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La classe operaia va in fumo

La classe operaia va in fumo

(8 Settembre 2011) Enzo Apicella
L'articolo 8 della manovra economica permette i licenziamenti senza giusta causa

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Il referendum sull’Articolo 18: discutiamo del merito

di Enrico Pugliese, Ordinario di Sociologia del Lavoro all'Università "Federico II" di Napoli

(24 Maggio 2003)

Personalmente sono sempre stato contrario all’uso dei referendum, in particolare quando si tratta di tematiche che riguardano specificamente i lavoratori. Tra l’altro i referendum – almeno quelli più significativi – hanno portato alla imbarazzante sconfitta dei promotori. Questa norma è valsa per i referendum di iniziativa bigotta e reazionaria sul divorzio e sull’aborto, ma è valsa purtroppo anche per il referendum sulla scala mobile, con il quale la sinistra e il sindacato sono riusciti a procurarsi una delle più cocenti sconfitte del dopoguerra. C’è anche un elemento specifico che mi spinge verso una posizione antireferendaria, la convinzione cioè che non sia né utile né opportuno coinvolgere tutta la popolazione su tematiche riguardanti la classe operaia e le relazioni sindacali. Ciò innanzitutto perché la popolazione (la ‘gente’) ha in generale scarsa competenza e modesta sensibilità per queste tematiche: poco ne sa e non sempre simpatizza.

Detto questo, vorrei esprimere il mio profondo e totale convincimento sull’opportunità di andare a votare a questo referendum e ovviamente di votare per il sì, ma soprattutto di mobilitarsi attivamente nella campagna in difesa del referendum, dei suoi contenuti e dei generali principi e orientamenti dai quali essi discendono. Questa premessa potrà apparire paradossale, ma, come cercherò di spiegare in avanti, alcune obiezioni di base in questo momento non mi sembrano tanto vincolanti e quella del referendum può essere un’utile occasione di chiarimento e rappresentare una prospettiva di affermazione di un movimento di difesa dei diritti dei lavoratori.

Innanzitutto, approfondiamo l’oggetto del contendere con riferimento al merito specifico del referendum. Esso intende estendere anche ai lavoratori della piccola impresa una norma di garanzia che la legge, che va sotto il nome di Statuto dei lavoratori, aveva inteso limitare ai lavoratori delle imprese di più grandi dimensioni. Si tratta dell’Articolo 18, volto a impedire i licenziamenti senza giusta causa. La scelta di escludere le aziende al di sotto di una certa soglia rifletteva la situazione strutturale, e i rapporti di forza e le strategie di alleanza del 1970, proprio all’indomani dell’autunno caldo: una situazione – ci sentiamo continuamente ripetere – profondamente diversa da quella attuale. E sulla portata epocale di questi cambiamenti non sussistono dubbi. I cambiamenti – come continuamente ci ricordano esponenti anche accademici degli ambienti padronali – riguardano la struttura industriale del paese, non più fondata sulla fabbrica di grandi dimensioni con l’organizzazione del lavoro fordista taylorista. Ora le esigenze della produzione snella hanno bisogno di flessibilità nei rapporti di lavoro. Il tipo di industria oggi dominante è riferito ad aziende di dimensioni più modeste, magari organizzate a rete, che necessitano di continui adeguamenti e che non riescono a sopportare i vincoli imposti dallo Statuto dei lavoratori e in generale dalle acquisizioni del diritto del lavoro e dal consolidamento del sistema di relazioni sindacali, che si sono consolidate nel corso del XX secolo e soprattutto nei gloriosi trent’anni dello sviluppo industriale post-bellico.

Di molti di questi vincoli le imprese hanno già da tempo cominciato a liberarsi: e non sono state ad aspettare l’avvento del governo di destra. Alle ragioni degli imprenditori si sono mostrati sensibili anche ambienti accademici, che, con minore o maggior grado di competenza, si sono fatti cantori della flessibilità, senza alcuna sensibilità per i problemi dei lavoratori, che subivano le conseguenze umane e sociali dei processi di forzata flessibilizzazione già in atto da tempo. All’obiettivo, concreto e immediato, delle imprese di ridurre le garanzie dei lavoratori e di avere effettivamente mano libera nell’organizzazione e nel mercato del lavoro si è aggiunto, più di recente quello, in realtà provocatorio, di eliminare l’Art. 18 dello Statuto dei lavoratori, rivendicando la possibilità di licenziare senza giusta causa.

