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Psicocomunista

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(14 Novembre 2010) Enzo Apicella

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Accettare la sfida

Il contributo della Rete dei Comunisti alla ricostruzione di una sinistra anticapitalista e alla soggettività dei comunisti nel nostro paese. (dall'ultimo numero di Contropiano)

(16 Ottobre 2009)

La ripetuta sconfitta elettorale alle europee di giugno dopo quella dell’aprile dello scorso anno, hanno confermato che sono saltati i rapporti tra i partiti della sinistra e il loro blocco sociale di riferimento e che la stessa internità dei comunisti alla classe non può più essere data per scontata. Ci sembra ormai chiaro come in questi due anni non siano stati analizzati a fondo i segnali di estraniamento e rottura che venivano dai settori popolari e dai lavoratori, ma neanche quelli che venivano dal “popolo della sinistra” costituito dagli attivisti che pure in questi anni hanno dato vita a mobilitazioni importanti contro la guerra, nelle vertenze territoriali e sul piano sindacale.

Il primo segnale era stato quella manifestazione del 9 giugno 2007 in cui questa rottura si era visualizzata nettamente sulla politica estera del governo Prodi in occasione della visita di Bush a Roma. In quella occasione titolammo la prima pagina di Contropiano con l’interrogativo “Una sinistra senza popolo?”, segnalando la divaricazione tra i quartieri generali dei partiti che sostenevano il governo Prodi isolati in una piazza e il partecipato corteo dei movimenti che sfilava da un’altra parte. Poi ci sono state le elezioni di aprile e la verifica negativa dell’Arcobaleno. A maggio del 2008 avevamo provato ad aprire un primo confronto avanzando anche delle proposte che abbiamo “congelato” alla luce del risultato del congresso del PRC a Chianciano che sembrava voler avviare un percorso diverso da quello ultrapoliticista della fase precedente. I fatti e le scelte operate anche in questi mesi ci hanno detto invece che è continuata quella che abbiamo definito una “marcia sul posto” cioè l’illusione di essere in movimento rimanendo invece sostanzialmente fermi.

Perché serve una rivoluzione culturale
Riteniamo che nei partiti della sinistra si manifesti non solo una crisi di progetto e di capacità di lettura della realtà, ma anche quella del modello di organizzazione dei comunisti e dei militanti ormai inadeguato. Il partito di massa non regge senza la dimensione istituzionale ma questa dimensione ha trasformato i partiti in apparati elettorali (in cui i gruppi parlamentari contano più delle strutture di direzione) e limita l’attivismo dei militanti alla propaganda. L’idea dominante secondo cui l’esistenza in vita nella politica e nel conflitto sociale è certificata solo dalla dimensione istituzionale, oggi viene demolita dal fatto che questa dimensione parlamentare non esiste più ed è possibile che non esisterà più per un indefinito periodo di tempo. Dunque le abitudini su cui si sono formati (e deformati) migliaia di compagne e compagni negli ultimi quaranta anni non hanno più le basi materiali. Agire politicamente in una obbligata condizione extraparlamentare impone dunque una rivoluzione culturale anche nella concezione dell’organizzazione e della militanza. Noi non liquidiamo affatto il terreno elettorale come terreno della lotta politica ma riteniamo che la prevalenza dell’elettoralismo sia una malformazione genetica che va rimossa dalla cultura politica della sinistra anticapitalista e dei comunisti nel nostro paese. La fine della dimensione istituzionale non può essere vista come la “fine della storia” e dunque come buon motivo per andarsene a casa. Forse chi ha fatto della politica il suo mestiere può cercare di riciclarsi in altri apparati (spesso anche indipendentemente da qualsiasi ragionamento o adesione politica), ma chi vive una condizione materiale precisa, chi fa il ferroviere, l’insegnante, l’operaio o lo studente, chi è precario o ha perso o rischia di perdere il lavoro, sta dentro una condizione materiale di esistenza, di esigenze e bisogni che non consente di ritirarsi perché la crisi economica ti stana anche dentro casa, e in quel caso è meglio affrontare la crisi collettivamente piuttosto che individualmente.

L’indipendenza politica come fattore dirimente
Il punto dirimente di quella che riteniamo una necessaria rivoluzione culturale è l’indipendenza di classe, politica e organizzativa.

