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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Per i fratelli e le sorelle di Palestina

(27 Dicembre 2009)

Ieri pomeriggio ho letto questa narrazione:

“Era la terza notte che passavo nella casa dei miei genitori. Saranno state le dieci della sera, mi trovavo sulla terrazza della cucina e guardavo un ragazzo dall’età apparente di undici o dodici anni che rimuoveva una bandiera di Israele appesa sopra la porta di un edificio per sostituirla con una della Palestina.
Da molto tempo, le bandiere palestinesi erano state proibite ed allora, alla notte, i ragazzi andavano a fare il cambio.
Il giovane che stavo osservando veniva sorpreso dai soldati. Catturato, fra scherni e derisioni varie, i militari cercarono di costringerlo a baciare la bandiera di Israele e a calpestare quella palestinese. Il ragazzo si oppose decisamente: baciò la bandiera della Palestina e calpestò quella israeliana. Allora lo trascinarono a forza all’interno della sua casa. Viveva a poche porte dalla nostra. Alcuni minuti più tardi, non so dire quanti, ho udito uno sparo. Sapete cosa hanno fatto quei soldati? Avevano portato il bambino in casa sua, avevano costretto i suoi genitori a sedersi su un divano, avevano posto il ragazzo sulle loro ginocchia e QUINDI gli avevano sparato un colpo in testa.
Non chiedermi di raccontarti più storie sulla Palestina. Ho visto troppe cose e molte di queste non sono stata in grado di evitarle, perché avevo un M16 puntato sulla mia testa. La vita di un Palestinese vale molto poco.”


Nulla di inventato, purtroppo, bensì esperienza barbarica vissuta da una palestinese di un villaggio vicino a Gerusalemme (si legga qui http://www.tlaxcala.es/pp.asp?reference=9518&lg=it l’articolo da cui è tratta). Ma proprio perché non è frutto dell’immaginario risulta più emotivamente coinvolgente -ho visto frotte di persone uscire da sale cinematografiche commosse da polpettoni falso sentimentali ed ipocriti; vadano in Palestina quelle persone ed avranno motivi tragicamente reali per spargere lacrime vere-. Il fatto non è recente -di recente c’è che ieri, 26 dicembre 2009, ennesimo baccanale per i cristiani d’Occidente portatori di pace nel mondo con lo stile dei macellai armati con la stella di David, Israele ha commesso sei delitti contro i palestinesi tanto della Cisgiordania (Nablus) quanto della striscia di Gaza (valico [sigillato] di Eretz)-; quell’evento, infatti, si riferisce al mese di agosto di tre anni fa. Di orrendamente attuale, però, e perciò doloroso fino al pianto ed inaccettabile, in quel delitto c’è la ferocia con cui Israele da più di sessant’anni sta torturando la popolazione palestinese nel silenzio -e con la connivenza- dei potenti, e tra i balbettii inutili della grande maggioranza degli abitanti del pianeta -a Occidente di quasi tutti-.

Ma, consapevole che al senso di indignazione per quanto soffrono i fratelli e le sorelle di Palestina ed al sentimento di solidarietà per loro va unità una lucida razionalità sociale e politica, provo ad esprimere alcune convinzioni.

Penso che sia necessario, anche tra chi con persuasione ed impegno -spesso intenso ed estenuante- si è senza dubbio collocato dalla parte e al fianco della causa palestinese, cambiare atteggiamento nei confronti di chi, per motivi ed in modi variamente differenti, si sente distante dalla catastrofe -‘nakba’, così i palestinesi l’hanno definita dal 1947 in poi- vissuta in quella terra.