È utile sottolineare il carattere simbolico di questa iniziativa: sociologi, giuristi del lavoro ed esperti di relazioni industriali – di destra e di sinistra – sono in generale convinti che le imprese più grandi non hanno in generale interesse alla pratica dei licenziamenti individuali. che hanno inteso pretendere per principio e per arroganza. I milioni di firme finora raccolte dalla Cgil esprimono l’irritazione per il modo in cui si intende stabilire il principio della ingiustificata licenziabilità, magari da indennizzare con danaro. Le poste in gioco simboliche hanno un forte richiamo e una grande rilevanza.

Nelle attuali circostanze l’Art. 18 rappresenta un elemento di riferimento, la istituzionalizzazione di un principio, una di quelle norme del diritto del lavoro che – come dicono con nostalgico orgoglio i giuristi del lavoro – hanno consegnato al secolo XXI una società in cui i lavoratori vivessero in una condizione più umana e civile. Quando Polanyi scriveva, oltre mezzo secolo addietro, che il peggio è alle nostre spalle, intendeva riferirsi a qualcosa del genere. La classe operaia non è solo merce, ma anche titolare di diritti: e – sul "manifesto" l’abbiamo sempre scritto – questi non sempre sono monetizzabili.

Articolo 18, perciò, come protezione simbolica e – perché no?– anche reale. È per questo che paradossalmente hanno ragione coloro che da destra ironizzano su quelli che difendono con forza l’Articolo 18 nella sua versione attuale, ma esprimono perplessità o dissenso sul referendum che vuole generalizzare a tutti i lavoratori – anche a quelli che lavorano nelle piccolissime imprese – i diritti in esso tutelati. Se si tratta di un giusto diritto dei lavoratori (anzi della persona), non si vede perché non ne debbano godere anche i lavoratori di aziende più piccole. Questo è vero e c’è poco da ironizzare. L’obiezione è dunque assolutamente corretta, ma per i motivi opposti a quella per cui viene fatta.

La situazione produttiva è cambiata, ci dicono. Ed è verissimo. All’epoca dello Statuto dei lavoratori, alla vigilia delle rivoluzione informatica, la fabbrica con 14 dipendenti era pressoché esclusivamente la ‘fabbrichetta’ artigianale più o meno arretrata. Era diversa dalla grande fabbrica: con organizzazione del lavoro standardizzata e – si diceva – con rapporti di lavoro più burocratici e spersonalizzati. Da un lato c’era l’operaio massa, dall’altra c’erano gli operai della piccola impresa con un rapporto personale con il padrone.

Un po’ era così, un po’ questo era lo stereotipo. Ma tutto questo faceva differenza anche in termini di contratto di lavoro e di licenziabilità. La grande impresa inoltre si poteva permettere di praticare il labour hoarding (il mantenimento di forza lavoro in azienda anche quando non era strettamente necessaria); la piccola impresa no. Qui i livelli di produttività erano più modesti e grande la fatica del piccolo imprenditore. Insomma, la piccola azienda – quella con meno di 15 dipendenti – viveva un vita economica più difficile e aveva bisogno di sconti a tutti i livelli. Essa rappresentava un quota significativa del sistema delle imprese italiano, più alta che negli altri paesi di Europa; e anche per questo si accettò di dare ad essa un grado di protezione, sia pure a scapito dei lavoratori.

Non che ora i divari di produttività non sussistano più. I dati sulle imprese mostrano – come per altro ovunque al mondo – incrementi di valore aggiunto per addetto al crescere della dimensione aziendale, oltre che ovviamente aumenti delle retribuzioni e del costo del lavoro. Ma è mutato il contesto e sono mutati anche i rapporti interni. La piccole imprese – si può dire – prima erano davvero tutte piccole. Questa non è né una tautologia né una banalità. Il principale motivo per cui il limite imposto dallo Statuto dei lavoratori non ha più lo stesso senso di prima è che l’impresa con 15 dipendenti può ora essere piccola, media o finanche grande dal punto di vista economico e finanziario: in qualche ambito essa può rappresentare una piccola potenza finanziaria.