Indipendenza politica significa rompere e sottrarsi apertamente al bipartitismo coatto che, pur se stoppato con il riuscito boicottaggio del referendum del 21 giugno, agisce in modo ancora più forte sul piano delle amministrazioni locali come regioni, comuni e province. Ma indipendenza significa anche indipendenza organizzativa e soprattutto sul piano del conflitto di classe reale. Riteniamo che i due maggiori partiti comunisti debbano smettere definitivamente di pensare che il sindacalismo di base sia l’ennesima bizzarria dell’anomalia italiana (anche perché il fenomeno non esiste nelle stesse dimensioni negli altri paesi europei). I sindacati di base sono diventati uno strumento dell’organizzazione del blocco sociale antagonista perché la Cgil non accetta e non accetterà mai questa funzione e l’influenza della sinistra anticapitalista e dei comunisti sulla Cgil è irrilevante. Tra l’altro non è secondario rammentare che la Cgil sta firmando molti dei contratti incardinati nei parametri dell’accordo del 22 gennaio siglato da Cisl, Uil e Ugl. In secondo luogo occorre sottolineare come il sindacalismo di base (e i movimenti sociali) nel nostro paese siano l’unica esperienza in crescita e con potenzialità ormai visibili in una situazione di crisi, logoramento e difficoltà “politica” di tutte le forze della sinistra.

Sull’unità dei comunisti
Vogliamo anche spiegarci bene sulla questione dell’unità dei comunisti che è stata posta ripetutamente come prioritaria da alcuni settori di compagni. La domanda da porci ed a cui va data una risposta non congiunturale è quali siano oggi i fini dell’unità dei comunisti in un solo partito. Il partito in sé non è un fine ma uno strumento per raggiungere il fine che si è deciso di perseguire. Alla luce dell’esperienza storica italiana e di quello che sono diventati oggi i partiti comunisti nel nostro paese, dobbiamo dare delle risposte su quali siano gli obiettivi strategici: è il ritorno alla programmazione economica neokeynesiana o è la riapertura della prospettiva del Socialismo nel XXI° Secolo come alternativa alla crisi del capitalismo come ci indica il processo in corso in America Latina? E’ dunque un progetto riformista o un progetto di alternativa politica? E’ la speranza nascosta che in qualche modo tutto ritorni alla condizione prima del 13 aprile 2008 o quella di una nuova sfida strategica da ingaggiare dentro la crisi del capitalismo? Gli accordi “tattici” di governo locale o nazionale con il PD quanto hanno logorato e continueranno a sgretolare la credibilità dei comunisti nel nostro paese? Il partito comunista può esistere indipendentemente da una sua credibilità, connessione e credibilità tra i settori popolari e i lavoratori? Rispondere a queste domande è il passaggio dirimente e preliminare per qualsiasi confronto sull’unità dei comunisti per non riproporre sul terreno delle opzioni quella che in Italia è stata la stagione del riformismo in politica interna coniugato con “l’internazionalismo” solo in politica estera. Per i comunisti nel nostro paese si tratta dunque di mettere in campo un punto di vista complessivo che faccia i conti con la storia di questi due decenni di “rifondazione mancata” e attualizza l’opzione comunista sulla base di una credibilità oggi da riconquistare dentro la realtà sociale innanzitutto.

Il nodo irrisolto della rappresentanza politica. Su quali contenuti colpire uniti?

Non ci sembra superfluo sottolineare come a maggio del 2008 la Rete dei Comunisti avesse avanzato una articolata proposta politica per la sinistra anticapitalista e i comunisti. Si trattava di un programma minimo che rendesse i contenuti stessi il “soggetto politico” su cui coordinare l’iniziativa comune delle forze della sinistra anticapitalista e dentro di questa (e non fuori) dei comunisti. Oggi riteniamo di dover mantenere un confronto aperto a tutto campo tra le forze della sinistra e tra i comunisti che entri nel merito di un progetto di fondo (su cui permangono divergenze) e di proposte di azione politica comune da sperimentare concretamente.

Le prime questioni attengono alla riaffermazione dell’indipendenza politica dal PD (anche sul piano locale) e alla consapevolezza che il sociale oggi stia prevalendo sul politico a causa dell’arretratezza e della perdita di credibilità di quest’ultimo. E’ questa una consapevolezza decisiva per approcciare la questione della rappresentanza politica di un blocco sociale antagonista che riteniamo centrale. Il sostegno al sindacalismo di base e l’indipendenza dal PD come opzioni rilevanti ai fini della ricomposizione di un blocco sociale anticapitalista, restano per noi una scelta strategica che sappiamo però non coincidere con quella di altri soggetti della sinistra e del movimento comunista con cui ci stiamo confrontando.

