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Questo benedetto articolo 18

(25 Maggio 2003)

I promotori del referendum sull'articolo 18 avevano due preoccupazioni: temevano che i mass media ne parlassero poco e, quel poco, in maniera distorta.

Puntualmente del referendum, almeno fino ad oggi, si parla, ma per confondere le idee degli elettori e delle elettrici. Su cosa si andrà a votare il 15 e 16 giugno, infatti, c'è in giro parecchia confusione, e in tanti si affannano ad aumentarla.

Proviamo a ricapitolare. E' diffusa la convinzione che in Italia non si possa licenziare. Falso: si possono attuare licenziamenti di massa ricorrendo alla legge 223/91 e anche licenziamenti individuali. E' di questi ultimi che si occupa il referendum.

Ogni datore di lavoro ha, in Italia, un bel numero di motivazioni per licenziare un proprio dipendente. Come funziona il sistema è presto detto. Un lavoratore che riceve una lettera di licenziamento ha due strade davanti a sé: o accetta il licenziamento, e il caso si chiude, o ricorre al giudice.

Il giudice investito dal problema può dichiarare legittimo il licenziamento e allora il lavoratore è licenziato e la cosa finisce lì. Se invece dichiara il licenziamento illegittimo, scattano degli obblighi per i datori di lavoro: per quelli di imprese con oltre 16 dipendenti, c'è l'obbligo al reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato. Quelli di impresa con meno di 15 dipendenti possono invece mantenere il licenziamento, anche se ingiustificato, ma devono pagare a quel lavoratore al massimo sei mensilità.

Ebbene, se vince il Sì anche questi ultimi datori di lavoro saranno costretti a reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato.

Ma quanti sono ogni anno, in Italia i ricorsi presentati ai giudici da lavoratori licenziati? Gli ultimi dati dicono poco meno di duemila, di cui quasi cento (dato Confapi), riguardano imprese sotto i 15 dipendenti.

Ma allora valeva la pena, con tutto quel che costa, indire un referendum per far avere esito diverso a cento casi l'anno? La cosa messa così porta fuori strada. Tutto nasce dal fatto che il governo Berlusconi, due anni fa, appena insediato, partì all'attacco dell'articolo 18: una piccola modifica, quasi insignificante. Alcuni partiti, alcuni sindacati e un po' di associazioni videro in quella modifica l'avvio di un attacco più generale al mondo del lavoro. Videro giusto perchè sulle intenzioni di Berlusconi contro chi lavora, a distanza di due anni, nessuno nutre più dubbi. Peraltro, la legge 30 sul mercato del lavoro, con tutte le sue misure di destrutturazione contrattuale, vanificherà, se non imporremo una diversa politica, il diritto al reintegro anche per i dipendenti delle grandi aziende.

Quei partiti e quelle associazioni pensarono, allora, di fermare il governo indicendo un referendum. Siccome il referendum in Italia è solo abrogativo, chi studiò la cosa, per fermare l'assalto di Berlusconi, non trovò di meglio che un quesito estensore di quel diritto a lavoratori che oggi non ce l'hanno.

Un quesito, a ben pensarci, geniale: perché se il 15 e 16 giugno vince il Sì faremo fare a Berlusconi la figura dei pifferi di montagna: partito per suonare verrà suonato. Se invece non ci sarà il quorum o dovesse vincere il no (ci pensino gli astensionisti sindacali e di "sinistra"), Berlusconi ripartirà, sull'articolo 18 e sul resto, da dove s'è fermato. Questa in soldoni la posta in gioco il 15 e 16 giugno.

Fabrizio Burattini
CGIL Roma

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