I processi per cui si è arrivati a questo esito sono molteplici. In primo luogo quelli ovvi: la rivoluzione informatica e in generale il forte sviluppo tecnologico, che hanno permesso di ridurre drasticamente la mano d’opera necessaria nella produzione. La cosa è evidente nella industria, dove quantità enormemente superiori di merci possono esse prodotte impiegando quantità enormemente più modeste di persone. Ma l’informatica e la microelettronica aggiungono qualcosa di più, un salto di qualità in questa direzione, sia per la eliminazione di determinate operazioni (e relative ingombranti macchine) sia per il fatto che esse possono essere allocate all’esterno dell’impresa.

E questo ci porta al secondo punto, che è quello più importante: i processi di destrutturazione e riorganizzazione aziendale. È qui che si è realizzato quel livello di trasformazione tale da rendere molto meno significativa la questione del limite dimensionale a 15 addetti. Di questi processi di destrutturazione-riorganizzazione poco si discute e scarse sono le ricerche in materia. Si discetta in generale e in astratto di flessibilità, ma pochi sono gli studi fondati su di una analisi approfondita della realtà produttiva delle aziende e dei processi lavorativi. Piuttosto attenti su questo però sono i giuristi del lavoro, proprio per le implicazioni che i cambiamenti hanno rispetto alla collocazione dei lavoratori, ai rapporti con le controparti e soprattutto al carattere sempre più mutevole e sfuggente delle controparti.

Insomma stiamo parlando di quel colossale processo di trasformazione-destrutturazione aziendale che va sotto il nome di outsourcing. Con questo termine si designa il processo per cui una serie di operazioni svolte all’interno dell’azienda e con lavoratori dipendenti dall’azienda stessa sono ora sempre più frequentemente gestite da parte di altre imprese, collocate fisicamente nello stesso luogo fisico dell’azienda – diciamo così – ‘madre’, o in altro luogo.

Ci si chiederà cosa c’è di diverso rispetto ai processi di decentramento produttivo che conoscevamo una volta. La novità consiste proprio nel fatto che i lavoratori di una impresa che contribuiscono alla produzione di una merce con un determinato marchio, lavorano spesso proprio all’interno delle mura della stessa fabbrica, magari svolgendo le stesse operazioni, però alle dipendenze di un altro padrone (che forse è indirettamente lo stesso). La questione è dunque quante volte bisogna contare fino a quindici perché l’azienda rientri nella soglia prevista dallo Statuto.

Queste cose, questi processi non c’erano trentacinque anni addietro, quando Giacomo Brodolini pensava alla Statuto dei lavoratori. Certo: alcune operazioni di scorporo riguardanti la pulizia, gli autobus per il trasporto dei lavoratori, le mense aziendali e altro erano già cominciate allora. Ma ora si tratta di processi e fenomeni assolutamente diversi. Le operazioni oggetto dell’outsourcing riguardano in generale blocchi interi del processo lavorativo in senso stretto, dove non cambia né l’organizzazione aziendale, né il lavoratore. Cambia solo la proprietà. C’è dunque una moltiplicazione delle proprietà e – dal punto di vista dei lavoratori – delle controparti all’interno dello stesso stabilimento, delle stesse mura, dove lavorano spesso gli stesi operai con le stesse macchine. E questo è un processo di destabilizzazione di portata eccezionale, giacché l’impresa vera e propria si sottrae a tutta una serie di vincoli e responsabilità nei confronti dei lavoratori, che vanno ben oltre l’Articolo 18.

Le piccole aziende sono dunque a volte più grandi e comunque diverse per due ordini di motivi.

In primo luogo – e questo è più noto e meno importante – perché lo sviluppo tecnologico e in particolare la microelettronica hanno permesso di sostituire uomini con macchine.

In secondo luogo – e questo è l’aspetto più importante – con i processi di outsourcing e ristrutturazione, esse non sono altro che il nocciolo e il nucleo motore di una grande azienda, che prima li conteneva insieme ad altre, oppure pezzi – a volte anche significativi – di altre e più corpose aziende, con organizzazione e rapporti di lavoro che nulla hanno a che vedere con il clima della piccola impresa artigianale di una volta. Insomma l’outsourcing non è dispersione produttiva né decentramento produttivo: è un processo che porta a un complesso intreccio di realtà aziendali, magari in situazione gerarchica, e rappresenta il prodotto di forme moderne di evoluzione della produzione.