Il primo elemento che va cambiato è il modo di formulare l’affermazione di fondo che va esplicitata in qualsiasi contesto agiamo il nostro sostegno alla resistenza della Palestina, per cui senza giri di parole né timori reverenziali di fronte a chicchessia dobbiamo sostenere con forza che i palestinesi, in questa loro resistenza all’aggressione e all’occupazione da parte di Israele -che avviene in stretta alleanza con Stati Uniti e potenze occidentali varie, prima fra tutte l’Italia- possiedono tutte le ragioni e tutti i diritti, gli ebrei dello stato sionista, al contrario, nessuno. Credo, infatti, che troppo spesso, e, temo, sempre di più nel tempo, nel parlare di quanto accade da decenni in quella terra, ovvero l’assalto di genti straniere ad un popolo che per diritto di presenza plurimillenaria possedeva legittimamente quei suoli, abbiamo limato parole, ragionamenti, analisi, richiami storici, atteggiamento che, forse assunto nel tentativo, apprezzabile, di trovare alleati nel supporto concreto alla causa palestinese, ha invece dato sempre maggiore forza a falsità e distorsioni che sionisti e loro alleati hanno moltiplicato negli anni cancellando la realtà. Bene: il tentativo di conciliazione l’abbiamo compiuto, e, data la situazione, è evidente che è fallito; ora si tratta di cambiare registro nella nostra azione e di rendere manifesto con chiarezza cristallina, che sarà anche crudezza di rappresentazione della realtà, che il sionismo, da cui è nata l’idea di ‘stato ebraico’ concretizzato da Israele è una volgare ideologia di stile coloniale, violenta e razzista -un paio di giorni fa l’ex presidente USA Carter ha chiesto scusa ad Israele per aver usato in passato questo termine nel trarre un consuntivo di una sua missione da osservatore in Palestina, di questi ‘alleati’ dobbiamo fare volentieri a meno-, e che per questa sua natura violenta e razzista quell’ideologia deve essere affrontata e sconfitta, come le resistenze d’Europa affrontarono prima e durante la seconda guerra mondiale nazismo e fascismo.

Un secondo elemento che va modificato -e in tal senso faccio mio un punto di vista che può essere letto qui http://www.rebelion.org/noticia.php?id=78694 (è in spagnolo, ma è abbastanza comprensibile)- è il modo di definire gli eventi sessantennali di Palestina. Nel nostro parlare, nel nostro scrivere, nel nostro ragionare della catastrofe palestinese spesso ci dimentichiamo che essa è tale, appunto, e utilizziamo per riferircisi l’espressione ‘conflitto israelo/palestinese’ -i sostenitori dei sionisti usano addirittura l’involgarimento ‘arabo/israeliano’, in modo da far sparire anche linguisticamente l’esistenza dei palestinesi e da rovesciare le responsabilità (prima si mette la parola ‘arabo’) di quanto avviene in Palestina-. Di questo ‘errore’ d’atteggiamento è un esempio clamoroso il sito di rete ‘Peace Reporter’ -come si può vedere qui http://it.peacereporter.net/conflitti/paese/4571 e qui http://it.peacereporter.net/mappamondo/paese/46 -, che pur mostrando attenzione ed umana indignazione per quanto viene fatto subire ai palestinesi ad opera di Israele, nel suo presentare la situazione confonde, distorce, dimentica, equipara, tutto conseguentemente all’idea che di ‘conflitto’ si tratta. Ebbene, è necessario uscire immediatamente da qualsiasi ambiguità e quindi modificare anche la terminologia che andremo usando in futuro. Poiché sono le parole che veicolano le idee, quando, anche solo per distrazione, ci riferiamo al genocidio dei palestinesi usando il termine ‘conflitto’ fuorviamo la comprensione della realtà degli avvenimenti in chi ci ascolta ed offriamo ai nemici della causa palestinese un ottimo argomento di difesa dello stato sionista, dato che in una situazione di conflitto le parti che si scontrano sono parimenti responsabili di quanto avviene. Noi dobbiamo, pertanto, divulgare quanto più diffusamente e frequentemente necessario che in Palestina è in atto un’aggressione che, a partire dalla dichiarazione di Balfour (1917), ha preso corpo via via sempre maggiore -le prime infiltrazioni in Palestina da parte degli ebrei sionisti, infatti, sono precedenti alla seconda guerra mondiale- fino a divenire violenta pulizia etnica e aggressione militare dal 1947 ad oggi in forza di una divisione del territorio, operata dall’ONU, che da millenni apparteneva ai palestinesi e solo a loro. Dobbiamo asserire, quindi, anche che già quella deliberazione fu una violazione del diritto dei popoli -e perciò gravissima proprio perché assunta dall’ONU-. La divisione della Palestina, infatti, fu illegittimamente dichiarata ed imposta dall’ONU per redimere le colpe degli europei -che si erano messi nelle mani di nazisti e fascisti- nei confronti degli ebrei europei; che fu voluta dai sionisti per condurre in porto quanto fin dalla seconda metà dell’Ottocento il colonialismo europeo aveva creato ideologicamente, ovvero l’intenzione di dare ad una ‘terra senza popolo’ -cioè la Palestina, che un popolo ce l’aveva da sempre, invece- un ‘popolo senza terra’ -ovvero gli ebrei, che popolo non sono, bensì rappresentano un’identità religiosa che, come tutte le altre identità religiose, ha, ed aveva, come sua terra il pianeta intero-; e che fu sostenuta dagli USA che di una leva di controllo e di potere avevano assoluto bisogno nel Vicino Oriente nel nuovo ordine mondiale che la guerra appena conclusa aveva prodotto. Tutto questo fino ad oggi abbiamo detto con insufficiente perentorietà, dando spazio a difese possibili solo davanti a nostre comunicazioni frammentarie, incomplete, limitate nel tempo e così via. Adesso è necessario che ogni momento in cui creiamo un’azione di sostegno alla resistenza palestinese deve essere accompagnato dall’uso di strumenti storici e politici che narrino con precisione e dettagliatamente come l’aggressione di Israele affondi le radici in un passato lontano dallo sterminio degli ebrei europei da parte dei nazisti e che dopo il 1947 l’assalto vero e proprio alle terre palestinesi ha sempre visto lo stato sionista quale unico provocatore dell’aggressione, a cui da più di sessant’anni i palestinesi resistono con tutti i mezzi, compresa l’azione armata.