Diversamente, su altri terreni, che pure definiscono una identità e una funzione politica per la sinistra anticapitalista, riteniamo fattibile proporre un piano di azione politica comune:
- la questione democratica sulle forme della rappresentanza (il sistema proporzionale come unico modello della rappresentanza democratica), la difesa e l’estensione delle libertà e la fine delle discriminazioni antisindacali, l’opposizione allo stato di polizia e la messa al bando della legislazione d’emergenza che ci trasciniamo come “normalità” dagli anni Settanta;
- La lotta alla guerra e al ruolo imperialista dell’Italia (Afghanistan, Libano, l’alleanza strategica con la NATO e con Israele);
- La resistenza attiva all’oscurantismo del Vaticano e dell’egemonia reazionaria sulla politica, la società e la scienza;
- La dimensione sociale e anticapitalista della questione ambientale
Siamo coscienti del buco che si apre nel paese con la fine della sinistra e siamo pienamente consapevoli di non essere autosufficienti in questo percorso di ricostruzione. Siamo altrettanto consapevoli che su alcuni di questi punti (niente accordi con il PD anche sul piano locale e questione sindacale) non c’è convergenza, mentre sugli altri punti c’è invece maggiore possibilità di azione politica comune. Per questi motivi vediamo con favore un confronto con pari dignità e senza supponenza alcuna anche con la proposta emersa di una “federazione della sinistra” e proponiamo che su tutti o su alcuni di questi punti si possa sperimentare e mettere in campo una alleanza anticapitalista. Un’alleanza inedita nelle forme ma antagonista nei contenuti. Dentro questo processo di re-insediamento sociale e di ricostruzione di un blocco sociale anticapitalista riteniamo di dovere e potere collocare la ricerca, il confronto teorico e la rielaborazione di un punto di vista comunista della realtà in cui ad esempio le riviste, le associazioni culturali, i centri studi possono unitariamente essere un ambito dinamico e socializzante.

Il confronto sulla “federazione della sinistra d’alternativa”
L’appello e la proposta contenuta per la convocazione dell’assemblea nazionale a Roma a metà luglio scorso che ha avviato un processo costituente per una “federazione della sinistra d’alternativa” non possono essere sottovalutati da nessuno. E’ evidente come in questa situazione di crisi si tratta di costruire un punto di tenuta e di ripresa per una possibile sinistra anticapitalista e per i comunisti nel nostro paese. Che la federazione sia in grado o meno di rappresentare questa possibilità saranno i fatti a dimostrarlo. Nell’appello di convocazione di quell’assemblea mancava ancora una valutazione sul come si è arrivati a questo punto di crisi e difficoltà della sinistra e dei comunisti nel nostro paese. Poteva non esserci nell’appello iniziale ma non potrà non esserci in una discussione leale tra i comunisti e i militanti della sinistra anticapitalista. Su diversi contenuti indicati nell’appello di convocazione dell’assemblea di Roma c’è convergenza: pensiamo all’emergenza democratica nel nostro paese (leggi razziali, difesa del diritto di sciopero, abolizione della legislazione e della cultura d’emergenza) inclusa la battaglia per una vera rappresentanza democratica attraverso il ripristino del sistema elettorale proporzionale sul quale è già attivo un tavolo di confronto scaturito dalla battaglia contro il recente e fallito referendum reazionario. Altrettanta convergenza c’è nella battaglia contro l’oscurantismo clericale. Nell’appello invece non c’è alcun accenno alla mobilitazione antimilitarista e internazionalista sulla quale c’è molto da discutere a cominciare dalla vergogna di vivere nel paese che ha il governo più filo-israeliano e antipalestinese d’Europa, subalterno alla NATO e impegnato in prima linea nella guerra in Afghanistan. I compagni del PRC e del PdCI non possono però ignorare che una mancata autocritica pubblica e meditata sul ruolo svolto nel governo Prodi a proposito della guerra in Afghanistan, non è più rinviabile. Da questo deriva la lealtà e la credibilità nel rapporto con i movimenti che hanno animato il movimento No War in questi anni nel nostro paese.

Da questo punto di vista, aprire un processo costituente è tale se crea le condizioni per un rapporto unitario, reciproco e paritario tra chi vi prenderà parte;in questo, i tempi sono importanti. Abbiamo chiarito subito che quella di una federazione è una proposta a cui guardiamo con interesse se non è una proposta congiunturale finalizzata alle prossime elezioni regionali (fissate, a quanto pare, per marzo 2010). La realtà dei fatti ha dimostrato che le forzature di questo tipo sono un errore ed hanno prodotto risultati devastanti. Questa è una fase di recupero e di confronto nella sinistra di classe sia a livello nazionale sia a livello locale, è un processo che riguarda i militanti e i soggetti politici ma che riguarda anche e soprattutto il rapporto con i settori sociali che ci interessa riaggregare e rovesciare contro l’avversario di classe. Sta in questo il nodo irrisolto della rappresentanza politica che occorre cominciare a prendere di petto con serietà e rigore.

CONTROPIANO

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