All’interno del vasto arcipelago delle imprese sotto i 15 addetti ci sono tante realtà. Ed è perciò opportuno articolare il discorso in base ai diversi settori produttivi, distinguendo tra industria e servizi, inquadrandolo all’interno delle grandi trasformazioni della struttura produttiva italiana.

Secondo il rapporto dell’Istat sulla situazione italiana (rilevazioni sulle imprese), i lavoratori dipendenti delle industrie manifatturiere (di ogni dimensione) sono in tutto 4.152.000: una cifra davvero modesta e pari a meno di un quinto del totale degli occupati italiani e a una percentuale ancora più limitata del totale delle forze di lavoro. Una cifra poi non diversa da quella di 35 anni addietro e solo leggermente inferiore di quella di dieci anni fa: in questi anni, infatti, il calo dell’occupazione industriale, del quale si sente sempre parlare, ha riguardato – come si sa – solo la grande industria, non tutta l’industria. Agli occupati in fabbrica vanno aggiunti gli 814.000 dipendenti dell’edilizia, con il che il quadro non si modifica di molto. Il massimo numero di lavoratori alle dipendenze di imprese (cioè nel settore privato nell’economia) lo troviamo nei servizi. Essi sono 4.276.000, vale a dire circa 100.000 in più degli occupati nell’industria. Questa è l’occupazione dipendente totale nel settore privato dell’economia in Italia.

Inoltre, in ciascuno dei settori indicati (manifattura, edilizia e servizi) bisogna tenere conto anche dei lavoratori autonomi, spesso titolari delle imprese dove sono occupati i lavoratori dipendenti, che abbiamo prima contato. Essi sono circa 800.000 nell’industria, concentrati praticamente del tutto nelle imprese con meno di 20 addetti, e portano il totale degli addetti al settore a 4 milioni e 968 mila. Gli autonomi ovviamente hanno comprensibilmente una incidenza molto più alta nel terziario e in edilizia.

Prendendo per buoni questi dati, passiamo a vedere quanti sono più o meno – e con criteri largamente ‘nasometrici’ – i lavoratori già protetti dallo Statuto dei lavoratori e quanti quelli potenzialmente interessati dal referendum. I primi sono un po’ più di 6 milioni (come somma dei dipendenti dell’industria e di quelli del terziario), mentre i secondi sono un po’ meno di tre milioni ( i lavoratori dipendenti di imprese sotto i 15 dipendenti). Tra questi, meno di un milione e mezzo si trovano nell’industria; anzi, se ci riferiamo alla sola industria in senso stretto (detratte le costruzioni), scendiamo a qualcosa come 900.000.

È per questi che si fa la battaglia. Non solo per loro. Ma se pure fosse solo per loro, la battaglia sarebbe più che legittima. Chi ha conosciuto la vita nella piccola azienda industriale negli ultimi dieci anni o venti anni sa bene come sia duro, difficile e pericoloso il lavoro in quelle situazioni. Il grado di sfruttamento della piccola impresa industriale è andato aumentando negli ultimi anni, in rapporto al peggioramento delle condizioni di lavoro. Studi sulla condizione operaia non se ne fanno più. Il Pci ha smesso di farne quando è diventato Pds. Ma si sa come sia debole nella piccola fabbrica la situazione dei lavoratori e delle loro stesse rappresentanze. Ed è per questo – per il fatto che l’abuso, compreso il licenziamento senza giusta causa, è la norma – che è giusto e sacrosanto rivendicare l’estensione dell’Articolo 18. Il licenziamento per rappresaglia è il rischio maggiore che corre chi, in queste condizioni, si permette di fare azione sindacale o di organizzare la lotta contro quelle condizioni di lavoro.

E la cosa è ancora più vera per i lavoratori del terziario. Un padrone può avere due o tre ditte di pulizia sotto i 15 dipendenti. Non vedo cosa ci sia di male a impedire il licenziamento per rappresaglia in ciascuna di queste imprese. Sfido a questo proposito i contrari al referendum a vedere un po’ come si lavora alle dipendenze di una ditta di pulizia .

Inoltre è proprio nel terziario che l’outsourcing si pratica con maggior forza. Pensiamo alle case editrici. Una volta, se si pubblicava un libro dall’editore ‘tal dei tali’ di Roma, si andava in redazione dove il libro veniva – come si dice in gergo – ‘lavorato’. Ora in redazione c’è solo qualche signora colta ed elegante, magari parente del padrone, perché il libro lo lavora la ditta ‘Artemisia’ (o che so io) di Siena, con non si sa con quali rapporti con la casa editrice madre: e nella quale chi lavora è magari socio di cooperativa.