Un terzo elemento su cui abbiamo quasi sempre agito con scarsa determinazione è la esplicitazione della reale forma di pensiero dei sionisti israeliani -che sono la grandissima maggioranza della popolazione ebraica di Israele-, credo, ancora una volta, per un malinteso senso della democrazia e del diritto. Vale a dire che, data la situazione storica successiva al 1947, si è andata sempre più consolidando nel campo dei sostenitori della causa palestinese l’accettazione della natura dello stato israeliano e l’arroccamento attorno alla difesa del diritto del popolo palestinese ad esistere. In questo modo, però, non si è sottolineato -o lo si è fatto in modo insufficiente- con la necessaria forza, con la necessaria precisione, con la necessaria azione di svelamento della realtà per quel che è che quel diritto all’esistenza è minato alla base dalla presenza dello stato sionista, a cui non va più in nessun modo e in alcuna occasione riconosciuto alcunché di democratico e legittimo. Anche in questo caso, prendo in prestito quanto l’articolo già più volte richiamato e pubblicato in ‘Tlaxcala’ riporta di alcune -poche, ma più che sufficienti- affermazioni dei capi di governo che dalle origini ad oggi hanno guidato Israele. È stato detto infatti:

- Noi dobbiamo cacciare gli arabi e occupare le loro zone (David Ben Gurion)

- Non esiste nulla che si possa considerare uno Stato palestinese…Perciò a noi è consentito arrivare, scacciarli ed occupare il paese. (Golda Meir)

- La spartizione della Palestina non è cosa giusta. Non l’accetteremo mai. Eretz Israel sarà restituito al popolo di Israele. Tutto intero e per sempre. (Menahem Begin)

- Non può esserci sionismo, colonizzazione, tanto meno uno Stato Ebraico senza l’espulsione degli arabi e l’espropriazione delle loro terre.(Ariel Sharon)

- Non esiste alcun interlocutore palestinese per un negoziato (Ariel Sharon)

- Ho sempre creduto nell’eterno e storico diritto del nostro popolo su tutta questa terra. (Ehud Olmert)

- Mai consentiremo ad uno Stato palestinese (Benjamin Netanyahu)

