’ambito del capitalismo non sono infatti mere conoscenze “oggettive” della natura. Esse, costituiscono le specifiche risposte ad una domanda generale: come aumentare la produttività del lavoro entro i limiti della valorizzazione capitalistica, attraverso la conoscenza e l’utilizzo delle leggi della natura? Occorre qui sottolineare che la ricerca dell’aumento della produttività del lavoro non è mai stata perseguita con tanta determinazione e con così ampio dispiegamento di mezzi come durante il capitalismo, in quanto esso è l’unico modo di produzione finalizzato all’incessante accumulazione di valore astratto attraverso la continua crescita delle forze produttive. E’ questo che spiega gli straordinari successi e al contempo i limiti della scienza borghese. I programmi di ricerca, i paradigmi scientifici e quelli tecnologici effettivamente realizzati sono infatti selezionati, a partire dalle specifiche domande provenienti dalla struttura socio-economia, tra i molti possibili in base alle conoscenze e agli strumenti tecnici dati. E’ allora plausibile sostenere che, di fronte a domande diverse, anche le risposte saranno differenti. Ciò nonostante riteniamo che esista un “nucleo duro” della scienza, così come oggi determinatasi, che non potrà che permanere, nella sua sostanza, anche nella società comunista, perché in entrambi i modi di produzione l’apparato tecnico-scientifico dovrà rispondere ad una domanda comune: come aumentare la produttività del lavoro, al fine di sempre più “tendenzialmente” liberarsi da esso? Pur presupponendo questo comune background pratico-teorico, non potranno che emergere profonde differenze: alcuni limiti precedentemente ignorati dovranno infatti essere affermati con forza, per esempio quelli relativi alla tutela della salute umana e dell’ambiente. Altri, invece, verranno a cadere, per esempio tutti quelli relativi al fatto che certe ricerche ed innovazioni tecnologiche, sebbene produttive dal punto di vista dei valori d’uso potenzialmente ottenibili, non lo sono dal punto di vista della profittabilità capitalistica. Per non parlare poi del fatto che, in un mondo avviato sulla strada della generale ricchezza materiale, potranno sorgere nuove domande slegate dalla necessità di aumentare la ricchezza stessa e determinate invece dal puro principio del piacere di una conoscenza fine a se stessa.

12. Tornando al problema della mutazione del concetto di ricchezza, accenniamo al secondo problema in precedenza segnalato: quello del consumo. Diamo qui per scontato che una parte considerevole dei bisogni espressi nella società capitalistica sono bisogni indotti, alienati e dunque destinati a scomparire. Detto questo, pensiamo al comunismo come una società “austera”, o piuttosto come una forma sociale in cui nuovi bisogni potranno liberamente sbocciare? In ogni caso riteniamo che sarà necessario sciogliere il consumo di beni e servizi dalla sua connessione con la proprietà e finanche col possesso. Ciò significa che, laddove sia possibile e anche desiderabile, il consumo di beni appropriati/posseduti individualmente deve essere sostituito dal consumo di beni e servizi collettivi. Questo, non solo per un problema materiale di efficienza complessiva (consumare beni collettivi significa aumentare i valori d’uso a disposizione di ciascuno, diminuendo contemporaneamente il tempo di lavoro necessario a produrli), ma anche per un problema di ordine “culturale”: il consumo collettivo è una forma di vita comunitaria che permette ai singoli di godere della ricchezza prodotta senza escludere gli altri individui, ma insieme ad essi. Non stiamo qui pensando ad un qualche socialismo “da caserma” (o da convento francescano, visto l’attuale revival “a sinistra” del “santo poverello”!?!) dal momento che riteniamo la condivisione collettiva portatrice di una dimensione ludica e festosa. Considerati i limiti posti dai problemi di efficienza e di compatibilità ecologica complessivi, all’individuo dovrebbe essere lasciata la più ampia scelta possibile tra il consumo individuale e quello collettivo, confidando nel fatto che proprio questa dimensione festosa e l’abbandono di ansie proprietarie comportino una preferenza, per quanto non esclusiva, per la seconda opzione.

13. Partendo dal problema del consumo siamo così giunti a considerare una questione più generale: la comunità umana di marxiana memoria non può essere costituita su una base organicistica. In tale ottica, propria delle società precapitalistiche, il legame sociale, sebbene vissuto come naturale e spontaneo, impone di fatto una divisione più o meno gerarchica delle funzioni che, nella sua fissità, incatena/annulla l’individuo nel suo ruolo sociale. La comunità umana marxiana non può costituirsi sull’annientamento dell’individuo. L’individuo pienamente sviluppato deve infatti realizzarsi come forma di superamento storico dell’individualismo borghese. Considerare il rapporto tra individuo e società significa mettere a tema il rapporto tra sfera “pubblica” e “privata” degli individui. E’ la società borghese che, per prima, separa nettamente questi due ambiti, attribuendo al privato un primato fondato su diritti presuntivamente naturali e metastorici. Pur riconoscendo la falsità di questa fondazione storicamente determinata, rimane un problema di non poco conto: il riconoscimento di una sfera privata, lasciata alla pura volontà del singolo, sembra essere l’unica opzione possibile per salvaguardare la libertà individuale. Da qui, dunque l’ultimo ma NON ultimo quesito di come conciliare questa libertà con una regolazione collettiva della vita sociale: l’autentico nodo gordiano che già la Luxemburg seppe individuare come la cruna d’ago ineluttabile per qualsiasi progetto di vita vera, nella futura comunità umana universale, affermando che, in ultima ma fondamentale istanza, “la libertà è sempre quella di chi la pensa diversamente”.

13 maggio 2003

La Redazione di “Vis-à-Vis”
Quaderni per l’autonomia di classe

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Ultime notizie dell'autore «Vis-à-Vis - Quaderni per l'autonomia di classe»

13163