E questo ci porta alla seconda delle obiezioni al referendum, quella in un certo senso di segno opposto. Si dice che questa misura interessa solo una parte dei lavoratori meno protetti. Anzi si afferma che in un certo senso anche i lavoratori a tempo indeterminato alle dipendenze di imprese di dimensioni sotto i 15 addetti appartengono a una categoria di garantiti (di insiders, come si dice ora). Questo, da un certo punto di vista, è vero: la maggior parte di giovani che hanno trovato lavoro in questi ultimi anni non hanno problemi di licenziabilità (con o senza giusta causa), giacché lavorano con un contratto a tempo determinato o come collaboratori coordinati e continuativi (e quindi non come veri e propri dipendenti), anche quando lavorano di fatto in posizione subordinata in aziende soprattutto nel terziario. Ma i loro problemi sono analoghi – solo un po’ più gravi – a quelli degli occupati teoricamente a tempo indeterminato. Non c’è alcun motivo per metterli in contrapposizione.

Questa è l’epoca del lavoro atipico: dato rispetto al quale bisogna far chiarezza. Quando si parla di lavori atipici ci si riferisce solitamente al tipo di occupazioni che esulano dal modello che si era andato consolidando nel corso del ventesimo secolo, fondato su di un rapporto di lavoro stabile alle dipendenze e a pieno tempo. Intorno a questo modello era andata costruendosi la normativa sul lavoro e intorno a quel modello si era andato strutturando il sistema di relazioni industriali e sindacali. In Italia il culmine di quel modello è stato rappresentato dallo Statuto dei lavoratori. Ma, da più di quindici anni, è iniziato un processo di arretramento, di riduzione delle garanzie e di forti innovazioni sul piano del governo del mercato del lavoro e dei rapporti di lavoro, che ha incrinato pesantemente quel modello e ha avuto il suo culmine nella Legge delega sul mercato del lavoro, appena approvata. Il processo è motivato da una serie di assunti tutti discutibili e a volte pesantemente insensati.

Il primo è che la scarsa capacità di sviluppo occupazionale, in Italia come in Europa, sia dovuta, innanzitutto, a comportamenti dell’offerta di lavoro, che sarebbe troppo rigida e rifiuterebbe le occasioni di lavoro effettivamente offerte. Questo assunto è anche alla base del Libro Bianco del governo; ma c’è una vasta schiera di economisti – non solo di sinistra estrema –, che sottolineano come l’origine della disoccupazione nel Mezzogiorno abbia a che fare con la domanda di lavoro, cioè con la politica economica e non con le politiche attive del lavoro, che servirebbero ad adeguare l’offerta di lavoro (che peraltro non c’è).

L’altro assunto riguarda la presunta assenza di mobilità del lavoro in Italia. La credenza – smentita da dati elementari – è che in Italia si vuole restare a tutti i costi abbarbicati al posto di lavoro con grave danno per le imprese. Il libro di Bruno Contini, edito di recente 1, mostra al contrario proprio come in Italia nel settore privato dell’economia il tasso di mobilità sia molto alto, molto più alto che negli altri paesi Europa. Insomma, la trasformazione della struttura dell’occupazione è già cominciata da tempo nel nostro paese. La precarizzazione è forte e riguarda soprattutto i giovani: sono loro le principali vittime del processo di destrutturazione del mercato del lavoro e dello smantellamento delle garanzie all’interno dell’occupazione.

I lavoratori atipici ‘forzati’ sono tanti, tantissimi: ormai sono milioni. Rispetto alla dimensione del fenomeno però bisogna stare attenti a evitare confusioni: per esempio a non sommare tutte queste categorie, giacché molti degli atipici rientrano nelle categorie che abbiamo prima elencato, come i lavoratori dipendenti o i lavoratori ‘autonomi’ (tali, ad esempio, vengono considerati i collaboratori coordinati e continuativi: i ‘co-co-co’). Ma per questo rimando all’articolo di Giancarlo Aresta2.