L’ordine delle diverse asserzioni è cronologico, ma l’ideologia di fondo e l’obbiettivo a cui essa è preposta sono identici dalle origini dello stato sionista fino ad oggi. Questi capi di Israele, peraltro, sostenendo tali principi e simili idee non costituiscono isolate avanguardie di un movimento ancora tutto da costruire e consolidare, bensì rappresentano la quasi totalità dei cittadini ebrei di Israele. Questo nocciolo duro del pensiero sionista, e quindi la volontà precisa dello stato israeliano, dei suoi governanti, della larghissima maggioranza della popolazione israeliana di religione ebraica di voler ripulire etnicamente la Palestina dai suoi millenari e legittimi abitanti attraverso le modalità più svariate -di cui il campo di concentramento e di sterminio a bassa intensità di Gaza è solo la realtà più orrenda di quella volontà- deve pertanto essere presentato costantemente, con argomentazione potente, corroborata da documentazione e analisi che costringamo tutti coloro che ascoltano a realizzare che accogliere l’idea che uno stato ebraico deve esistere corrisponde né più ne meno a dichiarare -come fanno i sionisti- che il popolo palestinese deve scomparire del tutto e che la Palestina deve cambiare nome e storia -e questo nonostante alla fine della seconda guerra mondiale, spezzati nella mente dallo sterminio di milioni di persone nei campi nazisti (la grandissima maggioranza dei quali erano ebrei), i popoli del mondo avevano urlato ‘Mai più?-.

Infine -e non certo per chiudere in assoluto il discorso, ma anzi sperando che venga ampliato, venga migliorato, venga rafforzato teoricamente, storicamente e politicamente, ma soprattutto venga concretizzato con intensità temporale e strumentale infinita-, proprio in forza di quanto ho affermato poco fa, va assunta e divulgata un’idea che, per molti aspetti, è ancora clandestina anche tra i sostenitori dei palestinesi: la necessità di costruire in Palestina un solo stato laico, multietnico, culturalmente e religiosamente plurale, la cui struttura istituzionale deve permettere la rappresentanza di tutte le sue componenti sociali e politiche. Da quando i palestinesi hanno iniziato ad autorappresentarsi dando vita all’OLP (1964), nell’agenda internazionale dell’ONU, degli stati e dei movimenti sostenitori della causa palestinese è diventato obbiettivo primario il principio che stava alla base della deliberazione ONU del 1947 sulla divisione della Palestina, ovvero il riconoscimento dell’esistenza di due popoli e la definizione di due stati -in origine, va sottolineato, l’OLP non accettò questa visione combattendo per il ritorno dei palestinesi in tutta la Palestina-. Quell’obbiettivo, tuttavia, Israele cancellò sin dal 1967 prima con l’occupazione di tutta la Palestina e di alcuni territori di altri stati arabi, poi con la colonizzazione di porzioni sempre più ampie dei territori occupati, infine con lo smembramento di ciò che restava del suolo rimasto ai palestinesi, la distruzione di tutto quanto permetteva l’esistenza dei palestinesi stessi sulla loro terra e l’oppressione materiale e fisica di quelle antiche genti. Se, come ho cercato di sostenere precedentemente, è la stessa ideologia sionista che fa a pugni con l’idea dei due popoli in due stati -e da questo punto di vista si e sviluppato, e persiste, un ritardo di elaborazione formidabile all’interno del movimento sostenitore della causa palestinese-, oggi continuare a dar corso a quell’obbiettivo quando anche la situazione sul terreno la rende del tutto impraticabile significa essere assolutamente privi di una corretta rappresentazione della realtà. Chi oggi vuol sostenere il diritto all’esistenza dei palestinesi, il loro diritto al ritorno nella loro terra, il diritto di chi ora vive in terra di Palestina di restarvi in condizioni di equità e pari dignità non può che abbandonare quell’obbiettivo già negato dalla realtà delle idee sioniste nell’Ottocento e da quella delle azioni di Israele almeno dal 1967 (se non già da prima) -oltre che dalla situazione concreta odierna-, e sostenere con forza la necessità della costruzione di un solo stato in Palestina con le caratteristiche che delineavo all’inizio di questo capoverso. Che significa, però, divulgare con forza, chiarezza, determinazione storica e politica insieme anche l’idea che lo stato di Israele così com’è, teologicamente giustificato nella sua aggressività, nella sua realtà escludente e razzista, nella sua natura autoritaria e bellicista deve scomparire. Se non avremo la volontà di approntare un fronte argomentativo e d’azione che di questo obbiettivo diventi costruttore e propulsore nell’azione di solidarietà a fianco dei palestinesi non sarà possibile in alcun modo difenderne i diritti secondo la bella sintesi che da anni accompagna i momenti di raccolta delle persone affratellate a quegli uomini e a quelle donne del Vicino Oriente: ‘vita, terra, libertà per la Palestina’.

Brunello Fogagnoli

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