Nella loro maggior parte i lavoratori atipici non rientrano tra i potenziali interessati dall’estensione dall’Articolo 18. Ma questo non è un buon motivo per ritenere che essi non siano interessati alla estensione dei diritti ai lavoratori della piccola impresa, dove in generale sono collocati. Il messaggio repressivo di ascendenza ‘dalemiana’ "meno ai padri, più ai figli" non ha mai convinto la gente, soprattutto i figli. I ragazzi sanno che la riduzione delle garanzie offre loro l’ingresso in una situazione del mercato e della organizzazione del lavoro sempre più destrutturata. E di questo non hanno che da soffrirne. Il clima di controllo e di abuso si generalizza. La riduzione dei diritti anche per gli occupati con contratto a tempo indeterminato stabilisce un clima di soggezione e di paura, che è svantaggioso anche per chi è assunto a tempo determinato.

Insomma all’estensione dell’Art.18 a quei lavoratori a tempo indeterminato, che ora ne sono esclusi, sono interessati tutti. La crescente disperazione che serpeggia tra i giovani – che li porta fuori dalla politica tradizionale e li rende spesso poco interessati alle tematiche sindacali – non li ha ancora incarogniti: se la prendono con tutti, ma non con ‘i garantiti’. I "privilegi degli insiders" sono una bufala inventata da qualche intellettuale filopadronale. I ragazzi ce l’hanno con il destino, o con la società ingiusta; qualcuno magari ce l’avrà finanche con il capitalismo. Di certo non ce l’hanno con gli operai e i lavoratori dipendenti, soprattutto quelli di aziende sotto i 15 dipendenti, dove hanno già qualche fratello che tira avanti una vita dura.

E allora torniamo al referendum. La tragedia delle nuove condizioni di lavoro passa ora attraverso le famiglie. Sono i ragazzi che stanno in casa ad aspirare a condizioni di lavoro meno mortificanti. Essi spesso lavorano al nero. Gli va meglio se hanno un contratto ‘co-co-co’ o a tempo determinato. E se – per colmo di fortuna, si fa per dire – gli spetta una assunzione regolare a tempo indeterminato vorrebbero evitare abusi e ricatti di licenziamento.

E allora gli altri? Gli altri sanno di essere sulla stessa barca. E lo sanno anche le mamme e i padri degli altri. Ecco perché su queste tematiche la gente è sensibile. Contrariamente al referendm sulla scala mobile, questo referendum può davvero toccare la gente comune, può interessare i padri per i figli. Per questi motivi credo che la mia tradizionale e radicata obiezione ai referendum politici su tematiche di lavoro in questa occasione non regga. La gente ora è interessata. Eccome.

L’altra obiezione è quella secondo cui questo referendum casca in un brutto momento ("non ci voleva proprio ora"), perché rischia di spaccare la sinistra. È una obiezione seria, ma non bisogna dimenticare che il primo attacco all’unità viene da chi pensa e scrive che l’Articolo 18 dovrebbe essere cancellato per tutti. Penso che bisogna discutere a lungo anche con gli esponenti di questa linea spiegando cos’è la vita di un insider – come lo chiamano loro –, in una fabbrica metalmeccanica o in una ditta di pulizie.

Sul tema dei diritti del lavoro la destra è stata all’attacco ed è riuscita a imporre le sue scelte sia sul piano strutturale che sul piano istituzionale. E tutto è avvenuto con scarsa capacità e volontà di risposta, fino alla grande raccolta di firme in difesa dell’Articolo 18, che ha imposto comunque un alt al governo. Questa può essere la seconda ‘volta buona’. È una grande occasione di dibattito e mobilitazione. Certo, il governo attuale (eletto dal popolo, sia pure con ristretto margine) con la Leggi di delega sul mercato del lavoro ha imposto un grado di smantellamento del sistema di garanzie mai visto. Il diritto del lavoro "che aveva consegnato al XXI secolo una società più umana" va a farsi benedire. La battaglia parlamentare non solo è persa, ma con il sistema della delega si è impedito di farla.

Allora, l’iniziativa referendaria è un’occasione: un’ occasione di mobilitazione, ma anche di chiarimento e dibattito. È, nello stesso tempo, una battaglia da fare e a far la quale bisogna convincere la gente. "Let’s die in harmish", non lasciamoci uccidere senza combattere (Shakespeare). E poi non è detto che non ce la si possa fare.

Enrico Pugliese

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